LIEDHOLM Nils: il monumento che si innamorò dell’Italia

Prima calciatore, poi tecnico, infine dietro la scrivania: una vita da maestro distribuendo saggezza e ironia, flemma e buon senso, battute e paradossi.


Nils Liedholm nasce a Valdemarsvik, cittadina svedese che oggi conta 9000 anime, un ridente e pittoresco villaggio situato su una baia punteggiata da tipiche case di legno rosso bordeaux, con lo sfondo verde degli abeti e delle betulle. È una zona di agricoltori benestanti con fattorie attrezzate. Fare il contadino, qui, significa essere libero e ricco, avere un contatto privilegiato con la stupenda natura. E fare il contadino era appunto il sogno del piccolo Nils, perchè pensare di vivere di solo calcio non era possibile nella Svezia di quegli anni.

Suo padre invece lo voleva impiegato nello studio di un avvocato, a occuparsi di tasse: sarebbe stato orgoglioso di poter aver in casa un futuro esperto fiscale. Il giovane Nils si dovette rompere una gamba per dimostragli che sognava l’irrealizzabile. Di sera si allenava con i campioni di Bandy, una sorta di hockey su ghiaccio violentissimo. Dagli scontri usciva pesto e sanguinante spesso e volentieri. Così si rafforza il fisico, il fiato invece lo accumula con i fondisti dello sci. E la mattina presto subito al campo: due ore di porta a porta palla al piede, a velocità sostenuta, intervallata da scatti violenti.

Tanto sport e tanti sport, ma il calcio resta al primo posto. A 16 anni gioca già titolare nella squadra del paese. Quattro anni più tardi si trasferisce all’IK Sleipner, poi il salto nel Ifk Norrkoeping. Presto la nazionale s’accorge di quel giovanotto alto e dinoccolato, che si muove instancabilmente per tutto il campo. Nel ’48 Liedholm è tra i protagonisti della vittoria svedese nel torneo olimpico e il selezionatore Krek gli dedica un complimento del quale andrà sempre orgoglioso: «Se potessi disporre di undici Liedholm, batterei ogni avversario».
E’ in grado di occupare qualsiasi ruolo, dalla difesa all’ attacco. Infatti nel Milan giocherà da interno, da mediano e infine da libero.

Il Valdemarsvik del 1942: Liedholm è il terzo in piedi da sinistra

La chiamata per l’Italia, la chiamata della sua vita, arriva l’8 agosto 1949. A convincerlo a tentare l’esperienza sono Nordahl e sua moglie, l’allenatore Czeizler e il direttore tecnico del Milan, Busini. Ricordava: «Accettai soprattutto per stanchezza. Parlammo per una notte intera. Era ormai l’alba quando dissi di sì». Comincia il campionato 1949-50 e nel Milan si ricompone il trio centrale della nazionale svedese. C’è Nordahl, c’è Liedholm e cè pure Gunnar Gren. Se Nordahl è un poderoso goleador, cinque volte capocannoniere, e Gren un geniale suggeritore di gioco, lui corre molto.

Possedeva una falcata da mezzofondista, era abile nei passaggi smarcanti e aveva un tiro niente male. Nasce la leggenda del Gre-No-Li.: la sigla la inventò un giornalista, che faticava a pronunciare e scrivere i cognomi degli svedesi, e che così pensò bene di abbreviarli. Dodici stagioni nel Milan e quattro scudetti. Liedholm ha quasi 39 anni quando smette di giocare, dopo aver fatto da balia a ragazzi come Rivera, Trapattoni e Salvadore. Alle spalle si lascia 359 partite, 81 gol ed episodi mitici, in bilico tra realtà e fantasia. Il più lungo applauso a scena aperta lo ricevette a San Siro il giorno in cui sbagliò un passaggio: non era mai successo. E all’allenatore Viani (grandissimo tattico, anche se Liedholm sosteneva che la tecnica dovettero spiegargliela lui e Schiaffino…) che gli ordina di cambiare la propria posizione in campo, Nils replica serafico ma deciso: «Lei comanda fuori dal campo, io sono il capitano e comando in campo».

