NICOLE’ Bruno: talento bruciato

Nicolè non è mai stato un “bidone”, perlomeno nella comune accezione del termine. A lungo è sembrato uno dei “misteri” del calcio italiano. Fuoriclasse (potenziale) a 17 anni, brocco a 24. La sua, in realtà, è stata la storia di un talento eccezionale “bruciato” dalla precocità.

Bruno Nicolè nasce a Padova il 24 febbraio 1940, è poco più che un bambino quando dall’oratorio della Sacra Famiglia per un sacco di palloni passa alle giovanili del Padova. Il mercoledì gioca con i “grandi” e l’”armadio” Azzini, stopper di lungo corso, sacramenta di fante ai guizzi di quel ragazzino impertinente che gli scivola via da tutte le parti. Le doti sono così evidenti che la strada diventa subito in discesa: a quindici anni la prima convocazione nella Nazionale Juniores, a sedici l’esordio in A, i primi gol, contro Genoa e Juventus, l’Appiani che lo porta in trionfo dopo lo storico successo sui bianconeri.

Guida la squadra biancoscudata il fiuto di Nereo Rocco, che ha intuito il campione e lo ha gettato senza remore nella mischia. Tutto accade in una fretta sconvolgente. Pochi mesi dopo Nicolè è protagonista del trasferimento dell’anno, alla Juventus in cambio di Hamrin e milioni. Non è una Juventus qualunque: ha da poco assunto la presidenza il ventiduenne Umberto Agnelli, deciso a rinnovare la squadra, restituendola ai fasti perduti nelle ultime stagioni. Nasce la grande Juve di Charles e Sivori, di Boniperti e… Nicolè.

Subito proiettato tra i grandi, ad appena diciassette anni, subito lo scudetto (da titolare quasi fisso) e poi, il 9 novembre 1958, un altro primato di precocità: il trionfale esordio in Nazionale, allo stadio Colombes di Parigi, coi due gol che danno agli azzurri il pari (2-2) e fanno gridare ai giornali il giorno dopo che l’Italia ha trovato il “nuovo Piola”.

Tutto troppo in fretta. Difficile conservare equilibrio, tanto più che nella sua squadra di club in mezzo a tanti campioni sacrificarsi ovviamente tocca a lui, il più giovane. Centravanti di vocazione, Nicolè deve spostarsi a mezzala per trovare spazio (Charles e Sivori sono ovviamente le punte deputate) e poi, quando Boniperti rifiuta il ruolo di ala, l’ex gioiello biancoscudato è costretto a decentrarsi, smarrendo via via una propria definita connotazione di ruolo, finché l’avvento di Mora gli toglierà spazio.

Nicolè, ragazzo sensibile, cerca riparo nei libri, provando a studiare alle scuole serali, ma intanto il suo rendimento è altalenante. Vince il suo terzo scudetto nel 1961 (29 presenze, 13 gol), poi comincia la glande crisi juventino del dopo-Boniperti. Nicolè gioca ancora ogni tanto in azzurro, ma i due gol dell’esordio non avranno seguito. Quando arriva in bianconero il tecnico brasiliano Amaral, l’ex fenomeno perde il posto in squadra.

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A 23 anni, dicono i critici, gioca come se ne avesse dieci di più: un ex attaccante che preferisce partire da lontano, dialogare più che puntare a concludere. Così nell’estate del 1963 Nicolè viene trattato al mercato come un campione senza valore. La Juventus vuole il romanista Menichelli e al club giallorosso dà 150 milioni, cioè il prezzo di mercato, e in aggiunta Nicolè. Ma la Roma non sa che farsene e lo gira in prestito al Mantova.

La stagione in biancorosso accentua la crisi. Nicolè l’anno dopo approda effettivamente nella Capitale, dove Juan Carlos Lorenzo ne tenta il rilancio in grande stile. Niente da fare; con appena 13 presenze e 2 gol alle spalle, finisce alla Sampdoria, dove colleziona 8 presenze e viene ceduto all’Alessandria, con cui retrocede in C giocando una manciata di partite.

A 28 anni lascia il calcio, ricomincia seriamente a studiare, si diploma all’Isef e diventa insegnante di educazione fisica, che gli permette di avviare una nuova carriera, lontana dalle luci della ribalta, meno prodiga di denaro, ma anche ricca delle soddisfazioni quotidiane evidentemente più corrispondenti alla sua indole.

Raggiunta l’età matura, Nicolè commenterà con saggezza: «Sono contento di avere giocato al calcio. Poteva magari essere diverso, potevo anche dare di più, ma fatto è che a ventuno anni avevo già vinto tre scudetti ed ero capitano della Nazionale. È vero, ho smesso a ventotto anni, ma e anche vero che ho cominciato a sedici e dunque pure io, come tanti, ho giocato dodici anni. Potevo magari segnare un’epoca, ma andata diversamente».