Gianni Mura: Caro Gianni, ho 10 anni da raccontarti…

Gianni Mura da molti è considerato l’erede del grande Gianni Brera. E l’amore verso il Grangiuan è tutto espresso in questo articolo che commemora i 10 anni della sua assenza

Dicono che la nebbia sia il vestito migliore, nella Lombardia di pianura, e questi sono giorni di nebbia a San Zenone, dove Gianni Brera nacque ed è sepolto, di nebbia anche tra Maleo e Casalpusterlengo, sulla strada dove morì. Sono già dieci anni. Che sono tanti e sono pochi, dipende da come li si è vissuti, chi li ha vissuti. Dieci anni fa non c’ era nebbia, quella notte. Dicono che lui dormisse, dietro. Sicuramente aveva bevuto solo acqua il suo amico che guidava. In questo Brera aveva anticipato di molto il palloncino. Come in Germania e in Scandinavia, o si hanno amici astemi (non è così facile) o uno a turno non beve. Strana la vita, e anche come finisce, in uno speronamento tra navi di terraferma. Gli speronatori si salvano tutti, tutti gli speronati muoiono. Sono andato a vederlo, quel pezzo di strada. Nemmeno due camion riuscirebbero a speronarsi, due macchine sì. Non è giusto, ho pensato. Lo penso ancora, come uno dei Senzabrera che avrebbe amato sentirti raccontare le tue storie e il nostro sport, e non solo quello, a lungo e a lungo.

Ecco che sono passato al dialogo, mi viene naturale. Non hai idea di quelli che scrivono o semplicemente mi fermano per la strada e chiedono: ma Brera cos’ avrebbe detto di questo? E questo può essere tante cose: il Pallone d’ oro a Ronaldo, l’ albero di Natale o 4-3-2-1 del Milan, Pantani, il Chievo, la Lazio. Mi usano come un tavolino a tre gambe. Il bello è che anch’ io ogni tanto mi chiedo cos’ avresti detto di Buffon, o di Totti, o di Zidane, o degli ultimi mondiali. Non andandoci, sicuro: già avevi schivato la Corea nell’ ’88, e Tokio ’64 ti era bastata. Ricordi? «Una giapponese di orrenda dolcezza istruiva allieve nell’arte di intingere fiori (mo seh) nella sabbia quarzosa d’ un riquadro. Kokorekè nikè, neh. Ciocciorekè minè, mah. Nennenne, correggeva la maestra. E al fiore secco da campanula vetrata aggiungeva la mimosa la querquedula la blastula la morula e so mare japanica».

Avresti chiamato Ronaldo abatone come già avevi fatto con Eusebio? Penso di sì, ma non posso giurarci. Invece giurerei che da tempo avresti scritto un pezzo (ne avevi facoltà) che cominciava così: «Egregi Signori del Calcio, ritengo opportuno segnalarVi che mi avete veramente rotto i coglioni». Capello, il tuo Gran Bisiaco, l’ avresti difeso comunque. E avresti fatto bene: di tutti gli allenatori in attività, era l’unico al tuo funerale. Mi chiedo, ancora, come reagiresti a una critica, forse il termine è eccessivo, insomma a dei colleghi che battezzano come nuovo Riva, nuovo Pelé e nuovo Maradona il primo ragazzotto che indovina due colpi di fila. E a giornali, sportivi e no, che invocando le leggi di mercato di solo mercato fanno leggere, pagine e pagine, arrivi e partenze, il tutto reso più grottesco dal fatto che non c’è una lira, anzi un euro, ma nel caleidoscopio impazzito che è l’ informazione vale tutto e il contrario di tutto. La competenza, mon vieux, alle ortiche. Conta il volume, non nel senso del libro o della stazza.

Chi vosa pussée la vaca l’ è sua (Piero Mazzarella, giusto?). E trasportare il faccione su qualunque teleschermo. Te lo dico perché tu, da direttore della Gazzetta, avevi aperto le pagine (anche la prima, per essere precisi) a chiunque, sportivamente parlando, avesse una competenza specifica e un italiano decente. Più di 50 anni fa. Senti queste righe: «Entrato in surmenage, il pedatore si comporta come la scimmia che è in ciascuno di noi quando gli vengon meno i freni inibitori. Sul campo è istrione da fescennino e mattatore drammatico. Al primo colpo inizia le laudi della professione della madre di colui al quale appartiene il gomito o il piede che l’hanno colpito. Il dialogo è serrato e chiama in causa anche i compagni, l’ arbitro e gli avversari.
E quando è lui a commettere il fallo, e l’ arbitro lo ferma, subito alza le braccia al cielo, inarca le reni, sbuffa, spergiura. In un paese civile questi lazzi di provocazione verrebbero puniti con l’ espulsione immediata. In Italia sono scoppiati anche gli arbitri, e tutto fila».

