Gianni Mura: Mazzone, maestro all’università del calcio

Signor Mazzone, quando uno s’è fatto quasi 800 partite in serie A e più di 1000 se contiamo anche C e B, secondo me è autorizzato a parlare di calcio a ruota libera e di quello che gli pare. Le va? «Preferisco le domande. Mi concentro di più. Sto attento a non dire cose che potrebbero urtare qualcuno».

E perché? Lei è una specie di coscienza storica della categoria, non le manda a dire, non tiene sassolini nelle scarpe, per questo è simpatico anche a tifosi di altre squadre. Si ricorda di quanto ha attaccato la Gea?
«Dovevo pensarci due volte prima di parlare. Non lo rifarei, mi sono rivisto in tv e mi sono tolto dei punti. Resto della stessa idea, naturalmente. Ma qualcuno può dire: questo Mazzone, quand’è che impara a farsi gli affari suoi?».

Quand’è che impara?
«Del tutto mai. E’ che il calcio è la mia vita. Mi son reso conto di avere una grossa fortuna: la mia carriera l’ho già fatta, nella mia vita nessuno mi ha regalato niente, tantomeno la serie A. Ci sono sempre venuto con le mie gambe, con l’Ascoli, col Lecce. Ho lavorato quasi sempre nella fascia medio-bassa. I miei scudetti sono le salvezze, anche all’ultima giornata».

Non può lamentarsi, tutto sommato…
«E chi si lamenta? Ma l’angoscia, lo stress, quelli li conosco solo io. E anche fare il pendolare alla mia età mica è uno scherzo. Va bè che non guido io, ma tutte le domeniche sera, cioè notte, torno ad Ascoli. A volte arrivo abbastanza presto, a volte alla due di notte. Mia moglie mi aspetta, mangiamo insieme, è così da una vita. E il giorno dopo stacco per tutti, niente telefonino, si va sulla costa a mangiare il pesce. Il martedì mi alzo presto e torno a Brescia, anzi a Coccaglio. Campo e albergo, albergo e campo. Ogni tanto qualcuno mi dice: mister, non la vediano mai a Controcampo, o alla Domenica sportiva: Ma come faccio a andarci? Già così, ogni tanto ho dei rimorsi: i figli visti un giorno la settimana, i nipoti. Solo una volta mi sono portato la famiglia appresso, a Firenze. Ma i ragazzi avevano nostalgia di Ascoli, erano tristi. Così ho deciso che ‘sta vita era meglio se la facevo solo io. Mica mi lamento. Io sono nato povero, non è un segreto. Siccome giocavo a calcio, solo io mangiavo la carne tutti i giorni, e le mie sorelle mortadella. Queste cose non si dimenticano».

Cosa c’è nel suo futuro?
«Boh. Di sicuro, le vacanze ai bagni Nadia di San Benedetto, col cappelletto in testa, camminare e nuotare. Se lei intende che squadra avrò, non lo so. Non ho mai letto il futuro. Posso dirle quello che sogno. Meno sofferenze, vorrei provare a realizzarmi in un ruolo non proprio alla Ferguson ma quasi. Vede, la serie A è l’ università del calcio e io mi sento ancora come un maestro elementare. Dò lezioni di tecnica, mentre mi piacerebbe parlare di tattica a elementi già maturi. Per l’età che ho, la mia qualifica è di direttore tecnico, ma faccio ancora l’addestratore. Lei mi può dire che ho fatto una bella gavetta, io le rispondo che la gavetta non è finita. Per questo, ai tempi, mi sono scontrato con Corioni sui programmi Nella fascia medio-bassa lo so anch’io che ti trovi l’organico fatto e ti arrangi, e non si può avere un modulo fisso».

Molti suoi colleghi ce l’ hanno. Zaccheroni, Eriksson, Del Neri, Zeman, Cuper con qualche variante.
«Beati loro. Stimo molto Eriksson, ma una curiosità me la terrò tutta la vita: cos’avrebbe combinato Eriksson all’Ascoli? So cos’ho combinato io: giocavo col 4-3-3, spesso a zona, e non se n’è accorto nessuno. La soddisfazione è stata che i tifosi hanno ribattezzato la via che porta allo stadio, quella che passa sopra il ponte, Via del Bel Calcio».

Un’altra soddisfazione, ho letto in archivio, sta in una frase di Fulvio Bernardini, al Supercorso di Coverciano. Avete speso tempo e soldi per andare in Olanda, bastava andare a vedere l’Ascoli di Mazzone.
«Proprio così disse, per me fu come una medaglia. Ho cominciato ad allenare nel pieno fiorire del calcio olandese. Allora non è come oggi, che accendi la tv e vedi anche le partite del campionato cinese. Quelle poche volte che vedevo l’Olanda, pensavo: ci vorrebbero due palloni, uno anche agli avversari. Ce l’avevano sempre gli olandesi. Allora non si facevano le percentuali del possesso di palla, ma penso fossero altissime. E quello che li teneva insieme era il gioco, il gusto del gioco. Poi Cruijff poteva arretrare da terzino, Krol fare l’ala sinistra, ma quella era la réclame del gioco di squadra, uno per tutti e tutti per uno. Il calcio olandese mi ha entusiasmato, ma anche quello inglese, quei bei cross dall’ala per il centravanti, fatti come si deve».

