Gianni Mura: Il campo dei ricordi

Giacomo Losi, difensore partigiano

Giacomo Losi nel campo dei ricordi ha il numero 3, ma andrebbero bene anche il 2, il 5 e il 6. Tutti i ruoli della difesa li ha coperti, semmai c’è da chiedersi come riuscisse, lui alto 1.68, a marcare giganti come John Charles. Losi è nato a Soncino, in riva all’Oglio, un centro che dista una trentina di chilometri da Brescia, da Cremona e da Bergamo. Ed è catalogato tra i borghi più belli d’Italia, per la sua Rocca sforzesca e le mura che racchiudono il centro abitato.

Una volta c’era l’acqua nel fossato intorno alle mura. Ma per noi bambini la festa era il fiume, anche se da festeggiare c’era poco. La mia famiglia era povera, io e mio fratello dormivamo nello stesso camerone dei genitori. Mio padre Pietro lavorava in una cooperativa di facchini che riempivano e svuotavano i grandi silos. Mia madre Maria, era in filanda. E di quelle filandere toste, che andavano a discutere col padrone. Me la ricordo, nel primo dopoguerra, che si dava da fare a organizzare i comizi di Pajetta. Mio padre non ha mai voluto saperne della tessera del Fascio. Era di famiglia socialista. Così una notte del ’43 sono venuti gli squadristi a prenderlo in piena notte. Stai tranquilla, hanno detto a mia madre, lo mandiamo a lavorare per la patria e sei fortunata, perché ti spedirà a casa dei bei soldini. Mai visti, ma il peggio è che per quasi due anni non abbiamo più saputo nulla di lui, dov’era, se era vivo, e un giorno torna che quasi non lo riconosciamo, magro come un chiodo, la barba lunga, era scappato e ha dovuto nascondersi. Era stato a scavare in un campo di lavoro in Cecoslovacchia, di fianco c’era un campo di concentramento. Non ha mai voluto parlare di quel periodo“.

Piccola pausa. Credo stia pensando a quel che ha visto e patito suo padre. Per allontanarlo dai brutti pensieri gli chiedo dello sport, di come ha cominciato.
Nel dopoguerra, e non era così semplice arrivarci. Mio padre aveva 8 fratelli: tre morti in guerra, anzi dispersi, uno morto appena tornato a casa, il nonno a Soncino sotto le bombe. La terza l’ho passata più nei rifugi che sui banchi. Ero un bambino vivace, con due miti: Coppi e il Grande Torino. I ritagli di allora su Coppi, Gazzetta e Calcio e Ciclismo Illustrato, li ho ancora tutti. Il viaggio di nozze, in 1100, l’avevo organizzato da Coppiano. Andiamo in Francia, ho detto a mia moglie. Ma già a Grosseto la batteria fa i capricci, ci fermiamo in un alberghetto, ripartiamo il giorno dopo: Sanremo, Montecarlo, Nizza, poi via verso l’interno: Grenoble, l’Alpe d’Huez, l’Izoard, le montagne di Coppi. E sul Galibier ho capito lo spazio che c’è tra storia e leggenda. Quando Coppi è morto non potevo andare al funerale, ma con la bella stagione ho organizzato un viaggio in bici da Soncino al cimitero di Castellania. Sì, avevo la macchina, ma era un pellegrinaggio più che una gita e volevo andare in bicicletta, quella che sognavo da bambino e non ho mai avuto“.

