Parigi 1938: la vittoria del merito

Nel 1934 il successo nella Coppa del Mondo, organizzata da noi, era parso una vittoria di regime. A Parigi invece gli azzurri dominarono. Ricostruiamo quell’impresa attraverso i commenti e i titoli della stampa europea di allora

La rassegna stampa dei Mondiali del ’38 è un esercizio che dà utili indicazioni alla storia del giornalismo sportivo e mette in risalto quelle debolezze e virtù nostre e dei nostri avversari, in base alle quali già quattro volte abbiamo alzato la Coppa.

Come ricordava l’interno sinistro bicampione del mondo Giovanni Ferrari in un disco di memorie dei primi anni ’60 (Il calcio azzurro, Sandro Ciotti), non fu la partita di semifinale con i brasiliani l’ostacolo più duro, ma quella d’esordio contro la Norvegia.

I rossi nordici schieravano molti della squadra che ci aveva quasi eliminato ai Giochi Olimpici del ’36. Ciononostante furono sottovalutati. Ad un paio di settimane dall’inizio del torneo, un inviato del settimanale “Il Calcio Illustrato” intervistò Jørgen Juve, capitano dei norvegesi nel 1936. Juve aveva scritto un libro sul football e, di professione, faceva il giornalista. Si espresse come un tranquillante per noi: «Sono certo che saremo nuovamente battuti, ma mi conforta il fatto che saremo sconfitti dai migliori, poiché io sono convinto che gli Azzurri vinceranno la Coppa come nel 1934. Essi ci sono nettamente superiori in velocità, ed il loro stile è una felice fusione di quanto c’è di meglio nello stile inglese ed in quello austriaco: soprattutto essi hanno capito che l’unica cosa che conta nel calcio è la capacità di segnare».

Nei giorni antecedenti l’esordio dell’Italia, i due quotidiani sportivi di Milano e Roma “La Gazzetta dello Sport” e “II Littoriale” – presentarono il match di Marsiglia del 5 giugno come un antipasto alla prima portata “sontuosa” dei quarti di finale con la Francia. Secondo Mario Zappa, firma tecnica della “rosea”, ItaliaNorvegia era la sola partita del primo turno ad avere una netta favorita. Pier Luigi Tagiuri, da Roma, confermava il pronostico, calcando sul fatto che i norvegesi faticavano in allenamento a piegare l’Estonia. Entrambi i fogli vedevano negli Azzurri, unico team imbattuto nella stagione in corso, i favoriti per la vittoria finale, seguiti a ruota da Francia, Brasile, Germania e Ungheria.

Il solo monito venne, a poche ore dal match, dall’altro inviato della Gazzetta, Erberto Levi, un trentenne ligure bilaureato che, di li a poco, sarebbe dovuto uscire di scena per via delle leggi razziali promulgate dal regime. Levi chiarì la situazione psicologica della vigilia dei nordici: «I nostri avversari non si illudono ma non sono rassegnati. Si preoccupano? Veramente la parola ci è sembrata eccessiva, quando li abbiamo visti intenti ad una prima colazione, a base di uova, salati, mostarde, marmellate, formaggi, che per i nostri servirebbero come colazione prima, seconda e terza messe insieme!».

La stentata vittoria per 2-1 dei campioni in carica, ottenuta per giunta nei tempi supplementari, fu accolta con cautela della stampa francese, intenta ad esaltare il 3-1 dei “galletti” sul Belgio. Scrisse “Paris Soir”: «Se l’Italia sembra aver deluso per non avere battuto la Norvegia come si pensava, bisognerà attendere il secondo turno per sapere se si tratta veramente di un ribasso di forma dei transalpini. Per conto nostro, non lo pensiamo».