Liedholm si iscrive al corso allenatori. Fresco di diploma, diventa allenatore del settore giovanile del Milan, ma nel 1964 deve sostituire l’argentino Carniglia, guidando il Milan al terzo posto, preceduto da Bologna e Inter, protagoniste di uno storico spareggio. La stagione successiva è quella del clamoroso sorpasso interista ai danni del Milan, che si fa rosicchiare sette punti di vantaggio. Presidente era Felice Riva, che convinse Altafini a tornare dal Brasile e suggerì a Liedholm di farlo giocare anche se poco allenato: un errore che costò lo scudetto.
L’anno seguente è un piatto di ostriche a tradirlo. Epatite virale, la malattia lo costringe 53 giorni a letto e poi a 8 mesi di convalescenza. Quando guarisce, la panchina è già occupata.

A Liedholm giunge una proposta che sembra un suicidio. Lo vuole il Verona di Garonzi, che nel 1967 sta per sprofondare in serie C. Nessuno crede alla salvezza dei gialloblù, invece l’impresa riesce e l’anno dopo il Verona sale addirittura in serie A. Un’altra impresa disperata lo attende a Monza, pur esso a due passi dalla C. E’ di nuovo salvezza, un’impresa che Liedholm amerà ricordare come la maggiore soddisfazione di tutta la sua carriera in panchina. C’è un’ altra stagione in B per Liedholm, che trascina il Varese alla promozione e lancia un futuro campione che si chiama Bettega. Nel 1971 Liedholm si trasferisce alla Fiorentina, due stagioni intermedie con il merito di aver fatto da chioccia ad un altro futuro campione: Giancarlo Antognoni.

Se ne va da Firenze perché lo vuole l’Inter, ma all’ultimo momento Fraizzoli non ha il coraggio di sfidare chi lo considerava troppo milanista. Lo vorrebbe anche la Juve, ma Liedholm non si accorda con Boniperti e regala ai cronisti uno dei suoi paradossi più felici: «Non vado a Torino per lealtà verso il campionato. La Juve e io, insieme, lo uccideremmo». Nell’autunno del 1973 Liedholm intraprende la prima delle sue quattro esperienze romaniste, invitato da Gaetano Anzalone a sostituire il filosofo Scopigno.

Sulle rive del Tevere trova ragazzi interessanti come Conti, Di Bartolomei e Rocca. Sono quattro stagioni in chiaroscuro, i cosiddetti anni della Rometta, ma nel 1977 il Milan si ricorda del Barone e lui questa volta non sa resistere. La prima stagione (1977/78) serve a ricostruire l’ambiente, devastato nella stagione precedente dall’ esperimento Marchioro con i rossoneri in zona retrocessione, e soprattutto e rimotivare Gianni Rivera, ormai dato per finito.

Il Milan infatti gioca senza punte, con il solo Stefano Chiodi attaccante di ruolo ma vera sciagura sotto rete. Liedholm si inventa quindi un tourbillon sulla tre-quarti con Bigon sugli scudi e il terzino Maldera goleador. E’ una lotta fino all’ultimo sangue con il Perugia dei miracoli di Castagner (che terminerà il campionato imbattuto) a lottare fino all’ultimo. All’indomani dello scudetto Liedholm chiede un contratto triennale, il presidente Colombo gliene offre uno di dodici mesi. Lui allora accetta di tornare a Roma, dove il presidente Viola sta per trasformare «la Rometta» in un squadrone, protagonista il brasiliano Falcao, «il più grande regista tattico che io abbia mai visto». In cinque stagioni un gioco che incanta, tre Coppe Italia, lo splendido scudetto della stagione 1982/83 e una finale di Coppa dei Campioni persa ai rigori contro il Liverpool: tanto, tantissimo per il pubblico romanista rassegnato da 40 anni a una Roma mediocre.

Nell’estate successiva Liedholm sbarca nuovamente al Milan, dove la burrascosa gestione Farina sta per fare posto a Silvio Berlusconi, che nell’ 87 lo sostituisce con Capello, relegandolo al ruolo di direttore tecnico. L’ anno dopo Liedholm intraprende la sua terza avventura alla Roma, che però si conclude male. Esonerato e poi richiamato da Viola, lo svedese verrà infine rimpiazzato da Radice. È il 1988. Liedholm resta senza panchina per due anni, durante i quali provvede a sviluppare la propria azienda vinicola, assistito dal figlio.

