Napoli ha vinto, e scusate il ritardo

Capire Napoli non è facile. Non è facile per i napoletani, figuriamoci per gli altri. Una città piena di contraddizioni; meglio ancora, una città bifronte: europea e levantina, moderna e arretrata, metropoli e casbah, vitale e stagnante. Nel lontano 1802, l’esule Vincenzo Cuoco scriveva che la nazione napolitana si poteva considerare divisa in due popoli… la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione… e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’ era utile e che non intendeva.

Non fu certo un caso se i popolani avversarono ferocemente la rivoluzione del ‘ 99: A lu suono de la grancascia / viva sempre lu popolo bascio / A lu suono de li tammurrielli / so’ risurte li puverielli / A lu suono de le campane / viva viva li pupulane / A lu suono de li violini / sempe morte a’ Giacobbini!.

Per anni, gli inviati della grande stampa nazionale a Napoli non hanno fatto che puntare lo sguardo sui panni stesi nei vicoli, sui pazzarielli, su cantanapoli. E, in seguito, sulle gesta della camorra. Dall’altra parte, opponendo luoghi comuni a luoghi comuni, generalizzazioni a generalizzazioni, la classe dirigente (si fa per dire) napoletana faceva del vittimismo protestatario e querulo, attribuiva ogni responsabilità della degradazione di Napoli alle congiure del Nord, cercava di far credere alla gente che la crescita della città dipendesse esclusivamente dalla volontà di riparazione delle proprie colpe da parte dello Stato.

C’erano poi i cosiddetti napoletanisti eredi di Scarfoglio, i quali, per esaltare una Napoli categoria dello spirito, non trovavano di meglio che celebrare la filosofia della miseria; il buon selvaggio del Pallonetto o dei Quartieri dimostrava la sua superiore saggezza, secondo loro, ridendo dei propri mali, quando addirittura non ne traeva ispirazione per le sue canzoni. Se non trovava lavoro, pazienza; anzi in qualche modo la disoccupazione era una scelta di vita.

Lo aveva già scritto nel 1835 Alexandre Dumas (nel Corricolo): il lazzarone napoletano è uno che dorme quando ha sonno, mangia quando ha fame, beve quando ha sete. Gli altri popoli si riposano quando sono stanchi di lavorare: lui, invece, quando è stanco di riposare lavora. Lavora, ma non di quel lavoro del Nord, che sprofonda l’uomo nelle viscere della terra per estrarre il carbone, che lo curva sull’aratro, che lo sospinge sui tetti spioventi… bensì di quel lavoro giocondo, spensierato, trapunto di canzoni e di lazzi… Nessuna voglia di faticare sul serio, dunque; ma in compenso nessun rancore, nessun desiderio di rivalsa né individuale né collettiva. E lo stereotipo era destinato a durare.

Quarant’anni più tardi, Renato Fucini si scandalizzava per l’ ossequiosità dei poveri di Santa Lucia verso i forestieri ricchi: Eccellenze e riverenze e atti d’umiltà indecorosi. Roba dell’ Ottocento, direte. E invece no. Ancora negli anni Sessanta il direttore del Mattino (che era Giovanni Ansaldo) esaltava la povera gente che, a suo dire, gioiva vedendo entrare i signori nel San Carlo: quantunque moltissimi napoletani non siano mai entrati nel teatro, osservava benevolmente Ansaldo, grazie a quella totale assenza di astio sociale che costituisce il pregio maggiore del popolo napoletano, quei moltissimi non invidiano affatto quei fortunati che vi possono mettere piede…

Nessuno sembrava sospettare che la felicità stracciona fosse null altro che una rassegnazione prodotta da secoli di promesse non mantenute, di governi e amministrazioni corrotte, di frustrazioni e di inganni. Una rassegnazione, peraltro, sempre tinta di ironia, anzi di autoironia, al tempo stesso salutare e dannosa: salutare perché costituiva una barriera contro la disperazione, dannosa perché si traduceva in scetticismo circa la propria capacità di ribaltare le cose.

Significative, al tempo dei Borboni, le battute che si moltiplicavano nel popolo a proposito dell’ esercito di Franceschiello. Come ad esempio questa: Capità, fuimme (scappiamo)? Aspettate l’ordine.

E’ stata la stessa autoironica rassegnazione, io credo, a far sì che fin dal 1926 i napoletani scegliessero il ciuccio come simbolo della loro pur amatissima squadra di calcio. Non un lupo, non un toro, non una zebra, non un biscione. No, un asinello, l’animale pieno di piaghe, la paziente bestia destinata a ricevere in eterno bastonate. E lo raffigurarono, quel ciuccio, mentre calciava un pallone con le zampe posteriori, senza dunque veder neppure dove lo spediva. E il motto fu: Ciuccio, fa tu. Ma un ciuccio, che può fare? Può soltanto perdere.

E infatti il ciuccio perderà. Perderà anche quando la società avrà alla sua testa un dirigente moderno come Giorgio Ascarelli (è vergognoso che oggi nessuno ne ricordi il nome), che costruirà uno stadio a proprie spese e, con una intuizione anticipatrice circa l’importanza dell allenatore per le fortune di una squadra di calcio, chiamerà a Napoli William Garbutt, un inglese competentissimo che resterà sei anni e darà ai tifosi la soddisfazione di vedere i loro giocatori in Coppa Europa.