Italia-Norvegia: caccia alla monetina prima del match

E il C.T. francese Barreau: «Non vi nascondo che l’Italia sarà una grossa pillola da ingoiare ma ho fiducia. Incoraggiati dalla resistenza della Norvegia, i miei giocatori hanno la ferma speranza di riportare un nuova successo». I giornalisti italiani (Tagiuri, De Vecchi) tornarono sulla terra e parlarono di grossa speranza, riconoscendo nella Norvegia una squadra più fresca, atletica, pronta, addebitando la prova azzurra alla cattiva giornata della mediana.

Più fino, e forse più vicino alla verità, il commento di Zappa: «Marsiglia è stata città troppo ospitale, col suo albergo posto in piena Cannebiere e con la folla dei compatrioti che aveva messo l’assedio ai giocatori… La folla che vuole troppo bene è pericolosa per gli atleti. Pozzo ha dato al padrone dell’albergo e ai camerieri (quasi tutti italiani) la consegna di allontanare tutti, anche gli amici. Né bisogna parlargli dei colleghi francesi. Il loro stile di attribuirgli parole, fatti, intenzioni, sentimenti attraverso vivacissime colonne fatte del nulla assoluto, lo esaspera». E qui si tocca un tasto delicato.

La stampa italiana, severa, tecnica, “velinata” e ultranazionalista, accusava quella francese, ugualmente sciovinista ma più libera nei contenuti, di fare “colore” solo sugli Azzurri, lasciando i Bleus a lavorare in pace nel ritiro di Chantilly. L’operazione di disturbo dei giornalisti locali non era davvero una invenzione, arriverà al punto che Pozzo sarà costretto, alla vigilia dell’incontro con la Francia, a sbattere fuori dall’albergo a male parole Jean Eskenazy, prima firma tecnica per il football de “L’Auto”, il settimanale sportivo diretto da Jacques Goddet.

Su Marsiglia “città troppo ospitale”, la questione è più complessa; introduce a un discorso sul carattere politico della partecipazione italiana ai Mondiali di Francia; quella Francia estremamente inquieta e divisa tra il governo del gabinetto Daladier, sostenuto dalle destre, e il fronte socialista dell’ex presidente Blum. La stessa scelta di Marsiglia come sede per l’esordio degli Azzurri fu il frutto di un compromesso politico: Marsiglia poteva considerarsi una città franco-italiana (140.000 anime su 650.000 abitanti), dove si sentiva – a detta del presidente della Lega Football del Sud-est, Abelly – una “fratellanza latina”.

E però Marsiglia era anche la capitale del Midi, il Mezzogiorno francese, dove più forte era la militanza al Fronte Popolare socialista. Accadde così l’inevitabile: gli Azzurri, considerati gli alfieri di una nazione fascista e nemica (anche per le recenti dichiarazioni di Mussolini secondo il quale “Italia e Francia” erano, in ogni cosa, “ai lati opposti della barricata”), vennero sonoramente fischiati dall’inizio alla fine dei 120’ di gioco.

I norvegesi, al contrario, sostenuti come un Davide davanti a Golia. Al momento dell’esecuzione dell’inno “Giovinezza”, diecimila fuoriusciti (antifascisti italiani riparati in Francia) inscenarono una gazzarra accolta con simpatia dal pubblico neutrale di Marsiglia. Ma di questa clamorosa manifestazione politica non vi fu traccia nei giornali italiani e francesi: impegnati i primi a sottolineare una generale mancanza di sportività del pubblico; e i secondi a scusarla con la naturale disposizione umana a parteggiare per i più deboli.

È probabile che pressioni politiche ad alto livello abbiamo finito per influire sulla stampa transalpina. I giornali del Midi si limitarono a commenti tecnici, seppure più critici nei confronti degli Azzurri rispetto ai fogli parigini, “azzurri salvati dal portiere” (Le Petit Marsellais) e definiti “una delusione” (La Provence Sportive). La rete del raddoppio annullata a Brustad, che ci avrebbe eliminato (valida a parere dell’allenatore norvegese: oggi chissà quante moviole avrebbe scatenato!), venne considerata una decisione corretta, presa d’altronde dall’arbitro viennese Beranek su invito del guardalinee francese.

