PAOLO ROSSI – agosto 1985

  • Intervista di Marino Bartoletti – Guerin Sportivo agosto 1985

Il primo arrivo a Torino a bordo della Prinz di papà. I tre menischi fra i sedici e i diciannove anni. La… tombola a ventiquattro. Il matrimonio, il figlio. Mille cadute e una resurrezione in più. La Juve, il Mundial.

Quante volte è stata scritta (e riscritta) la storia di Paolo Rossi? Quanti altri rettilinei, quante altre scorciatoie, quante altre possibili curve pericolose dovrà affrontare la sua incredibile biografia di Formula 1? Quante pagine dovremo ancora stampare, stracciare e ristampare su di lui? A che capitolo siamo arrivati del romanzo della sua vita? Quando qualcuno si deciderà a fare un film su di te? abbiamo finito per domandargli quasi scherzando.

«Molto presto — ci ha risposto Pablito col suo solito disarmante candore — ho ricevuto una proposta giusto quattro o cinque mesi fa. La sceneggiatura si baserà sul libro biografico che un mio amico (Gianni Minà n.d.r.) sta finalmente terminando di scrivere. Io vorrei che venisse fuori una bella storia, a metà fra la realtà e il sentimento: una storia possibilmente a lieto fine, affinché la gente possa tanto meditare quanto divertirsi. Il titolo? Non se n’è ancora parlato. Io butto là un’idea: “Il vizio di risorgere”».

FAMIGLIA

Già, quante volte è «risorto» Paolo Rossi? E, soprattutto — rivoltando l’interrogativo (e rifacendoci persino alle cronache più recenti) — quante volte è stato dato per spacciato, dall’ormai lontano giorno in cui babbo Vittorio e mamma Amelia lo accompagnarono sulla piccola Prinz di famiglia a quella terribile fabbrica di celebrità e di illusioni che è il college bianconero di Villar Perosa? E ancora: fanno più male tre menischi tra i sedici e i diciannove anni, o… una tombola a ventiquattro anni? «La tombola, la tombola», garantisce Paolo con la certezza di chi sa di non aver «vissuto» una parte della propria vita:

«Una parte che nulla e nessuno potranno più rendermi: né mio figlio né il Mundial, né mia moglie, né uno scudetto. I bilanci di ciò che abbiamo avuto e perso non sono operazioni algebriche in cui i segni positivi azzerano quelli negativi: sono binari paralleli che non si potranno mai incontrare, né tantomeno compensare. D’altra parte, la stessa esperienza juventina non è stata certo fatta solo di amarezze e di delusioni: tutt’altro. Ma era un’esperienza che, a mio parere, era giunto il momento di chiudere. Per tanti motivi».

E quali siano questi «motivi» Paolo l’ha spiegato per tutta l’estate, dalle cene «rubate» alle conferenze stampa ufficiali, dalle confidenze sussurrate alle interviste ortodosse. Per noi ha riassunto il concetto in quattro parole. «Cercavo una famiglia: la Juve, per me, non lo era più. Il Milan lo è già».

ALLODI

Storia di Paolo. Storia di partenze, di arrivi e di nuove partenze.

«Tutto cominciò proprio con la “Prinz” di babbo Vittorio: non era una gran macchina, anzi era proprio brutta, ma era ciò che la mia famiglia si poteva permettere. Fu con quella che, nell’estate del 73 andammo tutti assieme a Torino. Mi aveva acquistato Allodi, per la Juve, dalla Cattolica Virtus di Firenze. Ormai è storia vecchia: per quindici milioni o giù di lì se non ricordo male».

Già, fu proprio Italo Allodi, allora impegnato nella ricostruzione bianconera, a muoversi personalmente per andare a visionare e a ingaggiare il futuro re del calcio italiano. Il padre di Paolo, scottato dall’esperienza precedente del figlio Rossano (che per tentare l’avventura bianconera aveva perduto un anno di scuola) e, soprattutto, deciso a cedere il figliolo alla squadra del cuore, la Fiorentina — suggerì ai dirigenti della piccola società per cui Paolo era tesserato di «sparare» molto alto per incoraggiare… il no juventino. E invece Allodi non fece una piega (salvo strappare uno sconticino di circostanza). Di li a poche settimane Rossi era bianconero. Il 18 agosto salì sulla «Prinz».

