La mancata partecipazione ai Mondiali del 1958 rivissuta dalla memoria di Alfeo Biagi.
Eliminati nel 1954 ad opera degli svizzerotti come sapete, gli azzurri rimuginano le fiere vendette per quattro anni, in attesa della «Rimet» che si sarebbe giocata in terra di Svezia: e finirono per restare a casa! Il 1958, infatti, fu forse uno degli anni più infausti per il nostro calcio che, per la prima e finora unica volta, non riusci neppure a qualificarsi per la fase finale della Coppa del mondo in un modo che avrebbe fatto schiattare per l’invidia Ponson du Terrail, il «padre» di Rocambole.
Silurato Czeizler ad opera del Consiglio Federale, i capoccioni ebbero la felice pensata di varare una strampalatissima Commissione tecnica, di cui facevano parte Pasquale, Marmo, Tentorio e Schiavio, con Alfredo Foni allenatore. Chi erano costoro? Pasquale, lo sapete. Luciano Marmo, un gentiluomo di provincia, dirigente del Novara, gran brava persona, magari un po’ fuori dal tempo. Pensate che, in occasione di una partita degli azzurri a Firenze, ebbi modo di assistere a questa esilarante scenetta. Un mio collega lo aveva accusato, sul giornale, di essere più interessato ai polli del Valdarno che alle esigenze degli azzurri, sfotticchiandolo niente male.
I due si incontrano alla stazione di Firenze, Marmo (un uomo alto, massiccio, dal viso sempre accigliato) gli va incontro e gli butta un guanto sul viso, dicendo: «Aspetto i suoi padrini». Il mio collega, un tipo scanzonato e allegrissimo, raccoglie il guanto e dice «Commendatore, mi dia anche l’altro, per favore, ho un freddo alle mani…». Marmo per poco non svenne, si ostinò a chiedere al mio collega di battersi alla spada, io fui richiesto di fare da padrino a quel bel tomo. A Bologna, dove ci riunimmo con i padrini di Marmo, rischiammo di crepare tutti per il gran ridere. Il duello non si fece, Luciano Marmo ci rimase malissimo.
Tentorio era dirigente del Brescia, un tipo un po’ scialbo che portava sempre un buffo cappelluccio calcato in testa, piovesse o splendesse il sole, Schiavio era troppo signore per impegolarsi in certi bassi giochi di corridoio, stringi stringi comandavano in due: l’infaticabile, pirotecnico, vulcanico dottor Pasquale e il taciturno dottor Foni. Tanto che, nell’aprile del ’57, ci fu un altro rimescolo nel pentolone azzurro: Foni fu nominato C.T., con la supervisione della Commissione suddetta alla quale fu aggregato il romano Vincenzo Biancone, un uomo esile, diafano, gentilissimo, che non mangiava mai.
Dunque, si iniziano le eliminatorie per il mondiale del 1958, l’Italia viene sorteggiata in un girone comprendente Portogallo e Irlanda del Nord, tutti tirano un sospirone di sollievo. Il Portogallo (Eusebio era ancora di là da venire) non faceva paura a nessuno, l’Irlanda era una Nazionale pressoché sconosciuta, ci si sentiva in una botte di ferro. Invece capita che, battuta per 1 a 0 (gol di… Cervato su punizione) l’Irlanda a Roma, andiamo a Lisbona e becchiamo brutto 2 a 0 contro i portoghesi, nonostante la presenza in squadra degli oriundi Ghiggia e Pesaola. Sì proprio lui, il Petisso, che allora giocava (niente male, debbo dirlo) ala sinistra nel Napoli. E che collezionò, in quella sciagurata occasione, la sua prima ed ultima maglia azzurra.
