ORSI Raimundo: il violinista che fece grande la Juventus

Al tempo in cui in Italia solo Peppino Meazza coronava ed esaltava lo spirito unitario della squadra di calcio — la sua Ambrosiana Inter — alle così dette ali il copione affidava un compito complementare di corsa sul lato esterno, destro o sinistro del campo e di consequenziale traversone. Il primo che fu ala ma anche artista, saltabeccando o volando sui marcantoni di difensori stesi dal suo dribbling e dalle sue finte copie massi sull’erba, fu l’oriundo Raimundo Orsi detto Mumo. Alto 1,70 per 66 chili scarsi, aveva il classico faccino del denutrito e la Federazione pretese che rimanesse inattivo tutta la stagione 1928-29 per accertarne le certissime origini italiane, mentre le autorità politiche argentine tumultuavano contro l’ingerenza del Governo Fascista nelle cose del loro sport con quella trovata dell’oriundo che veniva a togliere al calcio bonaerense la sua stella.

Stella di Amsterdam per l’esattezza, poiché Orsi era brillato di vivissima luce in quell’Olimpiade. Per capire chi è stato costui, per conoscerlo bene, io ho impiegato tantissimo tempo e non poco amore. Ho dovuto viaggiare e « trabajar» come un matto, ci sono voluti trentatré giorni dì Argentina, per raccogliere i messaggi che i poveri Mario Varglien e Luigi Bertolini, suoi ex compagni di squadra, mi avevano coloritamente trasmesso. Ma non è facile resuscitare gli idoli del passato. Quelle mie due interviste a quei due anziani ed un pò vaneggianti signori di una bella epoque più scritta nei cuori e nei muscoli che nei libri (per troppa retorica ufficiale ed anche per le reticenze ufficiali del suo aedo, monsù Vittorio Pozzo) aprirono a me la strada della comprensione di quel fenomeno calcistico che era la Juve Anni Trenta, cinque volte scudettata, con la sua signorilità e pure la sua modernità, con i suoi mille pregi ed i suoi umanissimi difetti, anche oscarwildiani, con un allenatore davanti al quale era proibito togliersi la mutanda, me l’ha detto Farfallino Borel.

Orsi fu compagno di squadra di Borel, di Bertolini, di Varglien, di Combi, il portiere più veloce di un petardo («in collegio a Pinerolo lo chiamavano fusetta», racconta il fratello Maurizio), di Cesarini detto Ce col quale si divertiva moltissimo. Giunse in Italia nel 1928, ingaggiato dalla Juventus per centomila lire. Sbarcò nel porto di Genova: si vedeva un cappottone e, dentro, questo faccino aguzzo.
«Tutto qui?», cominciarono a mormorare in giro, mentre lui andava a prendere posto in tribuna per vedersi malinconicamente i compagni giocare, la Juve arrivò seconda dietro il Bologna nel suo girone, per quattro e spesso per dieci dribblava Zizì Cevenini, stortignaccolo, vizioso, che aveva col pallone un legame più unico che raro, colpiva di punta e di striscio più che virtuosamente ed atterriva Combi anche in allenamento. Con Orsi ed anche col suo tracagnotto compare Monti che pareva una roccia, arrivò il calcio vero, il calcio dei fuoriclasse al servizio della squadra. Con poche battute Orsi convinse tutti del suo genio. Mazzonis, il vice presidente factotum della società, che non era per niente barone ma voleva essere chiamato barone – quello che può ritenersi uno dei più lungimiranti dirigenti della storia – gli fece assegnare da Edoardo Agnelli presidente del sodalizio dal luglio 1923, ottomila lire di stipendio, più una Fiat 509 ed una villa.

FORZA ROSSI!

Sesto anno dell’Era fascista, in Italia lo stipendio dell’impiegato medio era di trecento lire, un chilo di pane costava venticinque centesimi, un vestito da uomo 90 lire, il calcio entrava negli stadi patronescamente e nella graziosa e pulita Torino – pure i comignoli delle case ottocentesche puliti, mica come oggi, i tram scampanellanti festosi, i signori in bombetta e le “madamin covertissime” a passeggio in piazza San Carlo sotto i portici – c’era guerra tra juventini, simboli dell’aristocrazia e della retriva borghesia, e i granata, simboli del proletariato. Gli operai della Fiat, i più politicizzati, andavano alle partite non tanto per passione quanto per poter sgolarsi con «Forza rossi». Senza saperlo il mio amico Baloncieri e Rossetti che all’anagrafe faceva Rosetti, erano gramsciani. Il povero Gramsci moriva in un fondo di prigione mentre Orsi cominciava a saltabeccare e volare sul prato e cominciava l’epopea della Juventus, la squadra degli anni «anta» più grande, anche più vera, mai esistita. Una squadra con un ruolo sociale preminente perfino su quello sportivo, fare dimenticare agli italiani i guai, le tensioni, appacificare gli animi, fare sognare.