LETTERA

«Da qualche parte ho ancora la lettera di convocazione della Juve: la conservo fra i ricordi più belli della mia carriera. In realtà, andando a Torino per la prima volta, non avevo la più pallida idea di quello che avrei potuto fare da grande. Giocatore o ragioniere? Certo, non era stato facile convincere mio padre a lasciarmi tentare l’avventura: ma ricordo che sia lui che la mamma ripartirono da Villar Perosa con la sensazione di avermi lasciato in buone mani».

E in realtà Paolo si senti paracadutato quasi in un mondo da favola.

«Ricordo anche — dice con immutato entusiasmo — che la prima cosa che mi colpì fu il fatto di vedere da vicino dei giocatori “veri”: Capello, Anastasi, Altafìni, Salvadore, Furino, gli stessi Bettega e Causio con cui avrei diviso tante gioie azzurre. E anche nella mia covata c ‘erano ragazzi che avrebbero fatto strada: da Verza a Marangon, da Marocchino a Zanone. Molti, curiosamente, avrebbero poi fatto la spola come me fra Torino e Vicenza: Zanone sarebbe diventato il mio amico più caro. Addirittura il mio testimone di nozze».

ESORDIO

Con il bianconero juventino

Paolino, per la verità, non venne mai ammesso al sacro soglio della «rosa» di prima squadra. Di quegli anni — fra menischi e polsi rotti — restarono solo una foto «ufficiale» del ’75-76 (fu Parola a volere Rossi nel gruppo di famiglia) e i «tabellini» di un paio di partite di Coppa Italia nelle quali Vycpalek, per dare fiato ai titolari, collaudò e accontentò alcuni ragazzi della «Primavera». Paolo esordì ufficialmente in maglia bianconera a Cesena — in Coppa Italia appunto — il primo maggio 1974. La formazione era Zoff, Gentile, Marchetti, Furino, Morini (Spinosi), Mastropasqua, Rossi, Viola, Musiello, Capello (Causio, Nemo). Vinse la Juve 1 a 0 con gol di Musiello negli ultimi minuti. Rossi non meritò che poche righe annoiate nei commenti del giorno dopo. Scrisse la «Gazzetta»:

«Vycpalek ha presentato due giovanissimi, Nemo del 1955 e Rossi del 1956. Si è fatto maggiormente notare il primo per incisività, rapidità, insistenza nell’azione: il secondo ha mostrato un ottimo tocco di palla, facilità nello smarcarsi, ma è stato raramente chiamato in causa e ha trovato in Danova un tenace oppositore».

La «Stampa» gli dedicò un pensierino ancor più conciso:

«… Ha denunciato qualche giustificata titubanza… Si tratta comunque di un giovane dalle squisite doti tecniche».

L’«eroe-giovane» del giorno fu Musiello: anche Nemo ricevette plausi. Paolino ebbe, nelle pagelle, un 6 di incoraggiamento: il voto più basso comunque, fra quelli attribuiti ai tredici juventini schierati. Che cosa buffa è il calcio: chissà dove sarebbero stati i signori Musiello Giuliano da Torviscosa e Nemo Pieraldo da Fondi di li a pochi anni? Diciamo, per fare un esempio, l’11 luglio del 1982…

BAGNOLI

Una rara immagine di Rossi con la maglia del Como

«Da Torino partii in Renault nel novembre del ’75. Ma la Renault non era mia: era di Marco Tardelli, che si era appena trasferito dal Como alla Juve e che mi accompagnò verso la mia nuova destinazione. Arrivai un sabato (non so perché, ma lo ricordo ancora), esordii in amichevole contro il Verona e feci pure gol. Ma fu l’unico di una nuova stagione senza sapore».

A Como, comunque, Paolo «giocò» per la prima volta a «fare il professionista».

«Non tanto per il guadagno — 800.000 lire al mese — quanto per il fatto che, bene o male, orbitavo netta “rosa” titolare, mentre atta Juve ero considerato un po’ il ragazzino cui dare saltuariamente il contentino della partita coi “grandi”. Purtroppo il licenziamento dell’allenatore (Cancian) e la durissima lotta per la salvezza portarono a problemi “pratici” di sopravvivenza che mal si conciliavano con le ambizioni di un ventenne desideroso di esplodere. Disputai in tutto cinque o sei spezzoni di partita. Il Rossi detta squadra non ero io, era l’altro attaccante, Renzo».

Già, quella fu davvero la stagione degli equivoci. Così balorda che due futuri boss del calcio italiano — Pablito, appunto e Osvaldo Bagnoli che aveva preso il posto di Cancian sulla panchina lariana — riuscirono nella non facile impresa di non capirsi.