Si doveva rimediare giocando il ritorno con l’Irlanda a Belfast dove sarebbe bastato un pareggio per poi liquidare il conto al Portogallo in Italia, nell’ultima partita del girone. E qui scoppiò il dramma che sembrò il più incredibile di tutta la storia del calcio italiano (la Corea sarebbe venuta qualche anno più tardi…). La partita era in programma per il 4 dicembre di quel lontano 1957 e un gran nebbione, che aveva avvolto tutte le isole britanniche in un mare lattiginoso e cupo, giocò il primo, brutto scherzo agli azzurri. La comitiva era arrivata, fortunosamente, a Belfast con un paio di giorni di anticipo, mentre l’arbitro designato, l’ungherese Zsolt, ebbe la pessima idea di mettersi in viaggio solo all’ultimo momento. Superò la tratta Budapest-Londra senza eccessivi ritardi, ma non riuscì più a ripartire. Su Londra e dintorni era piombato una specie di buio a mezzogiorno, aeroporti chiusi, traghetti da Liverpool a Belfast bloccati nei porti, niente da fare. Zsolt se ne restò mestamente in albergo a meditare sulla precarietà dei viaggi nella stagione invernale.
Intanto a Belfast lo Stadio, il tetro, decrepito «Windsor Park», aveva fatto il tutto esaurito. C’era molta attesa (tutt’altro che benevola) per veder giocare i «milionari» italiani, fra i quali, ed era un altro motivo di scherno per i nostri colori, sarebbero scesi in campo due uruguaiani, Ghiggia e Schiaffino, e un cileno, Montuori, i così detti «oriundi» che tante antipatie ci attiravano all’estero, perché tutti avevano il sentore di certe gherminelle federali messe in atto per poter gabellare questi giocatori, che ben poco o niente avevano di «italiano», come autentici azzurri. Dunque, viene l’ora del match, i dirigenti irlandesi, con sottile perfidia tutta britannica, fanno pressapoco questo annuncio a mezzo degli altoparlanti: «Dato il mancato arrivo causa nebbia dell’arbitro signor Zsolt, la partita avrà carattere amichevole. Gli italiani si sono infatti rifiutati di accettare, come direttore di gara ufficiale, l’arbitro locale signor Mitchell».
Figuratevi i fischi, le imprecazioni, i dileggi che rotolarono dalle scalee di legno del «Windsor Park» in direzione degli azzurri quando sbucarono sul terreno di gioco! Era una falsità bella e buona. Non erano stati gli italiani a rifiutare il signor Mitchell, benché fosse irlandese, era stato il Commissario della FIFA presente a Belfast a negare l’autorizzazione allo svolgimento della gara in assenza di Zsolt. Dopo febbrili trattative, nelle quali l’ing. Barassi, presidente federale, aveva avuto la parte di protagonista, si era convenuto di giocare ugualmente, perché i biglietti erano tutti venduti da un pezzo, ma, ovviamente, da amichevole. Senza comunicarlo al pubblico se non a cose fatte. Magari sarebbe stato il solito pateracchio all’italiana, ma poteva salvare capra e cavoli.
La partita, discreta e ben giocata, si risolse con un pareggio per 2 a 2 (segnarono, per noi, Ghiggia e Montuori), ci furono scontri gagliardi, ma niente che facesse pensare all’irreparabile. Invece, al fischio di chiusura, una torma di forsennati si riversò sul campo, urlando invettive e insulti ai nostri giocatori, che cercarono scampo nella fuga. Soltanto Rino Ferrario, lo stopper della Juve, restò attardato (stava firmando l’autografo ad un ragazzino quando scoppiò la bagarre…) e fu travolto. Ne buscò di santa ragione: ma restituì certe botte a molti irlandesi che se le ricordarono per un pezzo. Fu salvato, a stento, dalla Polizia, intervenuta con colpevole ritardo. Una pagina vergognosa per Belfast teatro, molti anni dopo, di ben altre vicende tristissime e grondanti sangue.
