ALEC CORDOLCINI : Pallone Desaparecido

Il regime militare di Jorge Rafael Videla e un Mondiale che l’Argentina, paese ospitante, “doveva” vincere a tutti i costi. E lo fece.


È stata una delle pagine più buie dello sport mondiale. Se le Olimpiadi hanno conosciuto a Monaco ’72 il momento più opaco e il tennis la finale di Coppa Davis in Cile ’76, il calcio in Argentina ’78 ha toccato il suo punto più cupo della storia. Si gioca nella terra dei generali, che solo due anni prima avevano preso il potere con un golpe militare. Nulla di nuovo da quelle parti, i continui cambi di regime erano sempre all’orizzonte, in una terra che pareva allergica alla democrazia.

L’Argentina era uno strano Stato: tra le prime dieci potenze al mondo prima del secondo conflitto bellico, sempre in bilico tra moti populistici e continui interventi armati che avevano finito per farla sprofondare nella crisi più nera. Il Mondiale di calcio poteva costituire un momento di riscatto. Solo che la Fifa non aveva fatto i conti con le continue oscillazioni a pendolo di quella nazione, passata nel ’76 nelle mani di una giunta militare presieduta dal generale Videla. L’esercito scopre l’importanza del calcio quale arma di distrazione di massa e creazione del consenso, spendendo e spandendo per l’organizzazione dell’evento ben 520 milioni di dollari, quattro volte i costi di Spagna ’82. E per chi si oppone a questo andazzo sono guai. Come per Omar Actis, ex generale, direttore del Comitato per la Coppa del Mondo, contrario a questo allargamento indiscriminato della borsa della spesa, il cui corpo sarà trovato dentro la propria auto, crivellato di colpi.

A raccontare questa e tante altre incredibili vicende di quel Mondiale, ci ha pensato il giornalista Alec Cordolcini, in collaborazione con Andrea Maggiolo, nel libro Pallone desaparecido. L’argentina dei generali e il Mondiale del 1978 (Bradipolibri, 2010, pp. Euro 16,00). È il ritratto di una competizione dalle tinte fosche, partorita dai militari con due obiettivi: la vittoria della squadra di casa e la dimostrazione al mondo intero che l’Argentina era uno stato pacificato nel quale la vita scorreva placidamente come in uno qualunque di quei paesi occidentali che da tempo gettavano fango su di esso, scrive Cordolcini.

Quale miglior biglietto da visita per il mondo se non quello di dimostrare che si è in grado di organizzare una manifestazione di quella portata. Una sorta di edificio dalla facciata da palazzo reale, che nasconde interni fatti di muri scrostati, arredamento decadente, fondamenta pericolanti. Tutto deve apparire esternamente lucidato, la polvere sotterrata nel tappeto.

E’ un tratto caratteristico delle dittature. Quella argentina, però, ha una particolarità: mentre in Cile non si nasconde quasi niente (addirittura si porta la gente a morire dentro uno stadio), in Argentina la repressione è una violenza mai esibita, silenziosa, opaca, sottile ma non per questo meno spietata e crudele. E si arriva a una situazione dell’assurdo a Buenos Aires, dove il campo di concentramento – quello famigerato dell’Esma – si trova a due passi dallo stadio Monumental del River Plate dove si disputano le partite.

Il contesto dove si gioca è questo. I favoriti alla vigilia sono tre: Brasile, Olanda e Germania dell’Ovest detentrice del titolo. Non l’Argentina, che ha stentato in tutte le uscite precedenti, guidata dal 1974 da un bizzarro personaggio, addirittura dal passato comunista: Luis Cesar Menotti, detto El Flaco. Menotti deve fare i conti con la defezione del capitano Jorge Carrascosa (Io il campionato del mondo non lo gioco), e la sua personale diffidenza per coloro che giocano all’estero: Mario Kempes al Valencia, Osvaldo Piazza al Saint Etienne, Henrique Wolff al Real Madrid. Di loro, solo il primo farà parte della comitiva, decisivo nella vittoria finale. E a proposito di successo, si trattò di un mondiale regolare oppure no?

Cordolcini propende chiaramente per la farsa, anche se in realtà ancora oggi la questione è molto controversa. Soprattutto dopo un libro di due giornalisti olandesi, Iwan van Duren e Marcel Rozer, secondo i quali l’Olanda perse la finale solo sul campo e non per altre ragioni. Lo affermano dopo avere visionato sotto la lente d’ingrandimento, filmati, documenti e raccolto testimonianze. Se sconfitta è stata per i tulipani, è avvenuta nel rettangolo di gioco. Anzi, solo la dea bendata ha impedito agli olandesi di vincere il titolo, con quel palo di Rob Rensenbrink, a tempo scaduto quando il risultato era in pareggio, destinato a rimanere nella leggenda (La storia stava per andargli di traverso [a Videla] e invece ha sbagliato strada un’altra volta, ha scritto Andrea De Benedetti).

Rimane però un fatto difficilmente da ascrivere nelle vicende della sportività: la Marmelada Peruana. La sconfitta di 6 reti dei peruviani a danno dei biancocelesti – col conseguente accesso alla finale -, grazie alla complicità del portiere di origini argentine, Ramon Quiroga. Un’inchiesta del Times denunciò la corruzione della gara da parte del governo argentino (35mila tonnellate di grano gratis, un contributo di 50milioni di dollari ai generali peruviani). La storia rimane ancora oggi avvolta nel mistero, nulla è stato appurato di preciso. Resta il dubbio (se non la certezza) di una gara palesemente truccata. Così come resta la poca voglia dei protagonisti d’allora di raccontare quel successo.

I calciatori argentini, che hanno vinto sul campo quel campionato del mondo, non parlano volentieri di quell’avventura, scrive ancora Cordolcini. C’è chi ricorda l’allenatore Menotti dire ai suoi giocatori: Non vinciamo per quei figli di puttana, vinciamo per alleviare il dolore del popolo. C’è chi come Julio Velasco si è trovato in mezzo a un bivio. L’Argentina è campione del mondo, la gente festeggia in piazza. Che fare, accodarsi alla festa o restare in casa? Lui e sua moglie vanno in strada ma resistono solo pochi minuti. Ci abbiamo provato, ma dopo cinque minuti non ce l’abbiamo più fatta a stare lì a festeggiare. Era impossibile esultare mentre la gente spariva, veniva ammazzata e torturata. La resistenza a una dittatura ha anche vissuto di piccoli gesti come questo.

Testo di Filippo Fabbri / La Voce

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