Tra i 22 per Santiago anche un giovanissimo Giovanni Trapattoni, che per infortunio non giocò. “Era un Italia, credetemi, che in quell’occasione sarebbe potuta arrivare tranquillamente alla finale e giocarsi il titolo col Brasile»
La maglia numero 6 è ancora lì nella casa di Cusano Milanino, conservata con cura nel baule dei ricordi più importanti della carriera. E la maglia numero 6, secondo i criteri di quella selezione mondiale, voleva dire essere titolare della Nazionale: 1 Buffon, 2 Losi, 3 Radice, 4 Salvadore, 5 Maldini, 6 Trapattoni… : appunto. Quella maglia, però, non venne mai indossata. Giovanni Trapattoni, ventitreenne mediano del Milan campione d’Italia, i Mondiali del Cile li “disputò” da spettatore.
Anzi da turista. Fu l’unico dei ventidue convocati, assieme ad Albertosi (che però di Mondiali ne avrebbe poi vissuti addirittura altri tre), a non scendere mai in campo in quella per noi e per lui infelicissima edizione.
«Venivo dal trampolino della Nazionale Olimpica di due anni prima: con me c’erano tantissimi altri ragazzi di quella squadra poco più che ventenni, da Bulgarelli a Tumburus, da Ferrini a Salvadore, a Rivera che era il più giovane e certamente il più bravo di tutti. Il posto era mio: la linea mediana, come si diceva allora, era quella del Milan (Salvadore, Maldini, Trapattoni). Avevo già sette presenze nella Nazionale maggiore. Vi avevo esordito proprio dopo le Olimpiadi, nel dicembre del ’60: contro l’Austria. Il capitano era Giampiero Bonipertì: per lui, quella, sarebbe stata invece l’ultima partita in maglia azzurra».
Anni travagliati, quelli, per il calcio italiano reduce dalla prima e unica eliminazione mondiale (nel ’58, in Svezia, al posto nostro andò l’Irlanda del Nord dopo la celebre partita-rissa di Belfast). E travagliata anche la guida tecnica della Nazionale per la quale, dopo il rifiuto di Herrera, ci si attestò sul curioso duopolio Mazza-Ferrari. Paolo Mazza, per chi non lo sapesse, era il presidente della Spal, grande amico del lider maximo della Federcalcio Giuseppe Pasquale e celebre per il suo fiuto di talent scout. Giovanni Ferrari era invece l’indimenticato campione del Mondo del ’34 e del ’38, uomo tanto stimato e rispettato, quanto poco quotato come allenatore.
Eppure aveva grandi ambizioni, quell’Italia: un mix di belle promesse e di grandi talenti “di importazione” (i cosiddetti oriundi, Sivori, Maschio, Sorniani e quell’Altafini che era addirittura campione del mondo in carica, avendo disputato l’edizione precedente con la maglia del Brasile): età media bassissima, poco più di 25 anni, la più giovane selezione mai inviata a un Mondiale.
«Arrivammo in Cile accolti come trionfatori» ricorda Trapattoni. «Per noi venne inaugurata la linea aerea Buenos Aires- Santiago. Dall’aeroporto alla città venimmo festeggiati da due ali di folla con le bandiere italiane. Per noi venne ristrutturata l’ala più bella del collegio aeronautico “Capitano Alvares”. Io ero in camera con Mora, che poi sarebbe diventato mio compagno al Milan. Eravamo contenti, ottimisti, motivati».
Ma la luna di miele col Mondiale durò poco: un paio di articoli di inviati italiani che sottolineavano l’arretratezza della Nazione che ci ospitava in contrasto con la voglia un po’ megalomane di mettersi in luce attraverso la grande “vetrina” calcistica, scatenò una reazione sproporzionata e isterica nei confronti del nostro Paese e della nostra stessa delegazione. Gli azzurri scesero in campo nella seconda partita (la prima era finita 0-0 contro la Germania di Haller, Schnellinger, Szymaniak e Seeler) proprio contro il Cile e in un clima di rovente ostilità.
«Io cominciai a veder sfumare il mio” Mondiale» dice Trapattoni. «Mi ero infortunato all’ultima giornata di campionato, a Ferrara, in uno scontro con Massei: distrazione alla caviglia. Ero stato convocato egualmente, anche se avevo dedicato i giorni del ritiro a San Pellegrino più alla rieducazione che all’allenamento vero e proprio. Sembrava fossi guarito: venni anche impiegato nell’ultima premondiale a Bruxelles, contro il Belgio, il 13 maggio. Vincemmo, ma io giocai solo un tempo perché il problema si riacutizzò. Le terapie non erano quelle di oggi: ma probabilmente, se l’Italia avesse superato la prima fase, sarei rientrato in squadra. Ed era un Italia, credetemi, che in quell’occasione sarebbe potuta arrivare tranquillamente alla finale e giocarsi il titolo col Brasile».
Già: ma l’Italia del calcio, in quel 2 giugno del 1962, celebrò male, molto male la sua festa nazionale. Mazza e Ferrari (si dice “consigliati” anche da influenti opinionisti, autori di incursioni proibite nella stessa, inviolabile sede del ritiro) rivoluzionarono completamente la squadra che si era ben comportata con la Germania: fuori un portiere esperto come Buffon, dentro un ventitreenne alle se conda partita in azzurro (Mattrel); in difesa, fuori un “monumento”, il capitano Maldini, e dentro due centrali potenti, ma addirittura esordienti in Nazionale (Tumburus e Janich); fuori persino Sivori e Rivera, i due più grandi talenti della squadra. La partita fu una caccia all’uomo: i nostri caddero nel clima di rissa e di provocazione. David e Ferrini vennero espulsi, Maschio finì la partita per onor di
firma col setto nasale fratturato da un pugno di Lionel Sanchez. Il Cile, protetto dagli arbitri, volò verso uno storico terzo posto, il Brasile vinse il suo secondo Mondiale consecutivo, l’Italia giocò – vincendola – la terza, inutile partita con la Svizzera e se ne tornò a casa.