Comunque, io ho sempre ricordato la capitale nord irlandese come una delle più brutte e inospitali città del mondo, buia grigia deserta. E guai a metter piede in uno dei tanti pubs della città: mai visto ubriachi tanto violenti in nessun’altra parte della terra. Non vi consiglio davvero di trascorrere le vostre vacanze nell’Irlanda del Nord. Bene, si torna in Italia, la partita viene fissata per il 15 gennaio del 1958 dopo, cioè, l’impegno con il Portogallo, già in calendario per il 22 dicembre ’57, come da precedenti decisioni della FIFA. E contro i portoghesi si gioca a Milano, con un nebbione che non aveva niente da invidiare a quello di Londra, gli azzurri vincono per 3 a 0 (doppietta di Gratton, terzo centro di Pivatelli), ma nessuno riesce a vedere un bel niente. Io, riesco ancora una volta ad infilarmi sul campo, vado in panchina accanto a Foni (erano tempi molto meno rigidi di quelli attuali, bastavano un poco di sveltezza di gambe e una buona dose di faccia tosta per guadagnare posizioni… strategiche oggi impensabili) e accade questo.
A un certo punto, nel mare lattiginoso che avvolge San Siro, vedo un’ ombra che si accosta alla linea laterale e… vomita. Guardo meglio, è Pivatelli, centrattacco del Bologna, quindi mio amico per la pelle. Gli dico: «Gino, cosa succede?». E Pivatelli: «Stiamo vincendo per due a zero, ha segnato due volte Ciccio» (Gratton lo chiamavano così). «No, ribatto, voglio sapere cosa ti succede». «Ah, niente un po’ di imbarazzo di stomaco, adesso torno dentro e vedrai che segno anch’io». Pivatelli fu di parola e io fui forse il… primo spettatore di San Siro a sapere che gli azzurri stavano vincendo. E’ verità sacrosanta, documentabile da quanti erano a Milano quel giorno: bisognò aspettare la fine, e farselo raccontare dai giocatori, per conoscere il risultato esatto di un incontro che nessuno aveva visto.
Ma l’arbitro, lo jugoslavo Damijani, accolto da un paio di giorni a Milano come un pascià, colmato di gentilezze e di piccoli cadeau tanto per tenerselo buono, diresse impavidamente fino in fondo un match, del quale, anche lui, ben poco poteva aver visto. E stilò un referto che fece passare per «buona» una delle partite più fasulle di tutta la storia della «Coppa Rimet»… Dunque, ce l’avevamo fatta. Battuti i portoghesi, per accedere alla fase finale in Svezia sarebbe bastato agii azzurri bissare il pari già ottenuto a Belfast nella famigerata «amichevole» delle botte.
La Nazionale, profondamente rinnovata rispetto al disastro di Lisbona, si stava comportando niente male, Ghiggia e Schiaffino, campioni del mondo nel 1950 in Brasile con la camiseta dell’Uruguay destavano molte speranze, Gratton era in gran spolvero, Pivatelli segnava con incoraggiante continuità. Insomma: la partita-bis di Belfast nasceva sotto il segno della fiducia. Invece…
Cominciò subito la sfortuna a metterci lo zampino: alla vigilia della partenza da Bologna (sede del raduno: allora imperava il dr. Pasquale, ricordate?) per Milano, dove la comitiva sarebbe salita sull’aereo per Belfast, Gratton fu colto da un tremendo mal di gola con febbre e nessuna cura fu in grado di rimetterlo in sesto. Foni, non sapendo che pesci pigliare, ebbe una pensata che si doveva poi rivelare disastrosa: chiamò in fretta e furia un altro oriundo (ovviamente fasullo), il brasiliano Dino Da Costa, che giocava nella Roma e varò la famosa linea con quattro stranieri (se vogliamo chiamare le cose con il loro nome). Precisamente: Ghiggia, Schiaffino, Pivatelli, Montuori, Da Costa. Si doveva cercare il pareggio, si andò in campo con quattro punte e un solo centrocampista, per di più di squisite tendenze offensive: Pepe Schiaffino…
E fu il disastro. Zsolt (che questa volta era arrivato per tempo, mentre il portiere titolare irlandese, Gregg, era rimasto bloccato a Londra dalla solita nebbia e fu sostituito da una strampalata figura di ubriacone ormai trentacinquenne che si trovava a Belfast per caso, la riserva Uprichard…), dicevo Zsolt diede una mano all’Irlanda sbattendo fuori dal campo Ghiggia, reo di un tentato fallo ai danni del terzino McMichael, una specie di macellaio che lo stava torturando dal principio della partita.