Un’ altra stagione poco felice al Verona è il prologo a un nuovo e lungo periodo di inattività calcistica, dalla quale nel ’97 lo schioda Sensi per affidargli la Roma dopo l’esonero dell’argentino Carlos Bianchi. Liedholm ha già 75 anni, viene affiancato da Ezio Sella, allenatore della Primavera giallorossa, e combina poco: una sola vittoria in otto partite e appena quattro punti di margine sulla retrocessione. Sostituito da Zeman, Liedholm diventa il consigliere tecnico del presidente romanista, incarico svolto fino al 2002 per poi dedicarsi anima e corpo ad una serena vecchiaia ed alla sua azienda vinicola, attorniato dalla natura, dal buon vino e dall’allegria dei nipoti.

Nils Liedholm ci ha lasciato il 5 novembre 2007 a 85 anni, ma resterà sempre un esempio irripetibile di un calcio e un di mondo che non c’è più. Maestro non solo di calcio e pieno di qualità impareggiabili: sicuramente sapienza e arguzia, aggiunte alla capacità di sdrammatizzare anche le situazioni più delicate.

Un filmato ricostruito con le immagini contenute nel libro “Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio” di Sebastiano Catte (Edizioni Ethos). Le foto, fornite gentilmente all’autore dallo stesso Nils Liedholm, ci aiutano a ripercorrere tutta la prestigiosa carriera di un indimenticabile uomo di sport che ci ha lasciato di recente.Il libro — vedi la scheda su http://www.ethosedizioni.com — è frutto di lunghe conversazioni con il maestro svedese e ci proietta in un’epoca in cui il calcio era ancora considerato un gioco e non aveva del tutto smarrito la sua innocenza. La storia del calcio dal dopoguerra ai giorni nostri attraverso la testimonianza di un grande protagonista: da Nordahl a Totti passando per Schiaffino, Pelè, Rivera, Falcao, Baresi, Maldini e tanti altri.

Intervista a Gianni Rivera, che ha esordito nel Milan a 16 anni proprio nell’anno in cui Nils Liedholm disputava la sua ultima stagione da calciatore. L’incontro con il maestro svedese rappresenta un po’ un ideale passaggio di consegne tra due grandi personaggi simbolo della squadra milanista.

Rivera, come è stato il suo primo approccio con Nils Liedholm?

I primi ricordi sono legati alla fine degli anni ‘50, quando Pedroni, il mio allenatore nell’Alessandria, fece di tutto per farmi fare un provino con il Milan. Avevo solo 16 anni e mi accompagnò a Linate, dove allora si allenava la squadra rosso-nera. Nella partitella fui schierato nella formazione titolare che affrontava quella giovanile, quindi insieme a Liedholm e Schiaffino, i due leader di quella squadra. Come si sa quel test andò bene e, malgrado lo scetticismo di qualcuno, i dirigenti del Milan decisero di acquistarmi. Qualche anno dopo seppi che Liedholm ebbe un ruolo fondamentale in quella decisione. Dopo quel provino infatti lui, insieme a Schiaffino, andò da Viani per consigliargli di prendermi. Ho saputo che dovette esercitare tutte le sue capacità persuasive per cercare di smontare l’iniziale diffidenza di quei dirigenti milanisti che avevano poca fiducia in me per via di un fisico gracile e quindi – secondo loro – dotato di una scarsa propensione nei confronti di uno sport “maschio” per eccellenza come il calcio.
Quando qualche mese dopo arrivai al Milan giocai per un anno intero insieme a Liedholm, in quella che fu la sua ultima stagione da calciatore. Non c’è dubbio che per me sia stata una grande fortuna (oltre che un grande onore) aver avuto l’opportunità di iniziare in quel grande club avendo lui come compagno di squadra e come punto di riferimento. Era considerato da tutti già allora un monumento vivente del calcio. Aveva un fortissimo ascendente sui giocatori, soprattutto sui giovani, per i quali era un esempio da seguire. Ho imparato molto da Liedholm, anche perché l’anno successivo, quando divenne responsabile tecnico delle giovanili del Milan, fui mandato spesso ad allenarmi con lui.

Quali sono stati gli insegnamenti che le sono rimasti maggiormente impressi?

