PAOLO ROSSI – luglio 1978

Dal fresco dell’Argentina al caldo, ma non troppo dell’Adriatico, Paolo Rossi è sempre lo stesso. Sorridente, sereno, disteso, modesto

Paolo Rossi: Il Campione perfetto

RAVENNA. La supervalutazione e il successo al mundial argentino non lo hanno minimamente turbato. «E’ rimasto quello che era prima. Tale e quale» dice papà Rossi senza riuscire a nascondere un’espressione soddisfatta.
«L’unico sentimento particolare – confessa Pablito – è stata l’emozione. Tutto è accaduto così tumultuosamente che forse non ho avuto nemmeno il tempo di rendermene esattamente conto. Ma l’emozione sì! Quella c’è stata. E grande anche sebbene in ultima analisi mi sia sembrato di essere riuscito a mascherarla».
E’ schietto, «pulito» nelle parole. Così com’è aperto e sincero il suo carattere. Un anno fa era uno sconosciuto o quasi. In pochi mesi è diventato il numero uno del calcio italiano e non solo italiano. Se non il migliore sicuramente uno dei migliori del calcio mondiale. Ma lui non si scompone.
«Il calcio – prosegue – è una gran bella cosa. Mi piace, mi diverte, ma non mi consente voli pindarici sulle ali dell’ambizione e della vanità. Oggi sono Paolo Rossi, domani potrei essere un Rossi qualunque».

Sembra quasi di cogliere un filo di preoccupazione nelle sue parole. Forse un’insicurezza legata, o meglio determinata dal mondo del calcio.
«Direi di no, in Argentina non ho dato il meglio di me stesso. Credo di poter far meglio».

– Meglio di così?
«Senz’altro per via dì quella storia dell’emozione. Volente o non volente ne ho avvertito i riflessi. Soprattutto nel rendimento».

– Dal particolare al generale. Che ne pensa Rossi del comportamento degli azzurri?
«Credo di poter dire che il giudizio complessivo dovrebbe essere sostanzialmente buono. Potevamo anche arrivare alla finale. Con un po’ più di fortuna magari. O forse di coraggio. Chissà… ».

– Fortuna o carattere? Le ultime due partite, quella con Olanda e Brasile, le avete cominciate bene sul piano del gioco, meno su quello della concretezza. Poi le avete finite in calando.
«Effettivamente nel primo tempo tanto con gli olandesi quanto con i brasiliani avevamo avuto la possibilità di dare una consistenza maggiore al nostro vantaggio. C’è stata una certa discrepanza tra il volume, la qualità del gioco svolto e i risultati ottenuti. Quei due uno a zero con cui siamo andati al riposo non esprimevano fedelmente la disparità di valori e di gioco registrati sul campo».

– E nella ripresa? Perché quel calo?
«La diagnosi non è certamente facile. Se lo fosse stato è presumibile che sarebbero stati presi, ammesso che ve ne fossero, i provvedimenti tecnico-tattici necessari per attenuarla. Proprio non saprei come e perché dopo quei primi due tempi giocati diciamo discretamente bene e mantenendo pressoché costantemente l’iniziativa del gioco, ci si sia ritrovati nella seconda parte delle due gare a subire. Due gare per molti aspetti analoghe, ma indecifrabili nelle cause che hanno determinato certi effetti».

– Si è parlato di responsabilità difensive.
«Si possono tirare in ballo diversi motivi. Dalla stanchezza, alla eccessiva fiducia, alla supremazia degli avversari. Non dimentichiamo, per esempio, che l’Olanda è una squadra fatta di uomini eclettici. Passano tutti quanti dalla fase interdittiva a quella offensiva con estrema disinvoltura, prontezza, efficacia. Ma ha «pesato» un poco la fortuna. Con un pizzico in più, certe palle sarebbero finite nel sacco invece che sui pali o fuori bersaglio per questione di centimetri».

– Qualche critico ha chiamato in causa la difesa e Zoff…
«Io non credo vi siano colpe specifiche. Sono invece convinto che certi gol subiti siano stati frutto di tiri irripetibili o quasi».

– Quali sono le squadre che più favorevolmente ti hanno impressionato?
«Le quattro finaliste».

– E tra queste?
«Non mi è parso di rilevare apprezzabili differenze. Tutti, cioè, avremmo potuto vincere o arrivare quarte. A livello delle finaliste almeno i valori mi sono sembrati abbastanza equilibrati».

– Sul piano della esperienza, personale i mondiali cosa hanno significato?
«Molto e non lo dico per la soddisfazione di averli giocati. Lo dico soprattutto per il fatto che sono serviti a farmi fare un’esperienza di inestimabile valore sia dal punto di vista professionistico che umano. Sono certo che per il mio futuro sarà preziosissima».

– Andando, invece, sul piano tecnico?
«A parte i risvolti di quel pizzico d’emozione, direi che ho conosciuto avversari di valore, mi sono potuto misurare, confrontare, con loro e constatare così che il diavolo, tutto sommato, non è tanto brutto o difficile come lo immaginavo. D’accordo, potevo fare di più, ma con l’esperienza avuta credo, se ne avrò ancora l’opportunità, di riuscire a superare certe remore psicologiche e di esprimermi al meglio. Forse mi ha frenato un poco anche la necessità di giocare più per la squadra che per me stesso. Non ho avuto ordini specifici, ma in sede di analisi critica, di autocritica direi, ritengo di non aver saputo esprimere in Argentina quella fantasia che invece avevo espresso in campionato».

