Stranieri d’Italia: P

PAPIN – PASSARELLA – PEIRO’ – PESAOLA – PETRONE – PLATINI – PRAEST – PROHASKA – PURICELLI


PAPIN: un carattere di ferro sulla via del gol

Quando a soli dieci anni, mentre attraversa la strada senza guardare, viene investito dall’auto del medico del suo paese che gli frattura tibia e perone della gamba sinistra e perone della destra, la sua carriera sembra finita prima ancora di cominciare. La forza del suo carattere però gli fa superare ogni contrarietà. Dopo qualche anno in squadre minori francesi, nell’86 passa al Bruges, con cui vince subito la Coppa del Belgio, guadagnandosi la Nazionale e i Mondiali in Messico, giocati da comparsa. L’anno dopo rientra in patria, all’Olympique Marsiglia, dove esplode come formidabile cannoniere. I mezzi tecnici non sono raffinati, ma il fiuto del gol compensa ogni lacuna: segna da ogni posizione, con memorabili colpi al volo. Vince quattro scudetti consecutivi, una Coppa di Francia e cinque titoli di capocannoniere; nel 1991 è Pallone d’Oro, primo francese a riuscire nell’impresa dopo il suo idolo Platini. Nel 1992 passa al Milan di Fabio Capello, dove, a dispetto di un avvio stentato, diventa pedina chiave dopo l’infortunio di Van Basten. Le sue rovesciate, i suoi gol spettacolari ne fanno un idolo di San Siro, ma non bastano a garantirgli il posto nell’undici che gioca a Monaco la finale di Coppa dei Campioni contro la sua ex squadra. Entra nella ripresa, in tempo per fare il bis della sconfitta patita l’anno prima, contro la Stella Rossa a Bari. Nella seconda stagione fa le spese del turn-over di Capello, uscendo dal novero dei titolari. In due anni comunque conquista due scudetti, due Supercoppe italiane e una Coppa dei Campioni. Passa poi al Bayern Monaco, dove vince con Trapattoni la Coppa Uefa. Una sua dichiarazione dell’agosto 1995 nella quale accusa due giocatori del Milan di essere stati corrotti nella finale di Monaco contro il Marsiglia non giova alla sua popolarità nell’ambiente rossonero.

PASSARELLA: le avventure del Caudillo

«Ehi ragazzo, guarda che qui dentro non c ‘è democrazia, qui comandiamo noi due», ecco come Daniel Passarella e il suo amicone Americo Gallego erano soliti accogliere i neo-convocati in maglia biancoceleste. Dopo una Coppa del Mondo vinta al primo tentativo, il mondiale di Spagna e dieci anni di militanza trionfale nel River Plate, il grande libero poteva permettersi uscite di questo genere. Leader per vocazione, continuò a sentirsi capitano anche dopo il (non indolore) passaggio di consegne a Maradona. Quando arrivò in Italia, nell’estate del 1982, ingaggiato dalla Fiorentina, era reduce dalla batosta spagnola e i suoi approcci tecnici non furono esaltanti. Qualche difficoltà di inserimento negli schemi di De Sisti e nella mentalità del nostro campionato: per la prima volta, si rese conto di non essere il leader, ma soltanto uno degli undici. Difensore arcigno e duro con la vocazione del gol (celebri i suoi calci di punizione), riuscì comunque ad ambientarsi e, recuperata la sintonia col tecnico, tornò il grande libero che il mondo aveva ammirato. Nel 1985-86 con 11 gol stabilì il nuovo record di realizzazioni per un difensore nel campionato italiano. Desideroso di una squadra con maggiori ambizioni, approdò all’Inter, che disperata- mente cercava un leader. Non lo trovò, perché Daniel fu un ottimo libero, ma non il trascinatore capace di trasformare la squadra. Celebri i suoi scatti d’ira: durante un Sampdoria-Inter, prese a calci un raccattapalle, reo di avere ritardato la restituzione della sfera, poi, colpito dalla generale riprovazione, volle incontrare il ragazzo, facendo pubblica ammenda. Lasciò dopo due anni, quando Trapattoni lanciava il progetto (vincente) dell’Inter alla tedesca. Tornato in patria, divenne allenatore di successo del “suo” River.

