In principio fu il “bambino d’oro” e “predestinato”, figlio di cotanto padre: Cesare, nome da imperatore e ruolo da guida nella prima coppa dei campioni italiana, difensore centrale “libero” da impegni di marcatura nel Milan di Wembley, nei favolosi anni’60. Papà Cesare Maldini era difensore elegante con qualche svago di troppo, tant’è che lasciò alla memoria del suo nome le “maldinate”, distrazioni clamorose dopo partite perfette: ma era anche un pezzo di storia del Milan e tecnico federale, secondo di Bearzot, in rampa di lancio per l’under 21.
Suo figlio Paolo però gli assomigliava poco: più alto, faccia d’attore di fotoromanzi e una freschezza atletica impressionante: giocava ala destra crossando al centro e sognando che a colpire di testa ci fosse Bettega, suo grande idolo per l’eleganza che lo contraddistingueva e pazienza se portava la maglia della Juventus. Nils Liedholm allenava a Milano e fu colpito dal dinamismo di quel ragazzo delle giovanili: era l’ultimo Milan pre-Berlusconiano; il presidente-macchietta Farina si era imboscato e la squadra era un po rabberciata.
Vuoi giocare a destra o a sinistra? Gli chiese Liedholm nell’intervallo di Udinese-Milan, il 20 gennaio del 1985. «Decida lei», rispose il giovane Maldini. «Vai e divertiti», concluse Liedholm. Maldini giocò a destra, al posto di Battistini. Giusto per farsi un’idea di quanto tempo è passato, c’erano ancora le maglie dall’1 all’11, era lontana la legge Bosman, le rose erano più ristrette. Non c’erano internet, iPod, i telefonini. Berlusconi era solo un industriale e una partita di calcio una partita, non un evento.
Maldini ha attraversato ventiquattro anni di calcio ad alto livello, quasi un quarto di secolo, più di un quarto secolo se calcoliamo gli anni delle giovanili, ed è prodigiosamente riuscito a rimanere se stesso. L’avverbio può non piacergli. «Vorrei essere ricordato come una persona normale» dice. Ecco, qui ci sarebbe da discutere. Parere personale: Paolo Maldini è stato il difensore più forte e completo apparso sui campi da gioco negli ultimi cinquant’anni, e non solo in Italia.
Liedholm lo lanciò titolare dalla prima partita già a 17, come a dire che i fenomeni si riconoscono sempre in fretta. Era stato gettato il seme del Milan degli invincibili, un verso della poesia passata alla storia con cadenze romagnole ma nata con andatura “lumbard” della casa: Maldini-Filippo Galli-Baresi, ai quali si aggiungerà un paio d’anni dopo Costacurta.
In principio fu terzino sinistro e fu subito “l’erede di Cabrini”. Dal bell’Antonio al bellissimo Paolo, da Argentina 78 a Germania 88; Maldini in realtà era un destro naturale ma Liedholm l’aveva piazzato lì per sfruttarne le doti atletiche; per una volta nemmeno il profeta Sacchi ebbe nulla da ridire. Solo da terzino fluidificante lo rese terzino incursore, trasformando la licenza di attaccare in onere di salire e sovrapporsi. Maldini lo faceva perfettamente dall’alto di un fisico perfetto, spalle larghe e corsa potente.
In un calcio che era ancora agli albori della rivoluzione sacchiana e dell’occupazione sistematica degli spazi era efficacissimo: aveva qualche imbarazzo nello stretto ed un piede non esattamente da artista ma lanciato in corsa era un’iradididdio. Presidiava la fascia nel senso letterale del termine: dopo la spinta era lestissimo a recuperare la posizione, attento alla zona ed alle diagonali tipiche della tattica del fuorigioco. Nella difesa poi dava il suo meglio: petto marmoreo da marcatore puro, duro nei contrasti, feroce nei tackle, efficace nel gioco aereo. Sontuoso ed armonico come tutti i difensori che puntano su superiori mezzi naturali.
Si integrò perfettamente nell’anima del Milan fine anni’80: bollicine olandesi e gioco frizzante sulla base di una difesa impenetrabile. Papà Cesare lo convocò subito nella sua under 21 e per una volta nessuno tirò fuori storie di raccomandazioni: anzi agli ordini del genitore il giovane Paolino sembrava (e fu così anche in futuro) eliminare anche l’unico neo che lo accompagnava, la scarsa propensione alle segnature, storicamente nelle corde dei terzini sinistri di scuola italica.
Azeglio Vicini se lo portò agli europei del 1988 come degno coronamento di una stagione sorprendente che aveva visto il Milan aggiudicarsi il tricolore sul filo di lana. L’anno dopo arriverà la prima Coppa dei Campioni e la serata del 5-0 al Real Madrid, apice del rinnovamento della scuola italiana, da sempre considerata furba e sparagnina e che invece andava alla riscossa sulla spinta di gioco, soldi e talenti. Il Napoli tolse a Maldini e compagni la gioia di un altro scudetto ma l’Europa continuava a sorridere concedendo il bis della Coppa Campioni.