«E non fu certo per colpa di Bagnoli», tiene a precisare Rossi. Quella finì con l’essere un’altra stagione buttata via: utile, certo, per la maturazione di nuove esperienze professionali, ma fondamentalmente ibrida dal punto di vista di una possibile «fioritura» del nostro.

«Lasciai Como con la convinzione di aver vissuto una tappa di passaggio. Presi il coraggio a quattro mani, andai da Boniperti e gli dissi: “Presidente, io voglio giocare. In A, in B, in C, non m’importa: ma voglio giocare per vedere che cosa valgo veramente. Se andasse male non farei drammi: ma non posso ritirarmi, o andare avanti, senza aver avuto una prova vera. Boniperti mi rispose: “Ti andrebbe Vicenza? Io sono molto amico del suo presidente, Farina…”. Disse proprio così: “Amico di Farina”. Sai che ancora adesso non ho capito se è vero?».

Paolo ride sotto i baffi: in effetti quante volte i due marpioni, si sono scambiati il suo cartellino?

«Comunque, a Vicenza, ci andai di corsa. E, questa volta, senza che mi “accompagnasse” nessuno: dalla “Prinz” di babbo Vittorio alla Renault di Fardelli, passai alla mia nuova “A 112”. Forse era il segno che avevo imparato a muovermi se non con le mie gambe, perlomeno con le mie ruote».

RIVALI

A Vicenza Paolo scopre la sua vera dimensione

A Vicenza, in teoria, Paolino avrebbe potuto avere vita più difficile che non a Como. Di attaccanti la squadra di G.B. Fabbri ne aveva anche troppi, a cominciare da quel Sandro Vitali che era stato cannoniere biancorosso per anni e che, sicuramente sarebbe partito titolare. Ma Vitali, durante il ritiro, la sparò grossa sul reingaggio (55 milioni) e — sentendosi rispondere picche — fini con l’abbandonare la squadra. Sulla strada di Pablito c’erano però altri due rivali: tali Gesualdo Albanese e Paolo Maruzzo. Acquistato dalla Reggiana il primo, cresciuto nel vivaio il secondo. Fabbri istituì una specie di «torneo» interno provando a turno i tre pretendenti alla maglia numero nove («Una maglia — assicura Paolo — che io non vedevo affatto nel mio destino e che, sotto sotto, non amavo neppure troppo») nelle varie amichevoli precampionato. Ma già all’inizio della stagione ufficiale, cioè con la Coppa Italia, quella maglia aveva un solo proprietario: Paolo Rossi, appunto. Albanese rimase sua riserva per tutta la stagione; Maruzzo fini alla Pro Vercelli. Anche loro, come Nemo e Musiello (e chissà quanti altri), vittime della violenza del ciclone «Pablito».

MALORE

«Visto che parliamo degli arrivi e delle partenze della mia vita, beh, devo proprio confessare che ancora adesso ricordo l’amarezza con cui lasciai la “mia” Vicenza. Una città che, per me, è stata quasi tutto: è stata “mamma”, è stata “squadra”, è stata “salute” (fìsica e mentale), è stata “felicità”, è stata “amicizia”, è stata, ovviamente anche “amore”. Quello che la “prima Torino” mi aveva tolto, mi venne immediatamente restituito dalla provincia, che rigenerò e persino “inventò” cellule di vita fondamentali per le mie successive affermazioni. Mi viene persino da dire “ah, se non avessi mai lasciato Vicenza”, ma credo che la vita di un uomo prescinda dalle sue scelte, E poi — credetemi anche se può sembrare assurdo — a Milano sento di aver trovato un ambiente egualmente corroborante. Milano è più “calda” di Torino; il Milan, soprattutto, mi sembra “più caldo” della Juve. Oltretutto, fra queste due società ho già notato una differenza forse fondamentale: la Juve è sicuramente la squadra più amata, ma anche quella più odiata d’talia, mentre il Milan, a parità (o quasi) di consensi, gode certamente di minori dissensi a tutti i livelli. Probabilmente la Juve è sempre stata troppo “vincente”, per potersi permettere anche di essere “troppo simpatica”».