PEIRO': l'uomo che beffò il Liverpool

12 maggio 1965, stadio di San Siro. Si gioca Inter-Liverpool, ritorno delle semifinali di Coppa dei Campioni. I nerazzurri hanno perso all’andata per 3-1. All’8′ segna Corso. Un minuto dopo, Peirò sguscia alle spalle del portiere Lawrence che sta rinviando il pallone, glielo sottrae e centra la porta incustodita. L’Inter va sul 2-0, la rimonta verrà perfezionata nella ripresa da Facchetti. Joaquim Peirò, che già aveva nei quarti affossato i Glasgow Rangers a San Siro con una doppietta, diventa un “big”. Nato calciatore nell’Atletico Madrid come interno offensivo, si era messo in luce per il dribbling secco e il senso del gol, che lo avevano presto accompagnato in Nazionale. Due presenze e un gol ai Mondiali 1958 e l’approdo al Torino, per 300 milioni sull’unghia. Una stagione sofferta, a sperimentare il catenaccio, la stranezza di ritrovarsi di fronte un difensore dopo aver “saltato” il primo, poi gli esperimenti di Rocco che lo provava all’ala al fianco di Hitchens.
Nel 1964, lo ingaggia l’Inter e i tifosi storcono la bocca. Però il “Mago” ha visto giusto. In campionato, dove possono giocare solo due stranieri, Peirò sta in frigo- rifero ad aspettare le assenze di Jair o Suarez.
In Coppa è negli undici: vince l’Intercontinentale sull’ Independiente, si sfoga a suon di gol in Coppa dei Campioni. Quello al Liverpool diventa una specie di emblema (il gol alla Peirò), una rampa di lancio verso la finale, vinta poi a Milano sul Benfica. E a dicembre, il gol contro l’Independiente che apre il 3-0 per la seconda Intercontinentale. Un giorno di ottobre, stanco di fare l’uomo in ammollo in campionato, fa le valigie e le spedisce in Spagna assieme alla moglie. Comincia a salutare gli amici, poi il presidente ed Herrera gli parlano, ci ripensa. E diventa l’uomo determinante del secondo scudetto consecutivo, segnando gol pesanti in situazioni difficili. Dopodiché si trasferisce alla Roma per giocare finalmente di più e lasciare in un cassetto la malinconia. Diventa un pilastro della squadra giallorossa per quattro stagioni, giocando fino a 34 anni suonati.

PESAOLA: il napoletano nato all'estero

«Solo due anni e poi torno», così si era accomiatato dalla madre il giorno della partenza per l’Italia, attratto da un buon ingaggio della Roma. E oggi Bruno Pesaola è ancora qui, italiano ormai a tutti gli effetti. In patria lo chiamavano “Petiso” (piccoletto), a Roma divenne il “Petisso”, un idolo della folla. Oriundo marchigiano (il padre era di Macerata), non tardò a rivelarsi come una delle migliori ali del campionato, infallibile nel pennellare cross millimetrici, implacabile al tiro e nel dribbling ubriacante. Per sua sventura, al terzo campionato in giallo-rosso incrociò i tacchetti di un terzino del Palermo, che, stanco di subire tunnel e dribbling a ripetizione, gli ruppe una gamba senza tanti complimenti. Stagione finita e tanti dubbi sul suo futuro calcistico, in un’epoca in cui una frattura poteva chiudere una carriera. La Roma scaricò frettolosamente l’argentino, costretto ad accettare una sistemazione al Novara, dove il leggen- dario Silvio Piola, in chiusura di una strepitosa carriera, aveva giusto bisogno di un’ala per alimentare il proprio fiuto del gol. In provincia il Petisso recuperò pienamente, togliendosi pure lo sfizio di mandare in B la sua ex squadra: naturalmente con un perfido cross, convertito in rete da Piola. Dopo due eccezionali stagioni in Piemonte, arrivò la chiamata del Napoli. Fu amore a prima vista, con la squadra e la città. «Sono un napoletano nato all’estero», divenne il suo biglietto da visita. Otto stagioni di prodezze, da vera e propria “istituzione”, poi la chiusura nel Genoa, in B, e il pronto ritorno a Napoli, per una nuova carriera. Da allenatore riportò il Napoli in A col contorno della Coppa Italia, poi vinse uno scudetto a Firenze e un’altra Coppa Italia a Bologna.