Sulla rampa di lancio c’erano i mondiali del 1990 con la Nazionale Italiana padrona di casa e logica favorita. Maldini ci arrivava da titolare fisso con un curriculum di quattro stagioni in prima squadra, tante vittorie e presenze indiscutibili nelle “All Star” redatte da tecnici e giornalisti. Ed aveva solo 22 anni. La nazionale di Vicini giocava in modo meno frizzante ma tutto sommato gradevole.
Paolino era maggiormente bloccato in difesa e la retroguardia in effetti funzionava bene: la squadra tuttavia si arenava contro gli avversari tignosi e perse la semifinale dopo il primo goal subito in tutta la competizione. L’Argentina passò ai rigori e andò a giocarsi la finale di Roma, ridimensionando, a torto o ragione, un intero movimento.
Ma che Maldini potesse e dovesse diventare un simbolo dei nascenti anni ’90, era opinione di tutti. Il “bambino d’oro” diventava una colonna portante e le prestazioni sorprendenti erano ora una routine d’obbligo, come sempre in questi casi. A sorreggerlo però c’era un carattere determinato e sicuro di sé: a differenza del genitore, Paolo non era burbero, anzi: poco portato al chiasso, in campo faceva sentire i tacchetti, più che le urla, fuori si godeva lo star system nascente badando sempre a rimanere dentro le righe. A doverla dire in una sola parola, potremmo scrivere “furbo”: poche polemiche, una fama da fenomeno angelico che gli regalò più di una volta l’immunità nonostante i garretti roventi; interviste relativamente rade ed “aziendaliste” ma una posizione all’interno del gruppo da capo defilato appena dietro ai grandi vecchi.
Nonostante la transizione vissuta dal Milan (da Sacchi a Capello) ed in nazionale (da Vicini a Sacchi) e un anno di purgatorio europeo, con il Milan squalificato per la bravata di Marsiglia e la Nazionale eliminata nelle qualificazioni ad Euro’92, Maldini mantenne una costanza di rendimento inattaccabile: mai un infortunio, mai una defezione, rari cali di forma assorbiti nel modo più ovattato possibile: quando Maldini giocava male lo si leggeva tra le righe dei giornali o lo si evinceva dalla mancanza di lodi sperticate da parte dei commentatori.
Il biennio 1993-94 comunque lo vide realmente ad altissimi livelli: il Milan era tornato a dominare in Italia: il pragmatismo di Capello aveva prodotto una squadra meno spettacolare ma quasi inattaccabile. Nessuna sconfitta nel torneo 1991-92, 4 in tutto nelle due annate successive, un record di 17 partite senza subire reti, 3 titoli di fila tra cui uno (1993-94) vinto senza una vera punta di ruolo. Numeri lusinghieri per tutto il pacchetto difensivo. Nel 1994 poi il capolavoro: una finale di Coppa Campioni vinta (dopo la sconfitta in finale dell’annata precedente) per 4-0 con la contemporanea assenza di Franco Baresi e Costacurta, la coppia centrale dei record, con davanti la squadra spettacolo di Johan Cruyff, il Barcellona a trazione anteriore che allora era il meglio del gioco offensivo.
In quell’occasione davanti ad artisti del goal come Romario e Stoichkov, Capello schierò al centro della difesa proprio Paolo Maldini, in coppia con il sempiterno Filippo Galli. Il perfetto esito dell’operazione fece pensare a tutti che lo spostamento del numero 3 rossonero al centro, una volta ritiratosi Baresi sarebbe stata una conseguenza efficace e tutto sommato automatica: i fatti invece la vedranno ben più laboriosa del previsto.
Intanto iniziavano i riconoscimenti internazionali: dopo il “Bravo” vinto in gioventù fu “giocatore dell’anno” per la rivista World Soccer nel 1994, terzo classificato (primo dei difensori) nel “Pallone d’oro”. Proprio il 1994 era stato l’anno dei mondiali, mondiali disputati per la prima volta negli Stati Uniti d’America, forse l’unico tempio restio a piegarsi al paganesimo del dio pallone. Erano stati mondiali difficili, partite sotto un caldo torrido e la nazionale italiana imbragata nell’integralismo sacchiano, fatti di esperimenti, consegne tattiche e formazioni cervellotiche.
Era stato un mondiale sempre sul ciglio del precipizio per i colori azzurri: un passo più in là si era all’inferno, un passo dall’altro lato portava dritti in paradiso: anche Maldini seguì il trend generale: la battaglia finale con il Brasile lo vide in prima linea e ciò valse a consegnarlo agli annali: ma chi lo conosceva si accorse che fu un mondiale tutto sommato sottotono, soprattutto fisicamente. Sembrava quasi che Paolo fosse un po’ stanco, spompato da un regime altissimo di rendimento mantenuto per lungo tempo.
