1962 – Trapattoni: “Potevamo giocarcela…”

Tra i 22 per Santiago anche un giovanissimo Giovanni Trapattoni, che per infortunio non giocò. “Era un Italia, credetemi, che in quell’occasione sarebbe potuta arrivare tranquillamente alla fi­nale e giocarsi il titolo col Bra­sile»


La maglia numero 6 è an­cora lì nella casa di Cusa­no Milanino, conservata con cura nel baule dei ricordi più importanti della carriera. E la maglia numero 6, secondo i cri­teri di quella selezione mondiale, voleva dire essere titolare della Nazionale: 1 Buffon, 2 Losi, 3 Radice, 4 Salvadore, 5 Maldini, 6 Trapattoni… : appunto. Quella maglia, però, non venne mai indossata. Giovanni Trapat­toni, ventitreenne mediano del Milan campione d’Italia, i Mon­diali del Cile li “disputò” da spettatore.

Anzi da turista. Fu l’unico dei ventidue convocati, assieme ad Albertosi (che però di Mondiali ne avrebbe poi vis­suti addirittura altri tre), a non scendere mai in campo in quella per noi e per lui infelicissi­ma edizione.
«Venivo dal trampolino della Nazionale Olimpica di due anni prima: con me c’erano tantissi­mi altri ragazzi di quella squa­dra poco più che ventenni, da Bulgarelli a Tumburus, da Fer­rini a Salvadore, a Rivera che era il più giovane e certamente il più bravo di tutti. Il posto era mio: la linea mediana, come si diceva allora, era quella del Mi­lan (Salvadore, Maldini, Trapattoni). Avevo già sette pre­senze nella Nazionale maggiore. Vi avevo esordito pro­prio dopo le Olimpiadi, nel di­cembre del ’60: contro l’Austria. Il capitano era Giampiero Bonipertì: per lui, quella, sarebbe stata invece l’ultima partita in maglia azzurra».

Anni travagliati, quelli, per il cal­cio italiano reduce dalla prima e unica eliminazione mondiale (nel ’58, in Svezia, al posto no­stro andò l’Irlanda del Nord do­po la celebre partita-rissa di Belfast). E travagliata anche la guida tecnica della Nazionale per la quale, dopo il rifiuto di Herrera, ci si attestò sul curioso duopolio Mazza-Ferrari. Paolo Mazza, per chi non lo sapesse, era il presidente della Spal, grande amico del lider maximo della Federcalcio Giu­seppe Pasqua­le e celebre per il suo fiuto di talent scout. Gio­vanni Ferrari era invece l’indimentica­to campione del Mondo del ’34 e del ’38, uomo tan­to stimato e ri­spettato, quan­to poco quo­tato come al­lenatore.

Eppure aveva grandi ambizioni, quell’Italia: un mix di belle pro­messe e di grandi talenti “di im­portazione” (i cosiddetti oriun­di, Sivori, Maschio, Sorniani e quell’Altafini che era addirittura campione del mondo in carica, avendo disputato l’edizione pre­cedente con la maglia del Brasi­le): età media bassissima, poco più di 25 anni, la più giovane se­lezione mai inviata a un Mon­diale.
«Arrivammo in Cile accolti co­me trionfatori» ricorda Trapattoni. «Per noi venne inaugurata la linea aerea Buenos Aires- San­tiago. Dall’aeroporto alla città venimmo festeggiati da due ali di folla con le bandiere italiane. Per noi venne ristrutturata l’ala più bella del collegio aeronauti­co “Capitano Alvares”. Io ero in camera con Mora, che poi sareb­be diventato mio compagno al Milan. Eravamo contenti, ottimi­sti, motivati».

Ma la luna di mie­le col Mondiale durò poco: un paio di articoli di inviati italiani che sottolineavano l’arretratezza della Nazione che ci ospitava in contrasto con la voglia un po’ megalomane di mettersi in luce attraverso la grande “vetrina” calcistica, scatenò una reazione sproporzionata e isterica nei confronti del nostro Paese e della nostra stessa delegazione. Gli azzurri scesero in campo nel­la seconda partita (la prima era finita 0-0 contro la Germania di Haller, Schnellinger, Szymaniak e Seeler) proprio con­tro il Cile e in un clima di rovente ostilità.

«Io cominciai a veder sfumare il mio” Mondiale» dice Trapattoni. «Mi ero infor­tunato all’ultima gior­nata di campionato, a Ferrara, in uno scon­tro con Massei: distra­zione alla caviglia. Ero stato convocato egualmente, anche se avevo dedicato i gior­ni del ritiro a San Pel­legrino più alla riedu­cazione che all’alle­namento vero e pro­prio. Sembrava fossi guarito: venni anche impiegato nell’ultima premondiale a Bruxelles, contro il Belgio, il 13 maggio. Vincemmo, ma io giocai solo un tempo per­ché il problema si riacutizzò. Le terapie non erano quelle di oggi: ma probabilmente, se l’Ita­lia avesse superato la prima fa­se, sarei rientrato in squadra. Ed era un Italia, credetemi, che in quell’occasione sarebbe potuta arrivare tranquillamente alla finale e giocarsi il titolo col Bra­sile».

Già: ma l’Italia del calcio, in quel 2 giugno del 1962, cele­brò male, molto male la sua festa nazionale. Mazza e Ferrari (si di­ce “consigliati” anche da in­fluenti opinionisti, autori di in­cursioni proibite nella stessa, inviolabile sede del ritiro) rivolu­zionarono completamente la squadra che si era ben comportata con la Germania: fuori un portiere esperto come Buffon, dentro un ventitreenne alle se­ conda partita in azzurro (Mattrel); in difesa, fuori un “monu­mento”, il capitano Maldini, e dentro due centrali potenti, ma addirittura esordienti in Nazionale (Tumburus e Janich); fuori persino Sivori e Rivera, i due più grandi talenti della squadra. La partita fu una caccia all’uo­mo: i nostri caddero nel clima di rissa e di provocazione. David e Ferrini vennero espulsi, Ma­schio finì la partita per onor di
firma col setto nasale frattura­to da un pugno di Lionel Sanchez. Il Cile, protetto dagli arbi­tri, volò verso uno storico terzo posto, il Brasile vinse il suo se­condo Mondiale consecutivo, l’Italia giocò – vincendola – la terza, inutile partita con la Sviz­zera e se ne tornò a casa.