L’asse sportivo Germania-Italia (l’Austria era appena entrata a far parte del Terzo Reich) non poteva quindi essere chiamato in causa. Nella settimana precedente lo scontro con i padroni di casa, la comitiva italiana si spostò a Parigi, nell’incantevole Pavillon Henry IV a St. Germain en Laye, diretto dal veneziano Gavagnin.

Pozzo si adoperò al recupero della concentrazione dei suoi, allontanando i giornalisti dagli allenamenti. All’ottimismo della tifoseria francese e della comunità italiana di Parigi (250.000 immigrati), rispose una certa cautela della stampa locale. Il capitano francese Mattler, dalle colonne del Petit Parisien, si dimostrò una perfetta Cassandra: «Se gli azzurri avessero avuto vita più facile con i norvegesi, si sarebbero presentati troppo fiduciosi e di fronte alla nostra resistenza si sarebbero demoralizzati e storditi. Ora invece sono sicuro che la partita sarà dura…».

All’Hotel Terminus di Saint Nazaire (il quartier generale delle personalità sportive dove alloggiano i maggiorenti della spedizione italiana: Vaccaro, Mauro, Barassi, Coppola, gli arbitri Barlassina e Scarpi, più il radiocronista Carosio e il nutrito gruppo dei giornalisti) solo un inviato del “Nemzeti Sport di Budapest” scommetteva sul successo finale dei campioni.

La seconda rete di Piola nel quarto di finale contro i padroni di casa

La netta vittoria sulla Francia (3-1) del 12 giugno, nella partita che segnò il record d’incasso del torneo (875.813 franchi), suscitò commenti obiettivi della stampa francese, concorde nel sottolineare l’inferiorità dei blues davanti ai noirs: gioco latino al 100%… «La loro tecnica è superiore» (Paris Soir); «Hanno vinto con due reti di scarto e avrebbero potuto essere di più» (L’Auto); «I contrattacchi transalpini, condotti a folle andatura, hanno ogni volta creato delle situazioni critiche per la nostra porta» (Le Temps); «Gli italiani sono allievi ben dotati dei maestri inglesi» (L’Intransigeant).

Lo scrittore Dubech (L’Auto), superò in enfasi un po’ tutti, dicendosi ammirato fino alla commozione dalla velocità degli Azzurri. Silvio Piola, autore di due reti, fu l’uomo che raccolse maggiori suffragi. Il settimanale parigino “Football” gli dedicò tre quarti della prima pagina, concedendo il resto al magiaro Sarosi, e chiamandoli i due più forti centravanti del Continente. Maurice Pefferkirn, sulla prima pagina de “L’Auto”, ne tracciò una scheda tecnica terminante col più ambito degli elogi: sarebbe degno di giocare in Inghilterra…

I quotidiani sportivi italiani scrissero del comportamento cavalleresco dei giocatori in campo e dell’educazione del pubblico parigino (anche se i “macaroni” all’indirizzo dei nostri non erano mancati). Renzo De Vecchi, invitato de “Il Calcio Illustrato”, addebitò alla classe pura di alcuni azzurri la differenza di valori emersa in campo. Aggiungendo un’acuta notazione riguardante i miglioramenti palesati dai nostri nel controllo della sfera, dopo che in settimana avevano preso confidenza col pallone inglese fabbricato in Francia (più grosso, pesante e meno regolare per qualità del cuoio dai soliti) adottato nelle partite di Coppa del Mondo.

