Un rigore sbagliato può distruggere una carriera? Chiedetelo a Reynald Pedros, il predestinato del calcio francese che in una notte di giugno del 1996 vide i suoi sogni infrangersi sul dischetto dell’old Trafford,
Il silenzio dello stadio di Old Trafford era assordante quella sera del giugno 1996, mentre la Francia e la Repubblica Ceca si preparavano per i rigori, dopo 120 minuti di battaglia senza reti, per giocarsi un posto in finale. Nello spogliatoio francese, pochi istanti prima, c’era stata una scena apparentemente insignificante: la distribuzione dell’ordine dei rigoristi.
Reynald Pedros, 24 anni, talento cristallino del calcio francese, alzò la mano con quella naturale sicurezza che solo i giovani possiedono. “Mi offro come sesto”, disse, senza esitazione. Nessuno obiettò: del resto, era uno dei giocatori tecnicamente più dotati della squadra, reduce da stagioni straordinarie con il Nantes.
In quel momento, mentre si offriva volontario, Pedros non poteva immaginare che quel gesto avrebbe tracciato una linea indelebile nella sua vita, dividendola in un “prima” e un “dopo“. Non poteva sapere che quella decisione, presa con la leggerezza di chi si sente invincibile, avrebbe innescato una catena di eventi capace di trasformarlo da promessa del calcio mondiale a simbolo del fallimento.
Nel suo cuore, sperava segretamente che non si arrivasse al sesto rigore. Che la Francia chiudesse la pratica prima, come era successo nei quarti contro l’Olanda. O forse, in quella parte più nascosta della sua anima dove abitano i sogni più audaci, immaginava di diventare l’eroe della serata, l’uomo che aveva portato la Francia in finale.
L’ascesa del principe di Nantes

Era il 1986 quando un Reynald Pedros quattordicenne varcò per la prima volta i cancelli dell’accademia del Nantes. Con i suoi capelli arruffati e quel sorriso da cherubino, nessuno poteva immaginare che quel ragazzino timido sarebbe diventato uno dei simboli più luminosi del calcio francese degli anni ’90.
La sua ascesa fu metodica, inesorabile. Dalle giovanili alla squadra B, fino al grande salto in prima squadra all’alba degli anni ’90. Ma fu sotto la guida di Jean–Claude Suaudeau che il suo talento esplose definitivamente. Suaudeau, leggenda vivente del Nantes, vide in quel ragazzo qualcosa di speciale: una tecnica raffinata, una visione di gioco fuori dal comune, quella capacità innata di far sembrare tutto tremendamente semplice.
Non era solo: insieme a Patrice Loko e Nicolas Ouédec formava il celebrato “trio magique“, un tridente che faceva sognare la Francia intera. Il loro calcio era poesia in movimento, un mix perfetto di tecnica e creatività che portò il Nantes alla conquista della Ligue 1 nella stagione 1994/95.
In quegli anni, il nome di Pedros veniva sussurrato con reverenza negli ambienti calcistici. Lo paragonavano a Zidane, vedevano in lui il futuro della nazionale francese. Il Barcellona lo corteggiava, i grandi club europei facevano la fila. A 24 anni, sembrava avere il mondo ai suoi piedi. Era il principe di Nantes, l’erede designato al trono del calcio francese.
La gloria sembrava solo l’inizio di una favola destinata a durare per sempre.
Il momento che cambiò tutto
Torniamo ora all’Old Trafford, Manchester, semifinale di Euro ’96. Il tabellone segna 120 minuti, Francia-Repubblica Ceca 0-0. I primi cinque tiratori di entrambe le squadre si avvicendano sul dischetto con la precisione di un orologio svizzero.
Zidane apre le danze: gol. Kubík risponde: gol. Djorkaeff non sbaglia, Nedvěd nemmeno. La danza continua con Lizarazu, Berger, Guérin, Poborský, Blanc, Rada. Dieci rigori, dieci gol. 5-5. È il momento della verità, l’istante in cui i sogni possono trasformarsi in gloria eterna o precipitare nell’abisso.