Lui lasciava molta libertà a noi giocatori. La sua cultura sportiva si basava sul concetto di fondo che un calciatore doveva essere professionista per scelta e non per obbligo. Certo, quando capiva che qualcuno andava un po’ troppo sopra le righe o remava contro, sapeva come richiamarlo alle proprie responsabilità. Ma lo faceva senza quell’impeto aggressivo e autoritario che a quei tempi era comune un po’ a tutti gli allenatori, senza alzare mai la voce. Inoltre aveva la straordinaria capacità di far svolgere gli allenamenti facendo in modo che la partita della domenica successiva potesse essere impostata in maniera tale che i movimenti fossero automatici, quasi naturali. Anche allora a lui piaceva un tipo di calcio basato sul possesso del pallone, e in funzione di questa idea di fondo impostava i suoi allenamenti, che sapeva oltretutto rendere sempre divertenti (e che raramente faceva pesare ai giocatori).

A suo avviso quali sono stati i cambiamenti più significativi che Liedholm ha apportato nel calcio italiano?

Se consideriamo la storia del calcio italiano dal dopoguerra a oggi, non c’è dubbio che Liedholm debba essere considerato come uno dei tecnici più innovativi in assoluto. Basti solo pensare a quel che è riuscito a fare a Roma: è stato il primo allenatore a imporsi andando contro la mentalità dominante del calcio all’italiana basato sul concetto del “prima non prenderle”.

La sua notevole capacità nell’innovare riuscì ad esprimerla anche con il vostro Milan, quando vinceste lo storico scudetto della stella?

Certamente. In quel Milan della stella lui fu molto bravo nel mantenere un gruppo molto unito e nell’inventarsi letteralmente una squadra, dal momento che abbondavano le mezze punte e c’era un solo attaccante di ruolo. Era molto bravo nel saper mantenere l’armonia all’interno della squadra e questo – ripeto – senza mai dover far sfoggio di un comportamento aggressivo, semplicemente facendo in modo che questo clima si venisse a creare. Allenandoti poi in un certo modo, l’affiatamento risultava naturale, non aveva mai bisogno di lavagne o di schemi astrusi.

Per tornare al vecchio Milan degli anni ‘60 in cui Liedholm iniziò la carriera di allenatore, a suo parere c’erano già allora delle anticipazioni di quel gioco a zona che trovò poi la sua massima espressione nella Roma degli anni ’80?

Devo dire che allora le marcature erano ancora fisse, come si usava a quei tempi. Tuttavia, basando il gioco sul possesso di palla, sui piedi buoni, anche i movimenti dei difensori erano conseguenti. In lui c’era la tendenza a far partecipare tutta la squadra all’impostazione del gioco, il movimento era automatico. Non c’era poi bisogno di dire ai giocatori cosa dovevano fare durante la partita perché sapevano già come muoversi.

Trattava voi calciatori tutti allo stesso modo o vi erano dei rapporti privilegiati all’interno dello spogliatoio?

È ovvio che con i più anziani e i più esperti il rapporto fosse diverso rispetto a quello con i giovani. C’era con loro più dialogo anche perché dovevano fare gli “allenatori” in campo e quindi avevano più voce in capitolo. Con i giovani aveva un rapporto splendido, sapeva bene come coinvolgerli in modo concreto, li aiutava moltissimo a maturare. Se poi un giovane aveva un certo valore non esitava nel responsabilizzarlo e nel fare di tutto perché potesse esprimere al meglio il suo talento e le sue qualità.

In quegli anni lei ebbe come maestri anche personaggi del calibro di Viani e di Rocco, con i quali Liedholm collaborò all’inizio della sua carriera di tecnico. Quali erano i rapporti tra lo svedese e questi due allenatori, uomini dal temperamento molto sanguigno e lontani come personalità e come concezione del calcio da quella di Liedholm?

Liedholm è uno che non ha mai avuto problemi di dialogo con nessuno, neppure con personaggi che apparivano molto distanti da lui come modo di essere e come idee di gioco. A noi giocatori dava piena libertà; cercava sempre il confronto, anche se alla fine era sempre lui che prendeva le decisioni. Non amava le polemiche, anche perché non capiva il motivo per cui ci sarebbero dovute essere.

Come lei ha sottolineato prima, Liedholm ha sempre mostrato una particolare attitudine nel far emergere il talento dei giovani, lanciando o contribuendo a far crescere un gran numero di campioni. Qual era il suo segreto in questo? Pensa che il suo metodo possa essere valido anche oggi?