Tutto fila, in questa direzione, molto più di prima, e questo ti è risparmiato. Tu (vent’ anni fa, venticinque?) t’indignavi, tu che nello sport esaltavi il vir, il combattente leale, fosse Rombo di Tuono o Pinna d’ oro, non so come ti ritroveresti a cantare le gesta di fighettoni montati che comunicano via Internet, che guadagnano quello che Di Stefano non s’è mai nemmeno sognato, che il sabato dicono che siamo una bella grande famiglia e com’ è giusto il turn over (credo che tu avresti coniato qualcosa, al posto di turn over) e la domenica vaffanculano l’ allenatore che li sostituisce a cinque minuti dalla fine. Nemmeno so, ma non importa poi tanto, come ti saresti ritrovato davanti a certi presidenti-padroni delle ferriere (o della melonera), ai morti e feriti da pallone, all’ Epo e al Gh, al dibattito su Recoba per il quale abatino sarebbe già un complimento. A proposito di presidenti, certamente ti sarebbe piaciuto il giovane Campedelli, che ha un’ aria mammolona ma col calice davanti vale un paio di alpini. Non solo per questo. La prima volta che l’ho visto il Chievo andava bene, più o meno un anno fa, e tra le varie cose gli chiesi se avesse rimpianti. E pensavo mi rispondesse (come Rivera): quello di non essere mai stato giovane. Invece disse: uno solo, quello di non poter leggere un pezzo di Brera sul Chievo. L’ avrei abbracciato (ovviamente, non l’ ho fatto) perché era una risposta asciutta e consapevole, piena di nostalgia e di stima.

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E poi perché l’ avevo già pensato io: come mi piacerebbe leggere un pezzo di Brera sul Chievo, come quelli scritti per la mirabellissima Atalanta, per il Cagliari, per il Verona di Osvaldo Schopenauer Bagnoli, per il Perugia di D’Attoma, per tutte le piccole grandissime squadre che riescono a infilare il loro bastone nelle ruote dorate, per le scarpe grosse e il cervello fino, per quelli che dal loggione arrivano alle prime file, per il riscatto dei poveri o dei meno ricchi, diciamola tutta. Anche Del Neri ti sarebbe piaciuto.

Non quello che continua a dire che il primo obiettivo è la salvezza, ma quello che ama parlare dopo l’ ora canonica, come Rocco, quando la luce delle lampade è azzurrata dal fumo e sul tavolo restano le briciole e qualche bottiglia, e si parla per il piacere di parlare, perché comunque c’è una passione condivisa, ‘sto porco pallone, e si sentono meno gli anni e i chilometri. Forse ti piacerebbe anche Cuper e sull’ Inter sapresti tutto (senza scrivere tutto) perché Moratti te lo racconterebbe, per antica tradizione di famiglia, mentre a me non lo racconta. Sembra che stiano tornando di moda le ali, ed è grazie al Chievo. In compenso, Milano è piena di ristoranti giapponesi (cioccioreké miné). Dei tuoi amici osti è morto Franco Colombani, è morto Giuliano Metalli, è morto Alfredo Valli, ma prima ha fatto in tempo a mettere in menù un risotto dedicato a te (coi borlotti).

E adesso devo dirti una cosa. Io questo pezzo dei dieci anni ho cercato di schivarlo fino all’ultimo giorno, di dribblarlo come nemmeno Rocco Fotia. Perché credevo di aver detto tutto quello che c’ era da dire nel coccodrillo, e nei pezzi a un anno dalla tua morte, a due e a cinque, e in tutti quelli fatti sulle pagine di Milano, in nome e per conto dei Senzabrera. Adesso l’Arena di Milano, a due passi da casa tua, è dedicata a te, con tanto di lapide, e mi sembra una bella cosa dopo tante figure di merda. Sì, una bella cosa. Hai anche una via a Soveria Mannelli, in Calabria, e una a Roma. Milano è molto cambiata, io direi in peggio ma molti direbbero in meglio. Non parliamo di politica, altrimenti dovrei informarti che l’Italia ha già partecipato a una guerra umanitaria e sta per partecipare a una guerra preventiva. O dovrei immaginare cosa pensi della devolution, tu che hai parlato di Padania prima di altri.

Ma già così l’abbiamo tirata per le lunghe. Il pezzo l’ho scritto perché al giornale hanno detto che dovevo scriverlo io, e un po’ di senso del dovere mi rimane (sarà l’eredità del padre carabiniere) anche quando non sono molto d’ accordo. Ma credo che sarà l’ ultimo. In questi giorni di rievocazione si discute sulla tua eredità professionale. Mi sembrano discorsi inutili. Non si misura la vastità di un lago dal numero degli emissari, né l’altezza di una sequoia dal numero di sequoiette che ha sfornato. E quindi nel nostro paesaggio professionale tu vali Ayers Rock, punto e basta. Averti letto e poi conosciuto è stata una fortuna e una ricchezza, averti perso un dolore. I ricordi pubblici sono faticosi, quasi imbarazzanti, preferisco ricordarti rileggendoti o bevendo un bicchiere di Barolo (scusa, ma ultimamente mi piace più del Barbaresco) o tossendo con la prima sigaretta del mattino. Per il resto, vale la promessa da Malta: continuerò a portarti in giro, ma selezionando i luoghi. L’ erba di San Siro ti farebbe smadonnare, il prossimo Tour promette bene.