L’annata successiva confermò il cigolio. I ragazzini dell’Ajax di Amsterdam si permisero di scherzare l’impenetrabile difesa milanista a domicilio, seppur con l’attenuante rossonera di non trovarsi già nel teatro di San Siro ma allo sconosciuto (per loro) stadio di Trieste. La Juve del nuovo arrivato Lippi gli scucì il triangolino anch’essa a domicilio. Non è che Paolino andasse male ma aveva preso a picchiare e randellare e quando spingeva al posto di abbassare la testa e sguainare la spada, alzava il capo alla ricerca di qualche compagno, quasi non si fidasse più suo affondo.
Il Milan raggiunse ancora una finale di coppa (perdendo) e nel 1996 tornò a primeggiare in Italia; ma era il canto del cigno degli “invincibili”. Maldini fu piazzato d’onore nel Fifa World Player 1995 ma le successive annate passarono tra tentativi di assestamento della difesa con puntuali avanti e dietro tra il centro e la sua fascia sinistra, tra segni di ripresa e ricadute; a fargli da guanciale per fortuna c’era papà Cesare, approdato nel frattempo alla guida della nazionale maggiore, che sembrava riuscire a cavar fuori gli ardori sopiti nella squadra di club.
I mondiali di Francia 1998 però calarono i veli su un’Italia rinunciataria ed incapace di fare la differenza. Un po’ forse ad immagine dei Maldini, padre e figlio. Vero, Paolo fu ancora degno protagonista del pragmatico e fortunato Milan zaccheroniano capace di vincere il titolo nazionale nel 1999: e fu ancora degno protagonista dell’Europeo del 2000 (dove l’Italia perse l’unica partita giocata veramente bene). Ma pareva un lento crepuscolo: Maldini record (di presenze in nazionale, battendo perfino Dino-mito Zoff), Maldini colonna de Milan. Ma sulla fascia incuteva rispetto, non più timore. Da centrale invece era sempre a rischio d’imbarazzo, quasi come un po’ spaesato. E quando in un mondiale un piccolo coreano di nome Ahn gli saltò sopra la testa in una partita surreale sembrò a tutti fosse stata scritta la parola fine. Si fece da parte, quasi a volere evitare che qualcuno glie lo chiedesse. Ed invece non era finito un bel niente.
Il presidente Berlusconi gli regalò una stampella, un gemello più giovane, nato anche lui terzino ma passato subito centrale; uno capace di recuperi sontuosi ma un po’ insicuro, spesso nervoso. Si chiamava Alessandro Nesta. Paolo aiutò Nesta a crescere e Nesta aiutò Paolo a rinascere. Finalmente era il Maldini che tutti avevano sognato: centrale preciso, puntuale, capace di districarsi con la calma dei grandi ed il mestiere dei lupi di mare.
E quando sembrava ormai troppo tardi ecco arrivare una nuova Coppa dei Campioni (Champions League, pardon), la quarta, alzata da capitano 8 anni dopo l’ultima e 40 anni dopo papà, di nuovo in Inghilterra. E mancava ancora lo scudetto dei record, facendo meglio degli Invincibili, con in panchina quell’Ancelotti che di Maldini era compagno in campo ed in nazionale più una quindicina di anni prima…
A questo punto c’è la fila per chiedergli di tornare in maglia azzurra a cancellare il rimorso di quel piccoletto coreano che lo aveva fatto sembrare un monumento inchiodato a terra, sotto le intemperie ed il peso degli anni. Ma Paolo orami all’azzurro non ci pensa più, si concentra ferocemente sul presente milanista, attaccando gli ultimi trofei della sua personalissima bacheca: nel 2003/04 arriva il suo settimo scudetto e nel 2007, alla veneranda età di 39 anni, chiude a chiave il suo armadietto imprigionando la sua quinta Champions League (ad un passo da Gento che lo precede con sei) seguita a ruota dalla Supercoppa Europea e dal Campionato Mondiale per Club (Coppa Intercontinentale).
Siamo veramente al capolinea, Paolo Maldini guarda tutti dall’alto dei suoi trofei e dei suoi record. Gli ultimi due anni della carriera sono spesi al lumicino, attraversati da frequenti problemi fisici. Il 31 maggio 2009 a Firenze Maldini disputa la sua ultima partita: Fiorentina-Milan 0-2 nella quale raggiunge le 902 partite ufficiali con i rossoneri.
EPILOGO – Se i numeri hanno un senso, la carriera di Paolo Maldini è da consegnare direttamente all’immortalità, avendo attraversato tre decenni tra Milan e Nazionale e ritoccato molti record di presenze e vittorie. Se le ultime istantanee hanno la predominanza ci troviamo davanti ad un miracolo di rendimento ed integrità. Ma se riusciamo a guardare la storia nella sua interezza non possiamo negare che il grande Paolo abbia avuto ampie difficoltà a mantenere l’eccellenza assoluta nella fase centrale della sua carriera. Ciò non toglie che le altissime e reiterate punte di rendimento, unite ad una stupefacente durata temporale lo proiettino nella ristretta cerchia dei grandi.