Gli ultimi giorni di Armando Picchi

Maggio 1971: Dopo una vita passata all’Inter, Armando Picchi si avviava ad una carriera da allenatore di successo con la Juventus. Purtroppo non fu così…

Un rimpianto condiviso dai tifosi dell’Inter, per i quali il cam­pione livornese rimane uno dei simboli della Grande Inter. Picchi era stato “scaricato” da Helenio Herrera ed era andato a chiudere la carriera agonistica nel Varese. In modo così brillante da merita­re, pur in quella contrada calcisti­ca di provincia, la continuazione della sua avventura in Nazionale… E proprio la sua ultima partita in azzurro aprì il suo conto con la sfortuna.

Il 6 aprile 1968 a Sofia, per l’andata dei quarti di finale degli Europei, l’Italia affrontò la Bulgaria e il libero azzurro Picchi patì un gravissimo incidente di gioco, riportando la frattura del tubercolo sinistro del bacino. In pratica, su quel terribile scontro si chiuse la sua carriera agonistica. Provò a riprendere, dopo la lunga convalescenza, ma non ci fu niente da fare.

Così cominciò ad al­lenare, proprio a Varese, senza molte prospetti­ve. Se ne tornò nella sua Li­vorno, dove gli affidarono la squadra, a campionato di Serie B in corso, in pesanti difficoltà, e lui riuscì a risollevarla con mano felice fino al nono posto finale, di­mostrandosi tecnico abile e avve­duto. Giampiero Boniperti, appe­na nominato amministratore dele­gato, avviava alla Juventus, nel­l’estate del 1970, un radicale rin­novamento, rastrellando i giovani migliori sul mercato con l’aiuto di Italo Allodi. Tra i nuovi arrivati, gente come Capello, Causio, Bettega.

L’uomo nuovo cui affidare quella nidiata di potenziali cam­pioni venne individuato in Arman­do Picchi. Una scelta audace, che si rivelò, dopo qualche settimana di rodaggio, felice. Picchi si am­bientò benissimo a Torino e riuscì subito a dare un volto alla squa­dra, pilotandola verso una stagio­ne di assestamento in campionato, ma anche di grandi soddisfazioni europee, col cammino sicuro in Coppa delle Fiere, progenitrice della Coppa Uefa. Un ombra cupa, tuttavia, ne seguiva sinistramente il cammino.

Il tecnico non era sereno: da metà ottobre la giovane moglie France­sca, dopo aver dato alla luce il secondogenito, versava in cattive condizioni di salute, fino a correre pericolo di vita e il tecnico dopo ogni alle­namento si recava al suo capezzale a Milano, in un tour de force che gli scavava visibilmente i lineamenti. Poi, ristabilitasi la consorte, toccò a lui e accadde l’irreparabile. Il 7 febbraio 1971 a Bologna, durante la partita coi rossoblu, Picchi si levò dalla pan­china per protestare con l’arbitro. Inflessibile, il fischietto (Gaetano Mascali) lo cacciò dal campo. Picchi, uomo di esemplare corret­tezza, uscì a capo chino, col cuore in tumulto.

Nessuno poteva imma­ginare che se ne stesse andando, oltre che da una partita di calcio e da un terreno di gioco, dalla stes­sa vita.Il 2 febbraio, cinque gior­ni prima di Bologna, aveva rivela­to ai cronisti di aver avvertito do­menica 3 gennaio, in panchina al Comunale contro la Lazio, un for­te dolore alla schiena; aveva attri­buito il male alla rigida tempera­tura (tredici sono zero), ma nessu­na cura era stata in grado di de­bellarlo e col passare dei giorni il male si era fatto così fastidioso da impedirgli di dirigere l’allenamento. Una prima diagnosi aveva par­lato di “mialgia sottoscapolare di probabile origine reumatica”, consi­gliando al tecnico un periodo di cure e riposo. Picchi vi si era sottoposto, lasciando che in campo a dirigere l’allenamento andasse, sotto la sua supervisione, Sentimenti IV.

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Due giorni dopo l’espul­sione del 7 febbraio, si presentava all’allenamento: «Sono quasi guarito – annunciava ai cronisti – domani torno in campo». La mattina dopo vestiva la tuta e diri­geva il suo ultimo allenamento: quando lasciava il campo il dolo­re alla schiena era rispuntato tal­mente acuto da imporgli una sosta di un ora e mezza negli spogliatoi. Si recò allora a Milano, nella clinica dove fino a poco tempo prima era stata curata la moglie per sottoporsi a una serie di esa­mi. Il 10 mattina si recò al campo per l’ultima volta: parlando coi cronisti, l’abituale cortesia non riuscì a nascondere la sofferenza che gli tirava i lineamenti del viso. Quella notte i dolori aumentarono e i medici decisero di ricoverarlo in clinica. Il 12, venerdì, su un quotidiano romano, Fabio Capel­lo, giovane centrocampista della squadra, non sospettando evidentemente nulla, rilasciava dichiara­zioni polemiche anche nei con­fronti del tecnico.