A questo punto del torneo, i favori degli esperti francesi (Eskenazy, Pefferkin, Hanot, Gamblin, Benac, Lehmann, Rossini) conversero sul Brasile, il cui centravanti Leonidas venne considerato l’autentico “crack” tra i 154 giocatori visti in azione; solo 3 italiani entrarono nella lista stilata da Eskenazy (L’Auto, Paris Soir) dei migliori 26: Foni, Piola, Ferrari. C’era, in effetti, avversione nei confronti di Pozzo, divenuto improvvisamente il cerbero del ritiro azzurro.

Lo ricorda lo stesso Pozzo nel suo libro “Campioni del mondo”. «Il colpo di timone aveva fatto raddrizzare la rotta. Il tono dei commenti tornò a cambiare immediatamente. I giocatori, si diceva, avevano ritrovato la retta via. Solo io ero diventato antipatico a tanti. Specialmente agli intrusi abusivi, quelli che avevo messo alla porta. Anche molti fra coloro che nei nostri riguardi si erano comportati bene, mi facevano ora il viso dell’armi: perché avevo tolto loro la possibilità di affermare che era per la loro collaborazione che le cose erano andate come erano andate. Si capisce, ero giornalista anch’io…».

Semifinali quindi secondo programmi e speranze, con la pericolosa Germania out: BrasileItalia a Marsiglia, SveziaUngheria a Parigi, il 16 giugno. Il match tra nordici e magiari passò quindi sotto silenzio stampa, tutto l’interesse concentrandosi sulla sfida tra gli alfieri della scuola latina e quelli della scuola sudamericana.

Pronostici incerti, anche se il gruppo dei francesi, ora, diceva Italia (commento di Tagiuri, su “Il Littoriale”: «Male, perché finora non hanno azzeccato gran che nelle funzioni di Sibille…»). I brasiliani, oggetti esotici e assolutamente sconosciuti agli appassionati italiani, vennero presentati con schede particolareggiate, uno per uno. Si spiegò che l’uso dei nomi strambi (Argemiro, Brito, Zezé, Batatais, Luizinho, Nariz, Tim) era dovuto alla ristretta varietà nei cognomi dei coloni portoghesi e alla conseguente necessità di soprannomi.

Un trafiletto di agenzia informava sulla qualità del tifo brasileiro: le enormi folle che si assiepavano davanti al quotidiano “A Noite”, a Rio, per attendere l’esito degli incontri della Seleção; le centinaia di telegrammi di incitamento che ricevevano i giocatori (uno di questi, mandato da San Paolo, non conteneva testo ma… 500 firme); il fatto che, per il giovedì con l’Italia, il presidente della Repubblica avesse stabilito una giornata di festa nazionale, e questo per consentire alle popolazioni di Rio, San Paolo ecc, di ascoltare dagli altoparlanti nelle strade la partita trasmessa per radio.

E poi c’era il mistero sulla formazione che il Ct Pimenta avrebbe messo in campo contro gli Azzurri: la squadra A, uno a uno con la Cecoslovacchia, o quella B, che aveva battuto i cechi nella ripetizione? Negli allenamenti, la seconda squadra, composta interamente da giocatori di colore, batteva regolarmente la prima, quella “bianca”, con 5-6 reti di scarto, ergo… (ma le previsioni si sarebbero rivelate errate).

Silvio Piola protagonista nella semifinale di Marsiglia

Ciliegina sulla torta, l’intervista che Pozzo rilasciò alla Gazzetta la vigilia del match. Dove raccontò per filo e per segno lo sgarbo subito dai presuntuosi brasiliani, che si erano ribellati all’eventualità di passargli il biglietto aereo già acquistato per la finale di Parigi, non avendo preso neanche in considerazione la possibilità di una sconfitta.

Per i giornalisti brasiliani al seguito, stessa solfa; gli Azzurri non rappresentavano un avversario apprezzabile. Nessuno di loro era andato a Parigi a vedere Piola in azione. “O Globo”, il giornale di Rio, presentò la sfida come la festa del calcio latino, confidando che Leonidas avrebbe fatto la differenza.