Ma il ciuccio continuerà a non vincere. E tanto meno vincerà quando negli anni Cinquanta, sovrapponendo i propri interessi politico-elettorali alla passione calcistica dei suoi concittadini, Achille Lauro lancerà lo slogan: Per un grande Napoli, per una grande Napoli. Non ci sarà né l’uno né l’altra. Non ci sarà la grande Napoli, ché al contrario le amministrazioni laurine metteranno mano al sacco edilizio della città; e non ci sarà il grande Napoli, malgrado l’ acquisto di bravi o anche bravissimi giocatori, perché l’improvvisazione e la speculazione propagandistica impediranno ogni seria programmazione.

Ci sarà, per contro, la spaccatura della tifoseria. I primi appassionati di calcio, a Napoli, furono come del resto accadde un po’ dovunque di estrazione aristocratica o alto-borghese; anche i giocatori provenivano dalle file dei signori (una delle prime squadre napoletane aveva, all’ala destra, il duchino di Serracapriola). Poi arrivarono i popolani. E l’integrazione fu spontanea e felice: gentiluomini e plebei erano animati dallo stesso senso della festa, dallo stesso gusto dello spettacolo, dalla stessa propensione allo sberleffo, che poi è il migliore antidoto contro il fanatismo.

Ricordo una partita, allo Stadio Partenopeo, che si svolgeva mentre la radio mandava in onda un discorso di Mussolini. Sulle gradinate erano stati sistemati degli altoparlanti perché la voce del capo potesse giungere ai tifosi. Ebbene, mai si udirono incitamenti più allegri e rumorosi alla squadra: si può dire che non una sillaba mussoliniana riuscisse a raggiungere le orecchie degli spettatori. E che dire della fama di jettatore calcistico attribuita al principe di Piemonte? Ogniqualvolta il futuro re d’Italia metteva piede nello stadio, sugli spalti si provvedeva ai necessari scongiuri…

Ma negli anni Cinquanta, come dicevo, la tifoseria si spaccò. Quella che Vincenzo Cuoco aveva definito la parte colta della nazione napolitana non gradiva lo sfruttamento in chiave elettoralistica diciamo borbonica nel senso peggiore del termine delle vicende della squadra. Sapeva che se lo scudetto fosse arrivato a Napoli in quegli anni, avrebbe con ogni probabilità contribuito a radicare durevolmente un modo di far politica, e anche una mentalità, che sarebbero stati di serio ostacolo alla crescita sociale e civile della città.

Del resto, anche il mancato arrivo dello scudetto venne attribuito, da chi gestiva le sorti del Comune e della società di calcio, alle inadempienze dello Stato e alle cospirazioni nordiste (eppure in Parlamento Lauro votava costantemente per il governo e si guardava bene dal compromettere i suoi rapporti d’affari con la Fiat e in genere con gli industriali del Nord).

Dopo sessantun anni, oggi lo scudetto è finalmente arrivato. E qualcuno va nuovamente a caccia del pittoresco, magari nascondendo sotto la dichiarata simpatia una sfumatura di indulgente superiorità davanti alle nuove sfrenatezze piedigrottesche. Mentre qualcun altro, allopposto, dilata la portata dell’ avvenimento, facendone un punto di partenza (se non addirittura un punto di arrivo) per la riscossa di Napoli, ciò che è indubbiamente improprio, esagerato e forse pericoloso.

Ma non è né improprio né esagerato, io credo, osservare che in certi casi la conquista di uno scudetto del primo scudetto, si badi ha risvolti che vanno al di là di un primo posto nella classifica di un campionato. E’ come aver messo piede in teatro, per chi finora s’ era dovuto contentare di guardare quelli che vi entravano.

E’ un momento di felicità regalato a tanti napoletani: sia quelli che vivono nella loro terra, sia quelli costretti ad andare in giro per il mondo e che per un giorno si riappropriano della loro comune identità; e non c’è bisogno di storcere il naso se questo risultato nasce dalle traiettorie di un pallone. E’ una vittoria che, non essendo dovuta allo scalciare fortuito e scomposto di un somaro, ma frutto di un lavoro serio, intelligente e condotto senza finalità nascoste, può contribuire a dissipare lo scetticismo e la rassegnazione.

Insomma un successo che non è né scandaloso né illegittimo affiancare a quelli conseguiti, in altri campi, dall’Aeritalia, o dall’Istituto per gli studi filosofici, o dalla Fondazione Napoli 99, o dalla nuova musica napoletana, o dalle tante iniziative che, sia pure in mezzo alla moltitudine dei problemi tuttora irrisolti, segnano il progressivo imporsi di quella che, parafrasando De Gaulle, mi piacerebbe chiamare una certa idea di Napoli.

Ed è una vittoria che ricompone simbolicamente l’unità delle due anime della nazione napolitana, perché si lascia indietro sia la sdegnosa astrazione di una piccola cerchia di intellettuali rinchiusi nel loro guscio, sia la cieca disponibilità plebea a farsi manovrare dalla demagogia più rozza e più cialtrona.

Scusate il ritardo, proclama lo striscione appeso alla Riviera di Chiaia; e questa volta l’ironia dei napoletani non è diretta solo contro se stessi. Scusate il ritardo di Napoli nella conquista del suo primo scudetto, naturalmente. Ma mi auguro, anzi credo fermamente non in quella soltanto.

di Rosellina Balbi – La Repubblica del 12/05/1987