Ho smesso in quinta elementare, c’era da dare una mano in casa, ero l’aiuto di un sarto, mi piaceva. I calzoncini della mia prima squadra, nata tra amici, li ho cuciti io. L’avevamo chiamata Virtus, ci sembrava un bel nome. Ma i giochi più pericolosi erano con le bombe. Nel ’45 portavo bombe e nastri di mitragliatrice ai partigiani che sparavano giù della Rocca. I tedeschi si arrendevano e sul camion lasciavano di tutto, una pacchia per la gente: coperte, scarponi, ma io prendevo solo baionette e maschere antigas. Facevamo i fuochi d’artificio con la polvere da sparo, ma un giorno al fiume accade un dramma. La guerra era finita, ma gli ex partigiani usavano le bombe per pescare. In un’ansa era rimasta una bomba chiara, più grande. Diversa dalle altre, e noi ragazzini a provocare: vediamo chi ha il coraggio di andarla a pescare. Io, anche se era un bel quattro metri sotto. La porto a riva e uno più grande, sui 15 anni, dice: lasciate fare a me, ci penso io. Eravamo in sette. Grande botto, schegge dappertutto, una mi trancia la falange di un pollice, vede? Passa il mugnaio col carretto e ci carica per andare all’ospedale. Ne manca uno, gli dico. Torniamo indietro, il ragazzo era già morto. Da quel giorno ho chiuso con le armi. Lo sport ha la faccia di don Giovanni, il prete dell’oratorio. Oltre a farci giocare a calcio con una palla di stracci, organizzava le Olimpiadi soncinesi. Salto in alto, in lungo, 100 metri e maratona, che poi era due volte il giro delle mura, circa 5 km. E vincevo tutto io. Ah, e poi suonavo il clarinetto nella banda di Soncino, ci sono entrato sperando di avere la tromba. Verdi, Donizetti, Puccini, ma anche le serenate che allora usavano nei paesi. Fino ai 15 anni suonavo per un piatto di pane e salame e gli altri pomiciavano. Ho iniziato nella Soncinese, da attaccante: 17 gol in 12 partite. Poi alla Cremonese, in D e in C, sono diventato difensore. Poi mi ha preso la Roma. Buffo“.

In che senso?
Avevo provato con l’Inter, vincendo il torneo di Sanremo e realizzando il rigore decisivo, e col Bologna. Mai saputo chi e come mi abbia segnalato alla Roma. La Cremonese mi aveva pagato 500mila lire e mi rivendette per 8 milioni, un buon affare. A 19 anni mi ritrovo a Roma, un mondo da scoprire. Senza sapere che con la maglia giallorossa giocherò 386 partite di cui 299 da capitano. E che mi chiameranno Core de Roma, ma anche Palletta perché saltavo come se rimbalzassi. Oggi la chiamano forza esplosiva, allora un difensore non era valutato solo in centimetri. E io, come difensore, sui palloni alti non stavo incollato all’attaccante, anzi. Sui corner, mi piazzavo sul primo palo, importante era capire in anticipo dove sarebbe andato il pallone, e a quel punto saltavo con una breve rincorsa. Giocavo sulla palla, non sull’avversario. Sarà anche vero che oggi il calcio più veloce e tecnico, ma mi sembra troppo esasperato e meno pulito, quasi più una recita che uno sport. Ma lo sa che ci sono ragazzini di 12 anni col procuratore? A quelli che alleno, al Nuova Valle Aurelia, insegno il rispetto delle regole. Che sono importanti. Io, per tanti anni capitano, all’arbitro mi rivolgevo dandogli del lei e con le mani sempre dietro la schiena. Oggi vedo cose da Far West, placcaggi, insulti, gestacci e cose così. Non va bene“.

Ricordi in campo?
Ghiggia marcato in allenamento. Gento all’esordio in Nazionale. Me la sono cavata bene, anche se abbiamo perso. Uno con cui non l’ho mai vista, Garrincha. Aveva una gamba più corta, veniva avanti ciondolando, come stesse per cadere, fintava da una parte e partiva dall’altra. Ho marcato Bobby Charlton quand’era ala sinistra, ho marcato Charles, Sivori, Altafini, uno dei più pericolosi, Jair, Corso, Virgili, Jeppson, Vinicio e tantissimi altri. Chi m’ha fatto pi soffrire è Brighenti, con una gomitata all’arcata mi ha aperto uno squarcio, 12 punti di sutura, mai pensato che l’avesse fatto apposta. Giocavo sull’anticipo. Mai espulso e una sola ammonizione, all’ultima partita in A, a Verona. Loro avevano Bui e Traspedini, veloci e grintosi. Santarini, stopper, andava sempre avanti, spronato dal Mago, loro partivano in contropiede e io mi sono arrangiato. Al terzo intervento l’arbitro Motta di Monza mi ha detto: mi spiace, Losi, ma devo ammonirla. Ci sono rimasto male, ma era giusto così“.