Invece Pimenta mise in campo la squadra “bianca”, con dentro un paio di chicchi di caffè. Leonidas si fece notare per il vestito candido che sfoggiò dalle tribune; motivo della sua assenza? Problemi fisici, disse ai giornalisti francesi. In realtà, aveva chiesto dei soldi in più per giocare e la federazione verdeoro non glieli aveva concessi (ma anche allora, tra le quinte, qualcuno sussurrò di lire sottobanco versate a Leonidas da dirigenti italiani).

Gli Azzurri vinsero 2-1, Piola strappando un rigore al suo marcatore Domingos con molta astuzia. Un altro episodio da moviola, sicuramente, per il quale i dirigenti brasiliani presentarono un reclamo ufficiale, chiedendo invano la ripetizione della gara.

A Rio si ebbero scene di panico: ad un certo punto la folla carioca, presa da frenesia isterica, si abbandonò ai canti e alle danze, convinta da una falsa voce della vittoria dei propri beniamini. Il radiocronista spiegò poi a tutti che la sconfitta era da addebitarsi esclusivamente all’arbitro svizzero che aveva concesso il rigore trasformato da Meazza.

I giornali francesi e italiani concordarono che il risultato della partita era frutto della superiorità del collettivo azzurro contro la tendenza dei brasiliani a fare dello sterile spettacolo: «gioco moderno e qualità morali» (Jour); qualcuno esagerando a filosofare di «cervello latino opposto alla forza muscolare dei negri».

Ecco il commento apparso su “Le Sport Suisse” del 22 giugno a firma di Emile Birbaum, interessante sotto vari aspetti: «Il match non è ancora iniziato, entrano le squadre: sorpresa! Durante l’inno nazionale gli italiani non fanno il saluto fascista con la mano. Le braccia sono incollate al corpo, come se si trattasse di semplici svizzeri. Allora, che è successo, il mondo s’è capovolto? A Milano, hanno preteso che gli svizzeri facessero il saluto romano. Ma, all’estero, la squadra italiana se ne astiene. E senza dubbio una concessione fatta al Fronte Popolare, molto virulento nel Midi. Ma il pubblico non apprezza questo sacrificio, questo gesto delicato dell’Italia. Fischia alle prime note di Giovinezza. I boo cominciano, malgrado gli appelli alla calma della stampa francese. Ma gli innumerevoli italiani della Riviera non chiudono mai la bocca e la loro squadra non resterà senza sostegno… Le cose si sono guastate alla fine. Il pubblico, furioso di vedere il Brasile sconfitto, avrebbe voluto che Wuethrich avesse visto i crimini dappertutto, per fischiare non si sa quali falli contro l’Italia… Il match, quasi terminato sul terreno, si trasporta sugli spalti, dove dei bruschi pugilati si accendono qua e là».

Pugilato o no, giocatori comprati o no, l’Italia era in finale, e questo rientrava nelle regole. L’Ungheria che ci attendeva domenica 19 giugno allo stadio Colombes di Parigi era l’avversario ideale: un gioco che conoscevamo bene, un undici che avevamo battuto sempre negli ultimi anni, una nazione amica che palesava una chiara sudditanza psicologica e politica nei confronti dell’Italia di Mussolini.

I vaticini della stampa estera si orientarono per un fifty-fifty: gli italiani erano forti, ma i magiari avevano messo in mostra miglioramenti sul piano collettivo e delle individualità. Chi di football se ne intendeva veramente, il pragmatico “leone” britannico, optava per l’Italia: il segretario della federazione inglese, Stanley Rous, e il coach della nazionale Brown, planati a Parigi, presero accordi con il segretario della Federcalcio, Mauro, per la sfida di rito tra i bianchi d’Inghilterra e i prossimi campioni del mondo.

