ORONZO PUGLIESE – ottobre 1976

Intervista a cuore aperto con un Pugliese smanioso che scarica la sua delusione compilando una classifica degli allenatori e ricordando un lontano 1966…

Intervista Guerin Sportivo ottobre 1976


TURI – La pensione cos’è? Don Oronzo Pugliese, commen-datore di vecchia data, abito di taglio sportivo, passeggia tirato e pimpante nella villa comunale a Turi. Un saluto energico e, subito, per spazzare via dubbi e illazioni, una precisazione di fuoco: «Oronzo Pugliese, allenatore disoccupato per colpa di uno stampa-culo (leggi: giornalista)». Altro che pensione! Don Oronzo è pronto a ritornare in panchina, è pronto a partire per il fronte, è pronto a tutto. Te lo dice, e scatta come una molla, cosi ti convinci.

Turi, un paese agricolo di diecimila abitanti, a trenta chilometri da Bari, gli sta stretto. Un moto-perpetuo dalla mattina alla sera: un salto allo spaccio del carcere (il carcere di Gramsci e di Pertini), una visita ai negozio sotto casa, una chiacchierata con i fratelli Tommaso e Vito, e lunghe passeggiate in villa ad evocare i fantasmi dei suoi successi.
Il «mago dei poveri» ormai ha dimensione normale: i compaesani non gli fanno più cerchio con fanatismo, come ai tempi del Foggia, della Roma, del Bologna, della Fiorentina, quando le puntatine al paese erano marce trionfali.

Don Oronzo, le scriviamo le memorie? Una bella esclusiva, con qualcosa di diverso. Non ha niente da perdere… La domanda è provocazione. E lui si accalora e parte in quarta con i proverbi:
«Chi ha un mazzo di carte in mano, deve giocare, amico. Sono qui in attesa, devo rientrare nel giro. Non posso parlare ancora. Poi, poi…».

– Quanti anni ha, Don Oronzo?
«Gli anni, gli anni. Che c’entrano? Tanto per cominciare non sono vecchio come Bernardini. Fulvio dice sempre che abbiamo la stessa età. Non è vero. Guardi la foto: abbiamo fatto il militare insieme, ma lui aveva fatto gli studi universitari e io le elementari. Sono più giovane di sette o otto anni».

– Allora?
«Allora, sono del ’16, ho circa sessant’anni. Ma gli anni sono niente. Ci sono tanti allenatori giovani. Hanno la freddezza, dicono. Ma la freddezza non è adatta all’ambiente calcistico. Sì, d’accordo, la freddezza è classe, ma qui uno deve essere trascinatore. Deve andare sempre in testa, anche se sta morendo. Deve combattere fino all’estremo».

– Siamo alla guerra. I maligni dicono che è abituato a fare i richiami patriottici negli spogliatoi: avanti ragazzi, voi siete italiani e immaginate che dall’altra parte ci siano gli austriaci…
«No, mai dette ‘ste cose. Io li sprono, perché non mi do’ mai sconfitto. Dico: se avete ancora una briciola di sangue, combattete. Uso i proverbi. Ripeto sempre: finché il polso batte, l’ammalato si salva. Con i proverbi, ho salvato le squadre. I giocatori erano scontenti per il pareggio? Ed io ripetevo: chi si accontenta gode. I frutti si son visti».

Don Oronzo scalpita. Dal paese, ci ha accompagnati alla sua villa in periferia, con qualche riluttanza: «Volete fare delle foto? Si, ma non esageriamo altrimenti la gente dice: ma guarda quanti soldi ha ‘sto… Il fatto è che i soldi io, non li ho consumati né a carte e né a puttane: li ho messi nel portafoglio mio».

Ha aperto le porte, si muove, mima le sue uscite dagli spogliatoi, gesticola, parla, seguito come un’ombra dal fratello Vito (ha investito in terre i risparmi dell’allenatore) che interviene di tanto in tanto ripetendo le parole significative del fratello come un disco incantato.

Non si ferma più Don Oronzo. Si blocca soltanto, quando ripetiamo la richiesta di una graduatoria degli allenatori della serie A. Ha paura di sbilanciarsi ed ogni volta fa l’indiano. «La domanda – sbotta d’improvviso – ora la faccio io. Scriva. Domanda di Oronzo Pugliese: cosa hanno fatto più di me, tutti i colleghi che si sono succeduti negli ultimi anni, sulle panchine occupate in precedenza dal sottoscritto?».
La risposta non l’aspetta, la dà personalmente: «Non hanno fatto niente». E poi in aggiunta: «Sulle trentotto panchine (di A e B, n.d.r.), senza fare il galante, o l’elegante con tanto di guanti, Pugliese Oronzo ci può stare benissimo. Sfido chiunque a dimostrarmi il contrario. Comunque, bustine non ne dò e non le ho mai date».

– La graduatoria degli allenatori?
«Dico che deve essere premiato chi vince i campionati, ma anche chi salva le squadre. E’ più facile vincere. Pugliese le squadre le ha salvate e magari non è stato riconfermato per altri motivi. Le dirò una cosa: se Savoldi è stato pagato due miliardi dal Napoli lo si deve a Pugliese perché io nel ’72 subii l’umiliazione di non restare a Bologna per essermi opposto alla cessione di Gregori, Fedele e Savoldi».

– La graduatoria, Don Oronzo…
«Deve scrivere – dice guardando il taccuino – che i colleghi non se l’abbiano a male se non dovessi citare qualcuno che merita, ammesso e non concesso…».

– Va bene, dunque; primo Pesaola…
«Macché Pesaola e Pesaola…».

– Se non è Pesaola, il primo chi è?
«Radice: ha vinto il campionato. Gli sono serviti gli insuccessi di Firenze».

– Secondo Pesaola…
«Che Pesaola e Pesaola… Secondi Trap e quello del Milan come si chiama? Marchioro».

– Secondi entrambi?
«Sì, hanno scavalcato tutti. Quarto Vinicio, anche se mi aspettavo di più da lui l’anno scorso. Quinto Pesaola, pure se l’amico deve sentire il dovere di non giudicare i colleghi che lo hanno preceduto».

– Sesto?
«Oronzo Pugliese, amareggiato e disoccupato voluto da chi non lo so. Si dice: chi si vanta da solo, non vale neanche un fagiolo. Ma io ho varcato la Linea Gotica, ho un passato che mi permette: nel ’66, al ritorno da Londra, ero candidato alla Nazionale a voce di popolo».

– Continui.
«Settimo Liedholm se non si offende. Ha qualità: l’anno scorso però stava retrocedendo. Ottavo Balestri: lanciamolo. Nono Di Marzio: bravo giovane».
E qui si ferma e non c’è più verso di farlo continuare: quel secondo posto lo consola…