Lei pensa che oggi sia migliorato lo spettacolo?
«Da due anni, sì. A forza di prendere schiaffoni da tutti o quasi, il calcio italiano ha capito che doveva tornare sulla strada della tecnica, riportare più qualità in mezzo al campo. Il degrado è stato anche colpa nostra, di noi tecnici. Dovevamo essere più perseveranti, non dico testardi. Pianificare sul serio, subire meno le pressioni dei dirigenti e della critica, accettare supinamente che tre partite sbagliate mettessero in discussione la panchina, nella grande e nella piccola squadra. Siamo stati molli, anche quelli con la scorza più dura. Il calcio è tecnica, tattica e fisicità, se lo si sbilancia troppo sulla fisicità è un’ altra cosa, che a me non è mai piaciuta. Lei sa che ho fama di catenacciaro. Ingiusta, ma ce l’ho. Ma a Bologna giocavo come adesso il Chievo, perché avevo le ali (Nervo, Binotto, Fontolan) e davanti Andersson e Signori. Giocammo 65 partite, quella stagione. Vincemmo l’Intertoto, arrivamo alle semifinali di Uefa. A Brescia sono partito con la difesa a tre, ma la media dei gol presi all’inizio era pesante, due a partita. Così mi sono coperto con Martinez e Seric. Però io non ho un modulo preferito. Lei scrive anche di ristoranti: come definirebbe un cuoco che sa mandare in tavola un solo piatto?»

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Limitato, come minimo.
«Appunto. Mi chiedono: lei che allenatore è? E io rispondo: un allenatore. Non difensivista, non offensivista, non italianista, non olandesista. Sa cosa sono tutte queste etichette?»

Fregnacce, suppongo.
«Bravo, lo dica lei. Io come cuoco ho cucinato di tutto e senza mai rifornirmi al mercato delle prime scelte. Ma un merito ce l’ho: i giocatori che mi danno, li faccio rendere al massimo. Sotto l’apetto tecnico, tattico, fisico e caratteriale».

Come sono i giocatori di oggi rispetto al passato?
«Meno grezzi, più rifiniti, più professionisti nei comportamenti. C’è da dire che sono anche più assistiti, procuratori eccetera. Spero, e sottolineo spero, che per i calciatori sia un vantaggio».

Se la sente di dare i suoi Oscar ai nomi nuovi, Brescia escluso?
«Facciamo un po’ meno dell’Oscar, facciamo che sia come un applauso mio. Il primo nome è Miccoli, ha ‘ste gambette velocissime, ti ruba il tempo, tira delle sassate che levati, ed è vero che ricorda Romario. Poi c’è un portiere che mi piace un sacco, De Sanctis, sarà che con noi ha fatto due partitone».

Piace un sacco pure a me, specie per come esce.
«Sì, anche oltre il dischetto del rigore, pochi lo fanno. E’ ben impostato, ha personalità, comanda bene la difesa. Poi, per l’umiltà, vorrei citare Zambrotta. A me in verità piace più sull’ala destra, ma Lippi lo vuole terzino sinistro e il ragazzo collabora. Un altro: Camoranesi, perché dà ampiezza al gioco, io ho una gran voglia di ali vere. Basta con l’ equivoco dei terzini fluidificanti e dei tornanti, l’ala vera è un attaccante. Predico bene e razzolo male, d’ altra parte le ali ancora non ci sono, in Italia, o sono poche. Quando ne avremo tante, ci sarà più spettacolo. Andiamo avanti: direi che si è confermato Corradi, che mena un po’ troppo però, senza cattiveria ma mena, e infine Cassano. Tecnicamente è il più forte, spero trovi il suo equilibrio, potenzialmente è un grandissimo».

Grandissimo paradosso è che lei, che passa per un mangiacristiani, abbia in squadra uno dei giocatori più lenti e uno dei più fragili.
«Quando parlo di qualità in mezzo al campo, sono coerente. La qualità è Guardiola, la velocità che conta è quella del cervello e della palla. Quanto a Baggio, è rispettoso, educato, serio, puntuale, e in più ci fa vincere qualche partita. Avercene».

Mai problemi?
«Mai. Quando un allenatore ha problemi coi giocatori, quasi sempre è colpa della società. Guardi, bisogna copiare la Juve, glielo dice uno che con Moggi qualche scontro l’ha avuto e che gli ha pure fatto perdere uno scudetto a Perugia. Alla Juve è tutto chiaro: prima viene la società, poi l’allenatore, poi i giocatori. Che sono dipendenti ben pagati, punto e basta. Se qualche presidente vuol fare l’allenatore, o spingere un giocatore, rischia di andare tutto in aceto».

Per la sua esperienza di B, e di centrosud, i due gironi possono servire?
«Possono servire alle casse delle società, ma per me è come se dividessero l’Italia in due e non mi piace. Il calcio non è solo la partita, è viaggiare, conoscere altre città, altra gente. E così il calcio s’impoverisce».

Gianni Mura
La Repubblica — 22 aprile 2003