Perdemmo per 2 a 1. Segnarono per loro Mcllroy e Cush (fior di giocatori, che militavano nella prima divisione inglese), per gli azzurri andò a bersaglio Da Costa in questo modo. Palla fra i piedi del brasiliano a non meno di trentacinque metri dalla porta. Non sapendo cosa fare, Da Costa eseguì una specie di passaggio al portiere, tanto per sbarazzarsi della sfera. Uprichrad si inginocchiò per raccogliere a due mani, poi si lasciò passare la sfera in mezzo alle gambe fra le risate generali. Riuscimmo a perdere contro una Nazionale che aveva un portiere del genere.
Battuti, eliminati dal mondiale: era la prima volta nella storia del calcio azzurro, due volte campione nel 1934 e nel 1938… Ricordo nitidamente: la sera, una sera uggiosa, piena di nebbia, di pioggia, di strade deserte e silenziose, non potendone più uscii dall’albergo, sfidando gli ubriachi irlandesi. Vedo tre ombre che mi vengono incontro, mi prende una fifa maledetta, respiro: erano tre azzurri che cercavano, come me, un poco di tranquillità passeggiando. Precisamente gli interisti Vincenzi e Invernizzi e lo juventino Corradi. Mi accodai senza parlare, io tacevo loro non aprivano bocca, finalmente Vincenzi sbottò in una imprecazione: «Porco… Quel Foni proprio me doveva venire a pescare per farmi passare sto guaio… Alla Nazionale non avevo un solo capello che ci pensasse e adesso immagina cosa succederà al ritorno in Italia…». E invece neppure il disperato Vincenzi poteva immaginare quello che sarebbe successo.
Andiamo per ordine. Mattina del 16 gennaio 1958, il giorno dopo la disfatta. Gli azzurri debbono ripartire per l’Italia, ma l’aeroporto è chiuso per la nebbia. Pare che da Dublino si possa decollare, Barassi decide di portare la comitiva in treno fino a Dublino, poi di tentare la sorte. Alle 10,30 siamo tutti in stazione, gli azzurri prendono posto in un vagone deserto, sale per ultimo l’ing. Ottorino Barassi, presidente federale, altra figura di primissimo piano del calcio internazionale. Mi avvicino per salutarlo e Barassi, inattesamente, mi prende per un braccio, mi trascina sulla piattaforma del vagone e dice: «Senta avrei alcune cose da dire. Le interessa?». Figuratevi!
E Barassi comincia la più incredibile intervista di tutta la storia del calcio azzurro (fate mente locale: era il presidente della Federazione quello che stava dicendo ciò che vi racconto ora, mica l’ultimo tirapiedi!). Dunque, (cito testualmente), Barassi esordisce così: «Abbiamo perduto l’autobus dei mondiali e la cosa è indubbiamente grave. Io ritengo che sia venuto, direi quasi finalmente, il momento di ricominciare tutto daccapo. Ora non siamo più niente, abbiamo una Nazionale da rifare, un prestigio da ricostruire. Dovremo lavorare sodo: ma potremo farlo soltanto se l’ambiente attorno a noi sarà passabilmente tranquillo». E continua, sempre con voce molto calma e controllata: «Il dottor Foni ha un contratto che lo lega alla Federazione fino al luglio prossimo. Si tratta di un contratto stipulato dal dottor Pasquale quindi non ricordo i termini precisi (nota bene: Barassi era il presidente federale, figuratevi se non conosceva i termini del contratto dell’allenatore della Nazionale!). Certo la posizione di Foni si è fatta delicata: non mi stupirei se ci fossero novità al suo riguardo prima del luglio».
E poi: «Foni è un tecnico molto preparato, esperto del calcio estero, ma ritengo non sia adatto a condurre una squadra sul campo. E’ un bravo generale, ma certe volte sono più utili i sergentacci che vengono dalla gavetta e sanno trasfondere il loro spirito alla truppa. Foni potrebbe risultare utile al Centro Tecnico, per insegnare calcio. Ma per la Nazionale, lo confesso, ho già cominciato a pensare a qualcun altro. Rocco, del Padova, è un uomo molto in gamba, ma c’è Ferruccio Valcareggi che mi piace moltissimo. Seguo il suo lavoro da tempo, ne sono estremamente soddisfatto». (Parentesi: era la prima volta, nel 1958, che si faceva il nome di Valcareggi per la Nazionale: e Valcareggi, allora, allenava il Prato, Serie C! Una autentica bomba).