E qui intervenne anche la stampa sportiva, con Bruno Roghi ma anche Carlo Bergoglio detto Carlin, con Mario Zappa e Nino Nutrizio ma anche Bruno Slawitz detto zìo Ciccio. Mumo Orsi era meno intemperante e più serio di Cesarini, ma anche lui abbastanza eccentrico. Coi soldi della Juventus, Mazzonis storcendo il baffo acconsentì, volle finanziare un’orchestra. Nelle ore libere era lì che ronzava sul suo violino di marca. Poi chiamava a casa Mario Varglien e gli diceva: «Ascolta questo tanghito!». Ma i tanghiti più radiosi Mumo li suonava coi piedi. Lui guadagnava anche per gli altri, ma non era generoso. Faceva però beneficenza. Non si presentò mai agli allenamenti col cappotto sopra il pigiama come Cesarini, era puntuale, precisino in tutto, più fine che volgare, amava le cineserie, i ninnoli, era tirchio ma non quanto Luisito Monti che all’estero rubava le coppe e i bicchieri nelle vetrine dei negozi.

FAOTTO ALL’OSPEDALE

Mumo giocò 177 partite nella Juventus segnando 77 gol. In Nazionale giocò 35 volte e 13 furono le realizzazioni, i suoi gol erano capolavori. Li segnava direttamente dalla bandierina del corner, perché aveva – lo ha rivelato Meazza che se ne intendeva – il famoso «colpo sotto», imprimendo alla sfera una spinta velocissima tanto da mandarla al centro della porta. Improvvisamente, il pallone per l’effetto ricevuto cambiava direzione come se fosse stato preso da una raffica di vento e beffava il portiere.
E quello che mi aveva raccontato di lui Mario Varglien, coi suoi occhi smisurati come la sua nostalgia, nella ragnatela delle rughe, avanzava su di me mentre il suo labbro vissutissimo evocava:

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«Orsi si infilava un jolly nella scarpa, Munerati andava a toccare, prima di giocare, il pizzo a Masino, un dirigente, Borel II calciava il pallone fuori, Caligaris si faceva il segno della croce tre volte, Monti era l’unico a rimanere serio… lo, Orsi e Caligaris passavamo le giornate insieme. Siamo molto uniti noi tre. Orsi è simpatico, suona il violino, un violino di marca. Suonava in un night club di Buenos Aires. Mi chiama spesso al telefono e mi dice: ascolta questo tanghito!».

Varglien passava dal tempo passato al presente, come vaneggiando tra realtà e sogno. Ma più realtà che sogno era quella Juve, come testimoniano queste parole: «Combi in porta, Rosetta non marca nessuno, io penso all’ala destra, Bertolini all’ala sinistra, Monti marca il centravanti. Se l’avversario che dobbiamo affrontare ha classe allora la marcatura è seria, altrimenti si gioca come sappiamo noi, ignorando l’avversario. Quando dovevamo giocare contro Sindelar, il compito si faceva difficile perché Sindelar con Monti passava sempre. Ci facevano tremare anche il belga Braine e Meazza. La Roma e la Lazio erano le nostre bestie nere. In genere una squadra in maglia azzurra. Chissà perché. Una volta Faotto, che correva come un matto, voleva picchiare Orsi. Mumo ha mosso il piedino come sapeva fare lui e Faotto è finito all’ospedale. Quando si vinceva lo scudetto c’erano serate d’onore per noi al Regio o al Carignano. Orsi era il più pagato, prendeva più di mille pesos, circa ottomila lire al mese».

IL GOL PIÙ’ BELLO

Sì, era calcio di oggi, se ci pensiamo, con tutte le sue implicazioni e suggestioni. Bisognava che la folla dimenticasse i guai della vita: anche a questo servì la Juventus. La dittatura si servì dell’oriundo per addolcire la pillola. Ma quando la Nazionale giocava in Francia o Belgio erano guai per i nostri azzurri del saluto fascista!
Io ce ne ho messo per capire Orsi, questo è evidente. Ho dovuto viaggiare e «trabajar» come un matto. Prima un’estate di lavoro, nel 1973, salendo e scendendo dalle case dei pionieri. E poi i trentatré giorni in Argentina, a Buenos Aires, parlando con la gente, la gente di sangue italiano, nei ristoranti, nelle avenidas. E ho dovuto respirare il suo stesso vento, l’aria della sua gioventù, delle Pampas sterminate, fertilizzate dal lavoro di braccia italiane, piemontesi e furlan, ma anche siciliane, sarde e calabresi, intervistare i lustrascarpe con la camicia di seta seduti come signori davanti ai grandi alberghi ed i camerieri nelle pizzerie gremite di figli e nipoti di italiani.

L’italianissima Argentina mi ha fatto afferrare ancor meglio la grandezza di Orsi detto Mumo, ala sinistra della Nazionale campione del mondo 1934 ed autore del gol più bello mai visto segnare da Bertolini, quel vecchio vaneggiante che intervistai nel suo mobilificio nel 1973:
«Orsi era completo anche se non giocava molto di testa. Usava destro e sinistro con la stessa potenza. Gli ho visto fare il gol più spettacoloso, forse il più formidabile che abbia mai visto nella mia carriera. Fu il gol del pareggio nella finale a Roma con la Cecoslovacchia del campionato del mondo. In profondità Monti a Guaita, il quale scende lungo la linea laterale e crossa dà destra a sinistra, altissimo. Orsi seguiva l’azione di Guaita e colpiva il pallone al volo col destro, infilando da fuori area l’angolino sinistro più lontano della porta di Planicka».

Vladimiro Caminiti