Quelle domeniche pomeriggio con Paolo Valenti

Geniale. Valenti aveva capito che i suoi giornalisti tifosi, tra pronunce incomprensibili (Tonino Carino da Ascoli), look improbabili (giacche di Castellotti) e battute ruspanti (Necco da Napoli) erano il teatrino adatto per attirare tutta la famiglia davanti alla tv


Nella rubrica RadioCineTV un posto d’onore spetta sicuramente al mitico “Novantesimo minuto” degli anni ottanta. Un appuntamento impedibile, irrinunciabile, non rinviabile: intere generazioni di ragazzi incollati al televisore, ogni domenica, alle 18 circa, collegamenti dagli stadi, una serie di personaggi (nel senso più alto del termine) passionali, mitici, unici nel modo di raccontare il calcio, sotto la regia dallo studio, semplice ed altrettanto appassionata, di Paolo Valenti, vera icona di un certo modo di vivere il calcio, ormai purtroppo finito.

Quanta nostalgia ripensando a quelle domeniche: dopo aver sentito Ciotti, Ameri, ci si precipitava al televisore per vedere i goals, a sentire i commenti di Bubba, Necco ed altri. Collegamenti dagli stadi, interviste, battute, frasi buttate lì, saluti (ricordate la manona di Luigi Necco con la folla che saltava alle sue spalle?), risate e tanto buon umore. La generazione cresciuta con Giorgio Bubba da Genova, Tonino Carino da Ascoli, Marcello Giannini da Firenze, Cesare Castellotti da Torino, Luigi Necco da Napoli (ed Avellino), Ferruccio Gard da Verona, Vasino da Milano, Franco Strippoli da Bari (ma sicuramente ne dimentico qualcuno) fa davvero troppa fatica ed appassionarsi al calcio di oggi, vissuto come scienza esatta, da sviscerare ed analizzare in ogni suo aspetto, da vivere come eterno dramma.

Il calcio, più in generale lo Sport, è un aspetto della vita: nasce, si sviluppa e cresce al passo con la società e non si può certo pretendere che resti immune dai profondi cambiamenti che hanno interessato e coinvolto tutta la vita di oggi.Da qui a perdere però la sua originaria missione – quella cioè di divertire e regalare emozioni – ce ne passa: il calcio è ormai una macchina da soldi; diritti TV, sponsor, contratti milionari, e tutto ciò che ci gira intorno ne fanno una vera e propria industria, con regole da rispettare, a costo di perdere qualcosa in semplicità e passione.

Furono quelli – quasi a creare una sorta di collegamento ideale con i loro cantori – gli anni del calcio di provincia, di un calcio che, visto oggi, sembra di un altro mondo, di un’altra epoca geologica. Tonino Carino raccontava del mitico Ascoli di Costantino Rozzi e Carletto Mazzone, Luigi Necco del Napoli di Savoldi e poi Maradona e dell’Avellino di Diaz e Barbadillo, Ferruccio Gard dell’Udinese di Zico ed Edinho, Giorgio Bubba del Genoa e di quella Sampdoria che stava gettando le basi per un ciclo vincente. E poi il Verona dello scudetto, parentesi irripetibile e massimo esempio di un calcio che non esiste più, il Torino, commentato da Castellotti, secondo nel 1985 con Junior, ed anche Edy Bivi, che nell’anno dei Mondiali del 1982 seppe trascinare il Catanzaro al sesto posto.

La moderna tecnologia, testate sportive sempre più agguerrite ed in concorrenza tra loro hanno creato una generazione di giornalisti assolutamente competenti, preparati e (per l’amor del Cielo) bravi: niente da dire. Di loro si sente però solo la voce e, a conferma del loro anonimato, non se ne conosce il volto, l’abbigliamento e, soprattutto, la mimica. Come faremo a dire che l’inviato di Siena (tanto per fare un esempio) porta le cravatte corte come Castellotti da Torino, se saluta agitando la manona come Luigi Necco da Napoli o se ha i tic che aveva Marcello Giannini da Firenze?

Non lo sapremo mai: sentiamo resoconti che sembrano brani di letteratura, perfettamente grammaticati ed ordinati, ma manca quella passione, quella vitalità che certi interpreti sapevano trasmettere. La vera rivoluzione, sul finire degli anni ottanta, avvenne con il Milan di Sacchi e di Berlusconi, il primo a creare due (se non tre) squadre titolari, a spendere cifre folli ed a trasformare il calcio da gioco a macchina da soldi, determinando uno spostamento di valori, dal rettangolo di gioco alle risorse economiche. Detta così sembra un po’ brutale, ma se scorriamo l’albo d’oro del campionato di calcio degli ultimi vent’anni, a parte le parentesi della Sampdoria e delle due romane, hanno vinto sempre e solo le due milanesi e la Juventus, le uniche in grado cioè di dominare in campo e fuori (con enormi risorse finanziarie, testate sportive ecc.).

Nel calcio di oggi non sarebbero più possibili cicli come quello del Verona, della Sampdoria, che seppero vincere scudetti irripetibili, né sarebbero possibili personaggi come Bagnoli, Boskov, Mazzone, Anconetani o Rozzi. O, senza pensare allo scudetto, cicli come quello dell’Avellino, presente in serie A dal 1978 al 1988, del Catanzaro, dell’Ascoli, squadre di provincia che seppero imporre la loro forza nel calcio che conta. Ricordo la prima puntata di novantesimo minuto senza Paolo Valenti: il segno di un mondo che finiva, di un qualcosa che si chiudeva definitivamente. I collegamenti hanno incominciato a non interrompersi più, gli inviati diventavano più seri e professionali: una grande tristezza.

Testo di Paolo Maggi