NENE’ – NORDAHL – NYERS – OCWIRCK – ORSI
Nel 1963 Boniperti in persona volò fino in Brasile per convincere quel ragazzo a seguirlo alla Juventus, convinto di poter risolvere il problema del centravanti, lasciato aperto dai tempi dell’addio di Charles. Sulle prime Claudio Olinto de Carvalho, detto Nené, non volle saperne, perché la mamma non gli avrebbe mai dato il permesso di allontanarsi tanto da casa. Ma i compagni di squadra lo incoraggiarono a varcare l’oceano. Come tanti suoi connazionali, Nené ebbe parecchie difficoltà di adattamento al calcio italiano. Impiegato come prima punta, duramente osteggiato da Sivori, a fine stagione, nonostante undici gol, venne ceduto a rate (caso più unico che raro nella storia del nostro calcio) al neopromosso Cagliari. Impiegato come tornante e poi centrocampista, divenne l’idolo brasiliano che con Riva avrebbe vinto il primo e finora unico scudetto dei sardi, dispensando geometrie e fantasia a una squadra rimasta nel ricordo degli sportivi dell’isola. Rimase con i sardi fino al termine della sua carriera, nel 1976.
Di stazza fisica notevole, dotato di un ottimo controllo di palla, “Ossie” (questo il suo soprannome) divenne la mente della squadra, l’imprescindibile e illuminato leader di centrocampo. Fu definito un “operaio specializzato” del calcio, per la capacità di coniugare il bel gioco privo di orpelli con la sostanza. In cinque splendide stagioni con la maglia blucerchiata, Ocwirk collezzionò 164 presenze per 38 reti.
Da oriundo, avrebbe potuto giocare nel nostro campio- nato. Mazzonis lo convinse con un’offerta che, per l’epoca, era allettante: centomila lire d’ingaggio, ottomila lire al mese e una Fiat 509 nuova di zecca. Orsi disse di sì, e a quel punto a scatenarsi furono gli argentini. Sui giornali d’oltreoceano, la faccenda della doppia nazionalità venne alla luce nei suoi aspetti più negativi, al punto che i dirigenti della Juventus si convinsero a mettere il loro campione in naftalina, in attesa di tempi migliori. Così, “Mumo” passò la stagione ’28-29 a guardare la sua Juventus dalla tribuna. Una stagione all’inferno, per uno che aveva il calcio nel sangue. La rivincita arrivò esattamente un anno dopo, e si protrasse nel tempo. Orsi si mise all’ala sinistra e nessuno lo spostò più fino al 1935. In mezzo, l’epopea della Grande Juve, quella dei cinque scudetti consecutivi, quella che entrò nella leggenda del calcio. E di quella leggenda, Mumo Orsi fu parte integrante. Talento infinito, piedi miracolosi che gli permettevano dribbling ubriacanti, inventore puro di grande calcio, capace di intuizioni geniali e di giocate sopraffine. Fu una colonna di quella Juve magica, e lo divenne anche della Nazionale di Vittorio Pozzo, che anche grazie a lui conquistò il titolo mondiale del 1934. Era davvero un bel tipo, Mumo Orsi. Istrione dalla lingua lunga, non conosceva la modestia. Si sentiva il migliore, e in fondo non aveva torto. Ma era anche generosissimo, simpatico e altruista. Sapeva stare in compagnia, aveva solo quel dannato difetto di sentirsi, oltre che un grande calciatore, un grande musicista: suonava il violino, e i suoi assolo erano la disperazione dei compagni di squadra. In sei stagioni bianconere, collezionò una serie infinita di reti e di prodezze. Aveva ormai trentaquattro anni, quando abbandonò l’Italia.
All’ultimo dei cinque scudetti juventini partecipò solo in parte. Non gli piaceva la piega che stava prendendo la situazione politica in Italia. Non gli piacevano quei venti di guerra e l’intolleranza che sembrava aver invaso i pensieri degli italiani. Così, per evitare problemi, nella primavera del 1935, il minuscolo, grandissimo Mumo fece le valigie e tomo in Argentina. Poche settimane dopo, la grande Juve chiudeva il suo ciclo irripetibile.