PETRONE: l'artillero del pallone

Poco prima di morire, nella primavera del 1964, una corrispondenza da Montevideo ne portava in Italia i rimpianti per la brevissima, abbagliante avventura fiorentina. “Perucho” Petrone giaceva malato in un letto d’ospedale e ricordava la rovina seguita a quel felice periodo: i soldi sperperati, gli impieghi prima in un albergo, poi nel Casinò Municipale di Montevideo. Tutto per una fatale impuntatura. Era nato a Montevideo, nel cuore di una generazione di grandi talenti dominatori della scena a cavallo degli anni Venti e Trenta. Fisicamente forte, dotato di un tiro potente e preciso, rivoluzionò il ruolo di centravanti per la vocazione a giocare in profondità, con incursioni che, dopo la modifica della regola del fuorigioco nel 1925 (ridotti da tre a due gli avversari tra l’attaccante e la linea di porta), diventarono ancora più micidiali. Cresciuto nel Charley e poi nel Solferino, entrato nel giro della Nazionale, vinse il torneo olimpico del 1924 a Parigi. Al ritorno, lo ingaggiava il Nacional, nel 1928 faceva il bis alle Olimpiadi di Amsterdam e nel 1930 conquistava il primo titolo mondiale della storia, seppur giocando solo la prima partita, essendo fuori forma. Ma era ancora un campionissimo e lo dimostrò nel 1931, arrivando a Firenze: in una Fiorentina neopromossa che aspirava a diventare grande, i suoi gol terrificanti valsero il quarto posto finale. Nel campionato succesivo, la sequenza di prodezze si interruppe all’improvviso: escluso da Fellsner dopo la prima sconfitta in casa (col Torino), reinserito a furor di popolo un mese dopo (19 marzo) al Comunale contro la Triestina, disobbedisce all’ordine del tecnico di scambiarsi di ruolo con l’ala Prendato e lo manda a quel paese. Il presidente Ridolfi, inflessibile, gli appioppa una pesante multa (2.000 lire), lui prepara le valigie e torna in Uruguay. A Montevideo, rientra nel Nacional, fa in tempo a vincere lo scudetto, poi l’anno dopo le sanzioni della Fifa per l’inadempienza col club viola gli troncano la carriera.

PLATINI: il campione che volle farsi re

Sognava di diventare Pelé, il giovane Michel, quando si allenava a battere le punizioni nel cortile di casa. Non poteva immaginare che i suoi micidiali calci di punizione sarebbero passati alla storia come “alla Platini”, Platini e nessun altro. Michel inizia la carriera professionistica nel Nancy, nel 1972, a diciassette anni. In quella squadra svela il suo immenso talento: palleggio raffinato, passaggi smarcanti e senso del gol. Nel 1978 esordisce in Nazionale, nel 1979 viene ingaggiato dal St. Etienne, all’epoca la crème del calcio d’Oltralpe. La vera gloria, tuttavia, arriva solo in Italia. Gianni Agnelli lo vede all’opera contro l’Italia alla vigilia dei Mondiali di Spagna, ne rimane folgorato e combina senz’altro direttamente l’acquisto, tra l’altro a una cifra tutt’altro che iperbolica. Quando però arriva a Torino, il giocatore (di origine italiana: i nonni erano di Agrate Conturbia, in Piemonte) sembra l’ombra di se stesso e viene bollato come genietto discontinuo, finendo nel gorgo delle polemiche. Passati tuttavia pochi mesi di ambientamento, improvvisamente l’asso si sblocca, diventando l’uomo-faro di una grandissima Juve, il numero dieci per eccellenza. La mente, ma anche il braccio, visto che riesce a vincere per tre volte consecutive il titolo di capocannoniere, come il leggendario “bisonte” Nordahl. Nelle prime quattro stagioni in bianconero fa incetta di allori: due scudetti, la Coppa dei Campioni, la Coppa Intercontinentale, una Coppa delle Coppe, una Coppa Italia. Più tre Palloni d’Oro. Sublime nell’interpretazione del gioco offensivo, irride il calcio atletico per la capacità di far correre il pallone (e gli altri). Regista, rifinitore e attaccante, è semplicemente il leader, meglio, il monarca della bellissima Juve di Cabrini, Tardelli, Rossi e Boniek. Uscito di scena Trapattoni, deluso dal Mondiale messicano (terzo posto), declina più per mancanza di stimoli che per effettivi problemi fisici. Dà l’addio al calcio nel 1987, ad appena 32 anni, per fare il Ct della Francia e, ora, il presidente del Comitato organizzatore dei Mondiali 1998 fino ad arrivare alla massima poltrona dell’UEFA. Sempre da Campione.