– Qual è stato l’avversario diretto più difficile?
«Lo stopper della Germania Russman»

– Neeskens, però, fino a quando lo hai avuto alle costole, ti ha lasciato una certa libertà.
«Diciamo che ha faticato a prendermi le misure a causa dei miei continui movimenti. Ma non parliamo di avversari facili. In Argentina, infatti, mi sono trovato davanti solo dei grossi giocatori. Grossi non solo per fama, ma per effettiva consistenza tecnica».

– Chi ti ha impressionato maggiormente tra gli attaccanti?
«Kempes e Krankl. Due attaccanti notevolissimi».

– Di Kempes si è scritto tanto e tutto in termini elogiativi al massimo. E’ davvero tanto forte?
«Veramente»

– Cos’ha in più rispetto a Paolo Rossi?
«Più potente e forse meno imprevedibile».

– E’ vero che prima della terza partita del girone eliminatorio, quella con l’Argentina, avete imposto la riconferma della squadra titolare togliendo così la possibilità, per qualcuno di voi, di recuperare energie che sarebbero state preziose nello sprint finale.
«No, assolutamente. O almeno, io credo non sia successo proprio niente. So che mi è stato detto di giocare ed ho giocato».

– Decisione giusta o sbagliata?
«Non c’è controprova e quindi, per me almeno, è stata giusta».

Esaurito il mondiale, veniamo alle faccende di casa nostra e cominciamo da un argomento di attualità. Credi che sia possibile un evento clamoroso sul tuo riscatto da parte del Vicenza? Pare, infatti, che Farina sia in difficoltà per onorare l’impegno assunto nei confronti della Juventus. In tal caso…
«Farina è un uomo che sa il fatto suo. Non penso abbia agito irresponsabilmente»

– Eppure se ne parla…
«Se ne dicono tante di cose che non hanno alcun fondamento di verità. Penso che anche questa sia una di quelle».

– Hai sempre detto che l’essere rimasto a Vicenza non ti ha procurato amarezza alcuna. Sei sempre stato sincero?
«E’ la verità! Io, lo ripeto, debbo tutto al Vicenza e poi ho anche un grosso debito di riconoscenza verso il Presidente. Non poteva darmi una prova più tangibile della stima e fiducia che ha in me».

Paolo Rossi, dunque, risponde in pieno ai canoni del «campione ideale». Le polemiche neppure riesce ad immaginarle. Il fatto che l’impegno assunto dal Vicenza con tutte le eventuali possibili conseguenze, vale a dire la messa all’asta del calciatore con conseguente assegnazione al miglior offerente (recentemente il regolamento è stato cambiato. Fino a poco fa se un riscatto di comproprietà non veniva onorato il giocatore automaticamente veniva assegnato alla comproprietaria per la cifra da essa stessa offerta) non gli si affaccia nemmeno nell’anticamera del cervello. Per lui, il «Signor Farina» è il miglior presidente d’Italia. Non cambia opinione nemmeno quando portiamo il discorso su un ipotizzabile smantellamento della squadra.

– Lelj se ne è già andato e si parla pure delle cessioni di Filippi e Carrera. Se così fosse quale potrebbe essere il destino del Vicenza?
«Non credo possano accadere cose del genere. Che senso avrebbe aver mantenuto me a costo di un notevole sforzo finanziario per smantellare quel che c’è intorno? Il Vicenza non è Rossi, io non sono altro che la pedina di un meccanismo ben congegnato, di un meccanismo al quale Fabbri ha saputo dare un volto, un gioco, un carattere, una personalità, uno stile».

– Valcareggi non è stato molto tenero parlando del futuro vicentino e di quello di Paolo Rossi. Da quel galantuomo che è ha riconosciuto i vostri grossi meriti, ma ha prospettato giorni difficili, quanto meno avari di gloria e di soddisfazioni.
«So che Valcareggi ha parlato di vita dura per noi, ma non credo possa avere conseguenze negative sul nostro rendimento. La squadra, se come credo e spero rimarrà quella che è, saprà ancora farsi apprezzare e valere sia come gioco che come risultati anche se forse un campionato come quello finito da poco potrebbe essere irripetibile. Irripetibile non per il diminuito rendimento nostro o per le maggiori attenzioni che potrebbero anche esserci dedicate, bensì per l’accresciuto tasso tecnico di qualche grosso club, vedi Inter, Milan, Roma Napoli».

– E per quanto riguarda Rossi in particolare?
«Ho già avuto il battesimo in Argentina e, a parte quelle remore psicologiche delle quali ho già parlato, non è che mi sia trovato in grosse difficoltà. Il calcio si gioca in undici. Se guardano me non guardano i miei compagni di squadra. Inquadrando questa considerazione nell’ottica di un Vicenza nel quale tutti possono fare gol, non vedo come e perché il rendimento complessivo della squadra dovrebbe risentirne. Potrei segnare meno io, ma segnerebbero di più gli altri. Il risultato non cambierebbe».