Se lui individuava dei giovani potenzialmente validi non si faceva impressionare dai nomi e non aveva difficoltà a schierarli in campo anche se doveva scontentare qualche “senatore”. Si dedicava con passione e con straordinaria pazienza a loro per cercare di eliminarne i difetti, anche a costo di far ripetere cento volte lo stesso esercizio o lo stesso schema di gioco.
Questa cultura che Liedholm ha espresso così bene nella sua lunga e felice carriera di allenatore purtroppo non ha fatto presa sulla mentalità dei dirigenti attuali. Questi ultimi mostrano poca lungimiranza, ritenendo che sia meglio inseguire il grande nome in giro per il mondo piuttosto che investire risorse ed energie nel valorizzare i giovani. E questa è una cultura che non paga per il calcio italiano.

Per quale motivo?

Perché si sa che quando ci sono troppi stranieri c’è il rischio di privilegiare esclusivamente gli aspetti professionali e non quelli partecipativi, ambientali, di cuore, che pure dovrebbero essere tenuti in grande considerazione nello sport e nel calcio in particolare. Con gli inserimenti costanti dei giovani invece puoi garantire almeno quella continuità anche affettiva che oggi un po’ si sta perdendo, almeno per quanto riguarda molte grandi squadre.

In che modo è possibile invertire questa tendenza a suo parere?

L’attuale classe dirigente del calcio non dà purtroppo la sensazione che si voglia concretamente uscire da questo stato di cose. Ci troviamo un po’ davanti ad un impasse, perché le riforme possono essere realizzate solo all’interno del movimento. Ma allo stesso tempo c’è da chiedersi se queste iniziative possano essere prese da quei dirigenti che poi sono anche i massimi responsabili dell’attuale degrado. Per questo penso che non si possa prescindere da un ricambio dell’attuale dirigenza, perché chi ha un certo tipo di cultura è molto difficile che possa cambiare. Può cambiare un giovane ma a sessant’anni si fa molta fatica ad assimilare una nuova mentalità.

Lei di recente ha evocato lo spettro della fine del calcio se non si interviene in maniera drastica, è ancora di questo avviso?

Se non cambia qualcosa con l’avvento di una nuova classe dirigente questo rischio purtroppo è reale. Non bisogna dimenticare un fatto importante. Il calcio ha una vita relativamente giovane nella storia e come molti altri fenomeni e creazioni dell’uomo potrebbe essere destinato a non durare in eterno. È un esito possibile. Se il movimento esplode poi sarà molto difficile ricomporre insieme i pezzi, per questo occorre intervenire prima che sia troppo tardi. La speranza è quella che si arrivi a un ribaltamento della logica secondo la quale l’importante è vincere, con qualunque mezzo. Anche perché i mezzi che magari ti potrebbero consentire una volta di vincere non è detto che siano efficaci l’anno successivo. Ecco, se si supera questo concetto forse potrebbe esserci una via di uscita.

Per tornare a Liedholm, lei pensa che un maestro come lui avrebbe la possibilità di inserirsi con successo anche nel calcio attuale?

Il calcio in fondo è sempre lo stesso rispetto a 50 anni fa. Chi – come lui – ha avuto questo sport nel sangue e lo ha giocato ad altissimo livello, non potrà che fare sempre bene, se avrà l’intelligenza di adeguarsi ai tempi. Dipende soprattutto dai giocatori che si hanno a disposizione. Se hai determinati giocatori puoi esprimere un certo tipo di calcio, se ne hai degli altri con diverse caratteristiche di tipo tecnico e comportamentale puoi anche far sì che la partita possa diventare una rissa. Credo che la via maestra sia quella di privilegiare sempre l’aspetto tecnico, anche se ci si deve scontrare con il pensiero dominante dei dirigenti. Uomini come Liedholm, che hanno professato nel corso della sua carriera certe idee con molta coerenza, non potrebbero che fare del bene al calcio in ogni epoca e il loro esempio sarà sempre da seguire. Il problema è che non vedo maestri della sua caratura nel calcio di oggi, ed è anche per questo che sono pessimista.
Oggi purtroppo la figura del dirigente sportivo conta sempre di meno. Purtroppo nella nostra epoca gli aspetti finanziari hanno preso il sopravvento e i tecnici sono  loro malgrado  costretti a subire e adeguarsi a questo stato di cose.

Intervista contenuta nel libro pubblicato dalla Ethos Edizioni “Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio” di Sebastiano Catte.