Ma andiamo avanti ascoltando Barassi: «Per ricostruire la Nazionale bisognerà puntare sui giovani, buttando a mare quella zavorra che ci portiamo appresso da tempo». La zavorra erano gli oriundi, tenacemente voluti da Giuseppe Pasquale, antagonista non ancora dichiarato, ma temibilissimo, di Barassi. «Ci sono infatti delle situazioni che non mi hanno mai trovato consenziente. Schiaffino, ad esempio, gioca in Nazionale per un cumulo di motivi che non tutti conoscono. Spuntò improvvisamente a Roma contro l’Argentina quando nessuno se lo aspettava. Il dottor Pasquale, evidentemente per favorire i dirigenti del Milan, fece in modo che ci si trovasse di fronte al fatto compiuto. Presso a poco quello che accade con Montuori, che fu portato in Brasile perché giocasse la terza partita in azzurro, quella che lo ha fatto diventare «italiano» ad ogni effetto, favorendo la Fiorentina che poté così tesserare un altro oriundo. E sono proprio il Milan e la Fiorentina le due società che più assillano la Federazione con le loro pretese. Sono stati questi favoritismi che ci hanno costretto a venire a Belfast in una data così avanzata perché bisognava attendere che scadessero i tre anni di permanenza di Schiaffino in Italia, come da regolamento internazionale, per poterlo schierare in Nazionale».
C’era da non credere alle proprie orecchie, ma Barassi non aveva ancora vuotato il sacco. Conclude così: «Tornando a Foni, debbo dire che se l’era presa con troppo comodo; è troppo semplice e poco efficace andare a vedere qualche partita di campionato la domenica, il lavoro da fare è ben altro!». Fine. Il treno si mette in moto, io resto a Belfast per telefonare in Italia il servizio che si abbatte sul calcio azzurro come una valanga. Barassi, evidentemente, aveva creduto fosse giunto il momento di sbarazzarsi della troppo invadente presenza di Pasquale, che lui aveva capito benissimo dove voleva arrivare: a sedersi al suo posto. Scelse dunque me, per avere una cassa di risonanza alle sue accuse, dirette soprattutto alla persona di Pasquale, più che a Foni (la cui sorte si era decisa sul campo, come sempre accade in Italia) o alla Fiorentina o al Milan.
Che, ovviamente, respinsero ogni addebito, così come Barassi, non appena messo piede in Italia, tentò una tiepida smentita («le mie dichiarazioni sono state fraintese…» eccetera eccetera). Io replicai, fu chiarissimo a tutti che soltanto un folle avrebbe potuto inventarsi una intervista del genere e il risultato fu ben diverso da quello che Barassi aveva sperato: restò Giuseppe Pasquale, restarono gli oriundi, se ne andò lui, Barassi. Che, infatti, fu costretto da Onesti, dopo il famoso discorso dei «presidenti ricchi scemi», a dare le dimissioni per far posto al commissario straordinario Bruno Zauli, segretario generale del CONI, mentre il nemico Pasquale, manovrando con la sua diabolica abilità, riusciva a farsi nominare commissario straordinario alla Lega Nazionale, allora autentico centro di potere.
Zauli lasciò di lì a poco l’incarico assegnatogli da Onesti a Umberto Agnelli che fu nominato presidente della FIGC, mentre l’invitto Pasquale, alla testa dei «giovani turchi», fra i quali Spadacini e Mandelli, diventava in pratica, il vero padrone del calcio italiano. In quella nebbiosa mattinata a Belfast Ottorino Barassi non avrebbe mai immaginato, parlando con me, di lanciare un boomerang che lo avrebbe fulminato dopo moltissimi anni di dispotico governo federale.
di Alfeo Biagi