RIFIUTI

Con Luciano Marangon ai tempi del Real Vicenza

Ma la Juve, quando Paolo parti da Vicenza (dopo un anno in B, due di A, soprattutto dopo il Mondiale del ’78 che lo aveva consacrato «Pablito»), era ancora lontana dal suo destino. Anzi, per dirla tutta, la Juve e Boniperti lo avevano già rifiutato almeno un paio di volte: dapprima corteggiando Virdis con più convinzione di quanto non avessero fatto con lui e poi sparando a salve i famosi 800 milioni delle «buste» contro i due miliardi e mezzo di Giusy Farina.

«A Perugia ci arrivai con entusiasmo, ma anche col rammarico di aver lasciato Vicenza. Era come se qualcosa mi trattenesse. Non avevo più la A112: avevo la BMW 320. Se avessi forato per strada, chissà…».

Già, chissà quante cose sarebbero cambiate nella sua vita di uomo e di calciatore se non fosse mai arrivato a Perugia, se non avesse avuto come compagno di squadra Della Martira, se non avesse mai giocato tra le file della squadra umbra quella maledetta partita con l’Avellino, se…

«Ho letto che, qualche mese fa, quel tale — come si chiamava? — Trinca mi avrebbe scagionato. Non ho saputo se ridere o se piangere. Poi mi sono accorto che la nuova rivelazione, in fondo, mi dava quasi un senso di piacere. Ma, poi, piacere di che? Chi mi restituirà mai più i miei anni, i miei nervi, i miei soldi, la mia reputazione? Giuro che se vedessi quei “signori” che mi hanno combinato tutto questo pasticcio ancora adesso sarei così disorientato, così frastornato, così incredulo che non troverei neppure la forza di dar loro dei pirla. Ma la mano no: quella non gliela darei neanche in punto di morte».

TOMBOLA

A Perugia nell’anno del calcioscommesse

«Da Perugia non partii con la BMW. Ma con un camioncino, ovvero con l’unico mezzo di trasporto adatto a caricare tutta la mia roba. Tornai a Vicenza, è ovvio: ma ci tornai per modo di dire, perché, fra processi e inchieste varie finii col vivere più a Roma e a Milano che non vicino a Simonetta e ai miei genitori. La mia non fu una partenza: fu quasi una ritirata. Me ne andai prima ancora che finisse il campionato. No, non ero disperato: ero sbigottito, incredulo, disarmato come può esserlo una persona che si vede coinvolgere (e addirittura «condannare») da una vicenda che non l’ha mai riguardato, per colpa di persone che non ha mai conosciuto. Il tutto per aver lasciato per due minuti le cartelle di una tombola o per aver detto “Mauro fai tu” a un compagno che faceva discorsi incomprensibili con gente sconosciuta. Per questo, quando dico che la tombola può far più male di tre menischi, scherzo, ma fino a un certo punto. Ci fu un momento della mia vita — credeteci o no — che m’ero messo in mente di fabbricare le “Tombole Rossi”. Di certo ne avrei vendute parecchie. Caso mai con l’avvertenza sul retro di “non alzarsi mai durante il gioco”».

SENSAZIONE

«A Torino, alla Juve voglio dire, arrivai con una macchina nuova: una Saab (una macchina che ho ancora adesso, a testimonianza non tanto della brevità del mio soggiorno quanto, forse, della mia fedeltà alle automobili). Ero partito, cinque anni prima, promettendo a me stesso che sarei tornato: ma non era quello il ritorno che avevo immaginato. Certo, nella primavera dell’81 ero già “Paolo Rossi”, ma che idea, che immagine avrebbero avuto di me i tifosi della Juve? Che strana stagione mi attendeva, fatta di allenamenti senza partite, di ritiri senza emozioni, di domeniche senza pallone? Avevo, però, un’arma nuova per affrontare le mie incognite e i miei pensieri: quell’arma si chiamava Simonetta con la quale mi ero sposato durante la “vacanza”. Curioso: era la prima volta — dai tempi della “Prinz” di babbo Vittorio, che mi trasferivo “in campagna” e non da solo verso una mia nuova destinazione. Ma, arrivando a Torino, ebbi una sensazione contraddittoria: da una parte vedevo coronato un mio sogno, quasi un mio punto d’orgoglio, dall’altro non riuscivo a convincermi che quella — seppur tanto desiderata in tempi diversi -— sarebbe stata la mia ultima tappa come calciatore».

REALTÀ

E infatti — con un altro Mundial di mezzo — eccoci all’ultima partenza e all’ultimo arrivo.
Stessa macchina, dicevamo, stavolta anche stessa… moglie, ma, probabilmente, spirito diverso.