Lei con Helenio Herrera non legò molto.
Credo fosse geloso della mia popolarità in città, anche se non la facevo pesare. Andavamo nei club dei tifosi e chiedevano l’autografo prima a me che a lui. E sì che quand’era all’Inter mi voleva. Parlai con Allodi: Mino, quanto prendi a Roma? Glielo dissi. Ti diamo il triplo, disse lui. No, dissi io, queste cose non le faccio. Così presero Picchi. A Herrera non ho mai perdonato di aver fatto rientrare la squadra da Cagliari quando Taccola morì sul lettino dello spogliatoio. Io non c’ero, ero a Roma, e mi toccò andare a informare la famiglia di Giuliano. Forse a Herrera non faceva piacere che io rifiutassi la pillola quotidiana di Evoran, gliele procurava il massaggiatore Wanono in Francia. Mai presa, e dicevo ai compagni di starci attenti. Lui diceva che erano vitamine, ma noi cosa ne sapevamo?“.

I momenti più neri, per lei?
Quando l’allenatore Lorenzo organizzò la colletta tra i tifosi al Sistina, e io, il capitano, giravo con un secchio tra le file a raccogliere i soldi. Settecentomila lire in tutto. Le mandammo agli alluvionati. Brutto periodo, quello. Non ci volevano negli alberghi, non ci volevano nei ristoranti, società piena di debiti. Un altro brutto momento fu quando la Roma mi fece fuori mandandomi a casa un usciere con una busta: dentro c’era il mio cartellino e una breve lettera di ringraziamento, più formale che altro, in cui si diceva che avrebbero organizzato per me la partita d’addio. Cosa mai avvenuta“.

I più belli?
Uno dei più belli, certamente il più curioso visto con gli occhi di oggi: il 25 aprile del 61 a Bologna, Italia-Irlanda del Nord, 3-2 per noi, marco bene Mc Parland. Il giorno dopo a Roma c’è il ritorno della semifinale di Coppa delle Fiere con l’Hibernian, 2-2 all’andata. Prendo il treno e vado all’albergo dov’è in ritiro la squadra, per far sentire il tifo del capitano. Piove molto, avvantaggiati loro, Foni, l’allenatore, mi fa: cosa diresti se ti chiedessi di giocare stasera? Non me l’aspettavo. Se i compagni sono d’accordo, gioco, ho detto. Evviva, pacche sulle spalle: gioco. E sono utile, perché sul 3-3 a pochissimo dalla fine tolgo dalla linea di porta un loro tiro che avrebbe significato l?eliminazione. Così si va alla bella, 6-0 per noi e poi, col Birmingham, grazie a un immenso Cudicini 0-0 là e 2-0 qua: prima coppa europea nella storia della Roma. Tra le cose belle ci metto anche l’amicizia con Di Stefano, nata durante una tournée in Venezuela: Roma, Real, Porto e Vasco da Gama. Col Real eravamo nello stesso albergo, noi avevamo portato scorte alimentari dall’Italia e grattavamo il Parmigiano sulla pastasciutta. Lui savvicina al tavolo e chiede: cosa ci mettete sopra? Un nostro formaggio. Posso assaggiare? Ma è meraviglioso. Come posso averlo a Madrid? Mi dai il tuo indirizzo e te lo spedisco io. Così ho fatto e da lì siamo diventati amici, sono stato a casa sua, ho visto il monumento al pallone. Adesso le mostro una cosa“. Fruga nel portafogli e ne estrae un ritaglio di giornale piegato con cura, una fotografia.

Spagna-Italia vecchie glorie, capitani io e Di Stefano. Il più grande di tutti, fortuna che non ho mai dovuto marcarlo. Un altro bel ricordo è personale. Mio padre veniva ogni tanto a vedermi giocare, ma senza dirmelo. Un giorno me lo ritrovo vicino al nostro pullman, a San Siro. Sai Mino che hai imparato a giocare a calcio, adesso? Cazzo papà, ho 32 anni, ho pensato. Ma non l’ho detto. Ho preso quella frase come una medaglietta da appuntare al cuore“.