Il presidente francese Le Brun con gli azzurri prima della finale

Sulla schiacciante vittoria degli uomini di Pozzo, il miglior commento tecnico fu ancora una volta quello di De Vecchi (“Il Calcio Illustrato”). L’ex azzurro individuò la superiorità tattica italiana nella capacità di Meazza e Ferrari, le due mezze ali della W, di ripiegare fin sulla linea dei terzini e di lì ripartire, dando maggior respiro e profondità alla costruzione del gioco offensivo. E poi il fromboliere Piola, un centravanti potente, “moderno”, ben superiore al “palleggiatoreSarosi.

La legittimità del successo italiano venne unanimemente riconosciuta dalla stampa francese: «Una partita magnifica – Grandiosa finale – Apoteosi della palla rotonda», furono i titoli a caratteri cubitali dei giornali parigini della sera. Ed un coro di elogi a seguire: «Vittoria largamente meritata» (“Paris Soir”); «Trionfo del gioco incisivo e ardente, trionfo del contrattacco rapido, dell’agilità, della freschezza di azioni» (“Petit Parisien”); «Exploit dell’allenamento morale» (“Le Temps”); «Le reti sono state capolavori» (“L’Intransigeant”); «Hanno saputo e voluto mantenere per 90′ un ritmo fantastico» (“Le Figaro”), «Il calcio italiano è pari a quello dell’Inghilterra» (“Matin”), «Una difesa sicura, bloccavano gli attacchi con una facilità stupefacente» (“L’Epoque”); «I transalpini hanno offerto ai cinquantamila spettatori l’idea esatta di ciò che deve essere il calcio 1938» (“Paris Midi”), «Spettacolo indimenticabile» (“Jour”), «Gli italiani hanno saputo assimilare la tecnica anglosassone e darle un tono, un ritmo prodigiosi» (“Match”), «La compagine che ha fornito il miglior gioco» (“L’Auto”), «L’Italia ha meritato il successo perché ha saputo vincere se stessa: vincere le sue debolezze e le esitazioni del primo giorno, per progredire a ogni partita e arrivare alla finale nella forma migliore» (“Football”).

Sullo stesso tono il resto della stampa estera: «Avrebbe potuto finire anche con 5 reti di scarto, senza le prodezze del nostro portiere!» (“Az-Est, Budapest”); «L’Italia può oggi mettere in campo 4 squadre in grado di vincere il campionato mondiale!» (“Pledni List”, Cecoslovacchia); «Ha vinto la volontà romana e fascista» (“Fussball”, Monaco di Baviera); «Gioco inimitabile» (“Sport”, Zurigo); «Solo l’Inghilterra può contestare la supremazia del calcio fascista» (“El Mercurio”, Santiago del Cile).

Anche la stampa britannica, dopo aver snobbato a lungo il Mondiale (il “Times” non dedicherà neppure due righe di agenzia alla finale), diede nota alla vittoria italiana usando i termini-chiave: «Stile, improvvisazione, velocità». Commentò il selezionatore nazionale, Brown: «Gli italiani sono stati nettamente migliori. L’incontro, bellissimo. Gli ungheresi hanno avuto il torto di non marcare le ali; e così che Biavati e Colaussi hanno creato innumerevoli occasioni pericolose. Difesa ok. Piola formidabile: simile al nostro Drake, ma più veloce».

I tecnici inglesi si domandarono se la politica di non partecipare ai Mondiali non avrebbe finito per consentire al calcio latino il temuto sorpasso. E con evidente preoccupazione accennarono alla prova del nove della imminente sfida fra il team d’Inghilterra e la selezione del Resto del Mondo).

Jean Eskenazi, sul “Paris Soir”, stilò la formazione del torneo, infarcita questa volta di azzurri: Olivieri, Rava, Andreolo, Meazza, Piola, Ferrari, Colaussi. Anche il supercritico del football europeo, in passato forte spregiatore del calcio transalpino, aveva dovuto farsi una ragione della superiorità del “gioco all’italiana”. A suon di gol.

Testo di Marco Impiglia