NENE’ Claudio Olinto de Carvalho

Non capita a tutti di giocare con Pelé, Sivori e Riva. È capitato a Nené, un brasiliano che aveva scelto l’orgoglio della Sardegna come medicina contro la saudade.

Olindo Claudio De Carvalho è stato un uomo buono. Lo chiamavano Nené, bambino. Suo padre si chiamava Olindo Herminio De Carvalho ed era terzino del Santos. Poi Herminio ha smesso di giocare ed è diventato elettricista. Nené è timido e alto, gioca scalzo nel Flamengo di Santos, la sua città dove è nato il 1 febbraio 1942. Poi esce dalla strada ed entra nel Senador Feijo. «Avevo quindici anni, ero junior, dispiaceri. Guarda tuo padre, mi ripeteva mamma Rute, ha giocato, gli piaceva, pensava tanto al calcio. Tuo padre era generoso, ma il calcio con lui non lo era. Diventa elettricista come tuo padre».

Una mattina Nené parte con un suo compagno e va a fare un provino nel Santos. Quel giorno vede Pelè. Il piccolo Nené aveva solo un anno meno di Edson Arantes do Nascimiento. Ma era un anno luce. Pelè è già un re. Nel 1958 Nené ha sedici anni, Pelè diciassette. Pelè è fresco campione del mondo, il numero 10 del Brasile, ha segnato due gol nella finale mondiale contro la Svezia. «Tutti in Brasile volevamo diventare Pelè». Nené diventa un buon giocatore di centrocampo che fa i gol. Il Santos lo prende, diventa la riserva di Pelè.

Racconta la sua prima partita accanto al re, in serie A: «L’allenatore è Lulla, un improvvisatore. Chiamava tutti negli spogliatoi, i titolari e quelli della giovanile, senza avvisare. Quel giorno dovevo fare l’anteprima, aprire lo spettacolo dei grandi. Lulla mi dice: “Prendi quella maglia, la numero undici”. Gioco contro la Juventus di San Paolo. Io con l’undici, Pelè con il dieci. Il Santos vince anche quella partita, tre a uno. A un certo momento scatto sulla sinistra, Pelè mi segue, io gli do il pallone, lui me lo ridà con tocco morbidissimo e io mi trovo davanti al portiere. Il gol è facile, poteva farlo lui, l’ha fatto fare a me. Pelè è stato buono e generoso, Pelè è sempre stato prima un uomo e poi un giocatore».

Nené gioca nel Santos, a giugno 1963 fa una tournée in Italia, a Torino contro la Juve di Sivori in un’amichevole di lusso, che segna l’arrivederci della squadra bianconera al suo pubblico. Al centro della prima linea juventina gioca un francese alquanto referenziato, Douis si chiama, e la prova sua è molto attesa in prospettiva di un’eventuale acquisto. Ma Douis non convince e finisce che pubblico e osservatori puntano gli occhi su un giovanotto color ebano che, nelle file del Santos, dialoga con disinvoltura con sua maestà Pelé. Si chiama Claudio Olinto de Carvalho, per tutti più brevemente Nené, ventuno anni scarsi.

Giampiero Boniperti lo contatta e poi lo insegue in Brasile. Nené sfida la ritrosia della sua famiglia e accetta la sfida. Torna a Torino e in breve le sue doti naturali di affabilità, modestia e cortesia conquistano un po’ tutti, compreso capitan Sivori, notoriamente restio a concedere la propria confidenza ai nuovi arrivati. Per i tifosi è una scoperta felice, Nené diventa beniamino sin dai giorni del ritiro precampionato in quel di Cuneo.
«Incominciai il periodo del noviziato a Torino in un albergo. Devo dire che, in principio, non mi ambientai affatto. Io non parlavo l’italiano, nessuno mi capiva. Poi Carlo Mattrel mi ospitò in casa sua e trovai un po’ di calore umano. Conobbi la ragazza che è diventata mia moglie».

In campo prima il tecnico brasiliano Amaral poi il suo sostituto Monzeglio cercano di inquadrarlo in un ruolo non suo. A fine stagione saranno pur sempre 28 presenze e 11 reti ma tutto l’ambiente non è soddisfatto: serviva un centravanti, ma Nenè non è un centravanti «puro», non è e non sarà mai l’erede di John Charles. E’ alto, ha gambe lunghe ed eleganti, ma « trattasi di un centrocampista offensivo», scrivono i giornali. Si dice poi che Nené pensa troppo alla sua casa, alla sua mamma, al Brasile. Non la chiamano ancora saudade, si limitano a considerarla semplice nostalgia. «Non è vero. Forse non ero molto simpatico a Omar Sivori, forse era un po’ colpa mia. Ma non sono stato colpito dalla saudade. Molti brasiliani hanno avuto questo problema, io volevo diventare un buon calciatore in Italia. La Juventus non poteva aspettarmi, non aveva pazienza. Ci sono rimasto un anno, un solo anno, ho fatto un po’ di gol». Non male per un centrocampista, anche se offensivo. «Quando ho cominciato a capire il calcio italiano, a Torino mi hanno ceduto».