Il 14, mentre nessuno sospettava alcunché di grave, i giornali annunciavano improvvisamente il cambio della guardia in panchina: “Armando Picchi questa mattina è entrato in una clinica torinese per sottoporsi ad una serie di prove e di esami di laboratorio che dovrebbero dar modo ai medici di scoprire l’esat­ta natura del male alla schiena che da una quarantina di giorni affligge il tecnico juventino. Negli ambienti della società bianconera si spera che nel giro di pochi gior­ni l’allenatore possa essere dimes­so per riprendere in piena effi­cienza l’attività.
È certo tuttavia che Picchi non potrà seguire la squadra mercoledì prossimo a Enschede, dove la Juve disputerà il retour match dei quarti di finale della Coppa delle Fiere. Fin quan­do il trainer titolare non sarà ri­stabilito, la conduzione della squadra toccherà a Cestmir Vycpalek, che nell’estate scorsa era tornato a far parte della Juventus, assumendo la responsabilità dei giovani bianconeri acquartierati a Villar Perosa. Prima di affidarsi ai medici, Armando Picchi nella tarda serata di ieri si è recato nel ritiro della Val Chisone per pren­dere temporaneo congedo dai suoi uomini”.

Un ultimo, significativo gesto restava a Picchi, prima di venire inghiottito dal suo male terribile. Benché sofferente, lasciò la clinica per recarsi a Villar Perosa assieme a Boniperti e Allodi, cui toccava il “processo” a Capello per il suo sfogo polemico. Il regi­sta avrebbe dovuto esser messo fuori squadra, ma il tecnico, pur primo bersaglio delle critiche («Una chiacchierata confidenziale con un amico» si scusò il giocatore), assunse la difesa del futuro campione, lo giustificò e ottenne che la pu­nizione venisse limitata a una forte multa.

Sui giornali apparve dopo qualche giorno una nuova notizia: un primo con­sulto tra specialisti annunciava che Armando soffri­va di una “radicolonevrite cervico-dorsale” e che nel giro di otto giorni sarebbe potuto tornare al­l’attività. Ma le cure non sortirono effetto alcuno. Qualche giorno dopo, in un consulto tra specialisti, veniva avanzata l’ipotesi che il ma­lanno avesse origine tumorale e infine il 19 febbraio Picchi veniva sottoposto a intervento chirurgi­co, la “resezione del sesto nervo intercostale“, mentre la situazio­ne clinica precipitava. Il suo cal­vario era avviato.
Dopo pochi giorni la società comunicava ai cronisti, in un incontro riservato, che il destino di Picchi era segna­to: forse come lontana conse­guenza del terribile infortunio os­seo che gli aveva troncato la car­riera, il tecnico soffriva di un ma­le incurabile. Il club bianconero pregava tuttavia che nulla fosse propalato, che nulla apparisse sui giornali che avrebbero fatto com­pagnia a Picchi e alla sua fami­glia nei drammatici giorni a veni­re. Una sorta di pietosa omertà che venne da tutti rispettata. Ar­mando Picchi aveva poco meno di 36 anni, una bella moglie, due figli, Leo e Gian Marco, meravi­gliosi. Confermata la terribile diagnosi, dalla clinica torinese in cui era ricoverato venne trasferito sulla riviera ligure, in una villa tra i pini, a San Romolo, la “Bai­ta bella”, di proprietà di Adolfo Tinelli, commerciante torinese.

Le sue condizioni erano dispera­te, i medici impotenti. Le settima­ne passavano. A primavera si de­cise di affidarlo alle cure di Ingeborg Stern, una studiosa tedesca di scienze orientali. In un primo momento si diffuse addirittura la voce che le pratiche yoga avesse­ro procurato un miglioramento delle condizioni del tecnico. Un fuoco di paglia. A metà maggio, l’aggrava­mento ulteriore, tra sofferenze pe­santi, l’estrema unzione del par­roco di San Romolo e infine la morte, alle 16 del 26 maggio.

Poche ore dopo, la Juventus di Picchi, affidata a Cestmir Vycpalek, affrontava il Leeds nel­la finale di andata della Coppa delle Fiere. Era una serata triste, affogata nella pioggia, che impose la so­spensione del match al 6′ della ripresa, sullo 0-0.Nessuno tra i giocatori sapeva. La partita an­dava ripetuta venerdì 28: quel giorno, accanto all’annuncio del match, i giornali riportavano un’altra notizia: “Picchi è morto. Stroncato da un male incurabile, l’ex cam­pione dell’Inter e allenatore della Juventus è spirato a Sanremo, do­ve si era trasferito da un paio di mesi. I funerali avranno luogo stamane a Livorno“.

Fu una spe­cie di bomba. In realtà, Armando aveva cessato di vivere nel pome­riggio del 26, ma i familiari ave­vano voluto tener nascosta la no­tizia fino al mattino dopo, per non influenzare i giocatori, impegnati nella partita. Nella mattinata del 28, Boniperti, assieme al presidente Catella e a una rappresen­tanza di giocatori (Tancredi, Cuccureddu e Roveta), è a Livorno a rendere omaggio alla salma. Il po­meriggio, alle 17,30, vengono ce­lebrati i funerali nella chiesa della Misericordia. La sera al Comuna­le di Torino si gioca in un clima di comprensibile mestizia. La replica della prima finale finisce 2-2. Il 3 giugno, a Leeds, i bianconeri pa­reggeranno 1-1 perdendo la Cop­pa, che avrebbero voluto dedicare al loro amatissimo e sfortunatissi­mo tecnico.