PRAEST: l'ala che inventava i gol

Imparò a giocare a calcio da uno zio, asso dei dilettanti del Grenaa, e giovanissimo venne tesserato dall’Österbro BK di Copenaghen, che pretendeva una quota mensile dai suoi giocatori per finanziare gli incontri settimanali. Attaccante dai piedi raffinati, si distinse presto come centravanti per la sua facilità ad andare in gol, che gli procurò il debutto in Nazionale nel 1945. Proprio come numero 9 partecipa all’abbuffata che elimina l’Italia nei quarti delle Olimpiadi 1948, aprendo la strada alla calata dei danesi nel nostro calcio. Dopo avere già rifiutato l’anno precedente, nel 1949 Praest cede alle lusinghe del connazionale John Hansen, che lo convince a passare alla Juventus. I due danesi si intendono a meraviglia: schierato all’ala, il nuovo arrivato diventa il complemento ideale del grande interno. I loro duetti danno spettacolo e gol, portando allo scudetto una delle più belle edizioni della Juventus. Provvisto di classe purissima ed estro, alternava giornate da dominatore assoluto del campo ad altre di completo anonimato. Con l’arrivo l’anno seguente di Karl Hansen, la Juve lancia il suo splendido trio nordico, che non può competere col terzetto scandinavo milanista (Gren, Nordahl e Liedholm), ma porta lo scudetto nel 1952 e due secondi posti consecutivi dietro l’Inter. Dal 1954-55, con la partenza dei due Hansen, Praest non sarà più lo stesso, affiancato per una stagione dal lunatico connazionale Bronèe, un artista troppe volte incomprensibile ai suoi stessi compagni, e terminerà la propria avventura italiana con la maglia della Lazio.

PROHASKA: il lumachino dello scudetto

Herbert Prohaska cominciò la sua carriera professio- nistica nel 1972 con l’Austria Vienna. Nel 1980 aveva già vinto il campionato austriaco 4 volte e la Coppa d’Austria per 3 oltre ad aver esordito in Nazionale ad appena vent’anni. Fisicamente prestante, elegante nel tocco, Prohaska era regista naturale dalla notevole visione di gioco. L’Inter era campione d’Italia, il primo arrivo dopo la riapertura delle frontiere avrebbe dovuto dare nerbo e saldezza al centrocampo. Nei due anni in nerazzurro, però, vinse solo una Coppa Italia, non riuscendo mai a inserirsi in modo decisivo negli schemi. Abituato alla zona, gli toccava marcare il centrocampista avversario e il suo contributo al gioco offensivo ne scapitava. A Roma invece Liedholm cercava un regista coi piedi buoni da affiancare al “divino” Falcão. Herbert “lumachino” Prohaska, impiegato come prediligeva, tornò il gran geometra del gioco dei bei giorni viennesi. Nonostante ciò, la possibilità del club giallorosso di arrivare al brasiliano Cerezo gli sbarrò la strada. E la Roma non riuscì a fare il bis tricolore. Tornò con l’amata Austria Vienna per altre sei splendide stagioni prima di chiudere a 34 anni.

PURICELLI: testina d'oro puro

Erano i tempi dello “squadrone che tremare il mondo fa”, il grande Bologna anteguerra. Ettore Puricelli vi giunse nel 1938, conquistando immediatamente lo scudetto e il titolo di capocannoniere. Era un Bologna di stampo uruguaiano, con gli interni Sansone e Fedullo e in mezzo lui, l’ariete micidiale soprattutto nel gioco aereo, che gli valse il soprannome di “Testina d’oro”.
Si guadagnò anche una convocazione in azzurro, che onorò con una rete (Svizzera-Italia 3-1), ma il pubblico petroniano aveva il palato fino, e non a tutti andava a genio quel ragazzone dai piedi un po’ ruvidi, che la metteva dentro senza complimenti. Con la maglia rossoblu Puricelli disputò altri quattro tornei, conquistando ancora, nel 1940-41, sia il titolo tricolore che quello di cannoniere. Dopo la sosta bellica, fu ceduto al Milan. Dove confermò le sue doti di bomber.
Chiusa la carriera di giocatore al Legnano, in B, divenne allenatore, conquistando una meritata fama, vincendo tra l’altro col Milan lo scudetto nel 1955.