Erano gli anni del boom economico. Delle auto, dei frigoriferi, credenze e vetrine comperate a rate. Cioè con le cambiali. Pacchi, montagne di cambiali. Olindo Claudio De Carvalho è ceduto al Cagliari a rate. «Forse sono stato il primo acquistato in questo modo. Venticinque per cento il primo anno, venticinque il secondo e così via» . Nené va in Sardegna, è un po’ giù di morale. «Non mi sentivo bene. Qualcuno usava un brutta parola: fallimento. No, quello no. Mi sentivo soltanto poco utile».

L’allenatore è Silvestri detto Sandokan. Lo guardò con i suoi profondi: «Ragazzo, su con la vita, questo è un buon posto, qui c’ è del buon calcio. Ribellati, fai quello che sai fare». Sandokan a Nené disse anche: «Ricordati che sei brasiliano e hai giocato nel Santos di Pelè». Trova amici, Longo e Cera, poi Tommasini. Da Torino arriva anche il portiere Mattrel. Entra nel Cagliari di Riva, tira e segna con grandi punizioni da trenta metri. Grandi sgroppate, ottimi assist. «Un giorno a Roma scatto sulla fascia e vado via veloce, il loro allenatore, Oronzo Pugliese, si mette a correre a fianco, lungo la linea urlando. “A me, passala a me…”. La scena è molto divertente, la gente dell’ Olimpico applaude, è stato bellissimo. Ma io non mi sono fatto incantare: ho passato il pallone a Riva e lui ha fatto un gran gol. Come sempre».

Aveva una falcata, Nené, che gli permetteva di spremere i terzini. Ma neppure quello era il suo domicilio. Attorno alle sue leve stava nascendo la favola del Cagliari di Manlio Scopigno, il filosofo, e di colui che Gianni Brera avrebbe ribattezzato “Rombo di Tuono”: Gigi Riva. La scintilla fu l’ingaggio di Angelo Domenghini. La mossa, lasciare “Domingo” all’ala e spostare Nené a mezzala. Ne capiva di calcio, Scopigno. Il Cagliari, “quel” Cagliari, diventò una filastrocca, un mantra: Albertosi, Martiradonna, Zignoli; Cera, Niccolai, Tomasini (Poli); Domenghini, Nené, Gori, Greatti, Riva. Allora sì che potevano bastare 18 uomini, e anche meno, per fare un colpo di Stato.

Lo scudetto del 1970 segnò una svolta clamorosa ed epocale, con la Sardegna in copertina, non più terra di “confino”, non più ricettacolo di luoghi comuni. Nené vi contribuì con il suo calcio di appostamento e movimento, pochi gol, appena tre, ma un rendimento assiduo, concreto (28 partite su 30). Sandro Ciotti lo descrisse “tatticamente ancora più importante di Riva“, il cui sinistro cambiò i connotati del nostro football. Dal 1964 al 1976: sempre Cagliari, solo Cagliari.

«Lo scudetto: è stato il trionfo dell’ amicizia. Eravamo un buon gruppo, unito, allegro, vivevamo in un condominio. Prendevo in mano la chitarra, strimpellavo, a volte facevo finta. Cantavo canzoni brasiliane. Era un divertimento, cominciato col grande Scopigno. Hanno detto che era un mago e poi un filosofo. Scopigno era un democratico, civile, tollerante amico. Lui apprezzava la nostra allegria. Voleva giocatori e uomini genuini. Noi eravamo genuini e abbiamo costruito grandi vittorie».

Poi si ferma, i capelli diventano bianchi e con le sue gambe da ballerino di musical americano inizia ad insegnare calcio e umanità. Andò a dare una mano a Riva che aveva appena aperto una scuola calcio. Furono i primi passi della carriera da tecnico che passò per la Primavera della Fiorentina prima dell’approdo in C, con i grandi, tra Paganese e Sant’Elena. Ma la sua passione era allenare i più giovani: tutti lo ricordano per la sua simpatia e la sua gentilezza. Con la Primavera della Fiorentina vinse campionato, coppa di categoria e torneo di Viareggio. Aveva continuato con le giovanili di Cagliari e Juventus sino al ritorno definitivo in Sardegna.

Quando si spengono le luci della carriera, e comincia il tribolato dopo, non tutti riescono a districarsi. Di Nené si ricorda la dignità con la quale affrontò la popolarità e gli stenti, questi due “impostori”, per dirla con Rudyard Kipling. La sua parabola è stata anche una collana di dolori, di malattie, di difficoltà economiche. Negli ultimi anni era ricoverato in un ospizio di Capoterra, periferia di Cagliari, dove si spegne nel settembre 2016. Gli amici, i vecchi compagni, il Comune e i tifosi non lo avevano mai abbandonato. Non capita a tutti di giocare con Pelé, Sivori e Riva. È capitato a Nené, un brasiliano che aveva scelto l’orgoglio della Sardegna come medicina contro la saudade.