«Sì, inutile negarlo, lo spirito di chi ha ritrovato una specie di libertà. Alla Juve qualcuno s’è risentito per le mie dichiarazioni: ma io ho sempre parlato molto serenamente e molto sinceramente. Dalla Juve ho avuto tanto, a Torino ho ancora tanti amici, ma ora la mia realtà e il mio futuro si chiamano Milan e Milano. Dicevo prima della sensazione strana che provai tornando in maglia bianconera: ebbene ora, invece, sento che questa sarà la mia ultima squadra».

Ultima squadra e ultimo Mundial?

«Sì, ultima squadra e anche ultimo Mundial, inutile illudersi. Che strano: tre mondiali e tutti e tre con maglie diverse. Vuol dire che, fra cinquant’anni, la gente non si ricorderà di Rossi in bianconero, o in biancorosso o in rossonero: ma di Rossi in azzurro e basta. E non si può certo dire che l’azzurro non mi abbia portato fortuna».

TRANQUILLITÀ

E Liedholm? E il «Barone»? Che parte avrà nel restauro del monumento calcistico nazionale? È vero che «solo lui» — visto che abbiamo parlato di Mundial — potrà restituire a Bearzot e alla Patria il miglior Pablito?

«Guarda, io credo di essere la persona meno indicata del mondo a fare profezie su me stesso e sugli altri. Di Liedholm potrei dire solo cose belle e scontate (anche se per me che non lo conoscevo non era affatto scontato che ci facesse lavorare così duramente e sempre pretendendo il massimo), ma una cosa la voglio sottolineare a costo di sembrare poco originale: questo è un uomo che sa dare e trasmettere autentiche “overdosi” di tranquillità. Per quanto è severo col giocatore, altrettanto è rilassante con l’uomo. La sua capacità di sdrammatizzare mi ha letteralmente scioccato. E nel nostro mondo, un mondo fatto di stress, di attese, di processi, di titoli, un allenatore che sappia ispirare serenità è quasi un “bene” da tutelare. Ma da tutelare nell’interesse di tutti, non solo della squadra che lo stipendia».

RIVERA

Con Farina, l’uomo del destino

Che strano, però, questo Rossi che arriva al Milan. A quasi tutto si poteva pensare, qualche anno fa, ma non ad un Pablito rossonero: a suo tempo si era parlato del Napoli (e, come si ricorderà, fu un amore abortito e scoraggiato persino dall’intervento dell’aviazione); era quindi decollato e poi si era arenato il discorso nerazzurro; molti pensavano che, se non fosse «spirato» calcisticamente alla Juve, Paolo sarebbe potuto finire nella squadra dei suoi sogni di tifoso, la Fiorentina, e invece…

«E invece non ha fatto altro che concretizzarsi una possibilità che era già maturata segretamente all’inizio del 1979. Colombo e Rivera erano sul punto di acquistarmi, poi tutto naufragò».

Che fosse già scritto, allora? Ma, a proposito, ora che il connubio con Gianni Rivera (cioè con il precedente… «nino de oro», col precedente «Pallone d’Oro», eccetera eccetera) si è concretizzato, che sentimenti sono scaturiti?

«Una sensazione strana: da una parte la convinzione che ci conoscessimo da una vita, dall’altra il rammarico reciproco che il miglior Rossi e il miglior Rivera messi assieme avrebbero fatto vincere al Milan, o alla Nazionale o che so io, scudetti e Coppe a palate».

SOGNI

Signor Paolo Rossi, per finire: tre date da cancellare dalla sua vita, tre date da incorniciare, un sogno da realizzare.

«Tre date brutte? Il giorno della squalifica, un giorno — a scelta — di uno dei miei tre menischi, la notte di Bruxelles. Tre date belle? Niente Mundial, bensì il mio esordio in Nazionale (a Liegi, 21 dicembre 1977); la nascita di mio figlio Alessandro (22 dicembre 1982: prego confrontare con la data precedente); un tre a zero — proprio così — del “primo” Lanerossi in Serie B (contro il Catania, 17 ottobre 1976: reti di Rossi, Rossi e Rossi. Un sogno? facciamo due: Coppa Uefa (che è la sola che mi manca) col Milan e uno dei primi quattro posti in Messico. Ci avete fatto caso? Sarà il mio terzo Mundial di lingua spagnola».

Come a dire: «Signori, pensatela come volete, ma “Pablito” non passa di moda».

  • Intervista di Marino Bartoletti – Guerin Sportivo agosto 1985