Pedros si avvia verso il dischetto. Il suo passo è sicuro, ma il cuore batte a mille. “Ero concentrato”, avrebbe ricordato anni dopo, “pensavo solo che non c’era bisogno di correre. Nessuna ansia in quel momento.” Decide di tirare alla sinistra del portiere, come ha sempre fatto. Sistema il pallone, fa tre passi indietro.
Il fischio dell’arbitro squarcia il silenzio. La rincorsa sembra infinita. Il piede si appoggia sul pallone, ma qualcosa va storto. Il tiro esce centrale, troppo debole. Kouba si tuffa e para. In quel preciso istante, il mondo di Pedros si ferma. Non sa ancora che quel rigore ha appena tracciato una linea indelebile nella sua vita, dividendola in un prima e un dopo.
Il rigore successivo di Kadlec è una pura formalità. La Repubblica Ceca vola in finale, la Francia torna a casa. E Pedros inizia la sua discesa nell’inferno.

La discesa agli inferi
Il ritorno in Francia dopo Euro ’96 fu l’inizio di un incubo. Pedros non era preparato all’ondata di disprezzo che lo avrebbe travolto. Un errore dal dischetto si era trasformato in una condanna perpetua, una macchia indelebile sulla sua reputazione che nessuna prestazione successiva sarebbe riuscita a cancellare.
Il Marsiglia sembrava offrire una via di fuga. Un nuovo inizio, lontano da Nantes e dai fantasmi di quel maledetto rigore. Ma l’Olympique di quegli anni era una nave alla deriva, con ambizioni spropositate e una realtà ben più modesta. “Al Marsiglia, non lavoravo quasi…”, confessò Pedros anni dopo. Gli allenamenti erano blandi, l’atmosfera svogliata. Un ambiente tossico per chi avrebbe avuto bisogno di ritrovare se stesso attraverso il lavoro duro.
I fischi lo seguivano ovunque. Ad ogni tocco di palla, in ogni stadio, il pubblico gli ricordava quella serata a Wembley. Col tempo, Pedros aveva imparato a non sentirli più, o almeno così diceva. Ma quei fischi si erano insinuati nella sua anima, erodendo lentamente la sua fiducia, trasformando ogni partita in un supplizio.
L’undicesimo posto finale del Marsiglia fu solo la punta dell’iceberg. Pedros era diventato l’ombra del giocatore che era stato. Il suo tocco magico, quella tecnica che lo aveva reso speciale, sembravano svaniti. Non era più il principe di Nantes, ma un re decaduto, alla disperata ricerca di un regno che non esisteva più.
L’esilio e il tentativo di rinascita

La nostra Serie A degli anni ’90 era il palcoscenico più prestigioso del calcio mondiale. Il Parma di quegli anni rappresentava l’eccellenza: Buffon tra i pali, Cannavaro e Thuram in difesa, Chiesa e Crespo a terrorizzare le difese avversarie. Per Pedros poteva e doveva essere l’occasione perfetta per ricominciare, lontano dai fischi della Francia, in un campionato dove il suo talento avrebbe potuto rifiorire.
Ma gli allenamenti intensi del calcio italiano si rivelarono troppo per un giocatore ormai fragile, non solo fisicamente ma soprattutto mentalmente. Un infortunio muscolare alla coscia lo costrinse a lunghi periodi in infermeria. E quando finalmente tornava disponibile, la forma non era mai quella giusta, la fiducia sempre più erosa.
Il prestito al Napoli fu il punto più basso. “Una catastrofe…”, lo definì lui stesso. “In due mesi non ho giocato una singola partita.” Il Napoli di quel periodo era un club nel caos, che cambiava allenatori come si cambiano le stagioni. Pedros si ritrovò intrappolato in un limbo: troppo talentoso per essere dimenticato, troppo fragile per essere utilizzato.
Era diventato uno spettatore della sua stessa carriera, guardando dalla panchina mentre altri giocavano le partite che avrebbero dovuto essere sue. Il sogno italiano si era trasformato in un altro capitolo della sua personale discesa agli inferi, un’altra tappa di un viaggio che sembrava non avere fine.
L’ultimo valzer

Il ritorno in Francia con il Lione doveva essere l’ultimo tentativo di redenzione. Lo stadio Gerland gli offrì quell’affetto che cercava da anni, ma ormai era troppo tardi. Mentre i suoi ex compagni di nazionale conquistavano il mondo, lui era diventato uno spettatore privilegiato della loro gloria.
La Francia del ’98 alzava la Coppa del Mondo in casa, con Zidane – l’altro predestinato della sua generazione – che si consacrava leggenda. Due anni dopo, i Bleus conquistavano anche l’Europeo. Pedros guardava tutto dalla TV, con lo champagne che gli sapeva amaro in bocca, pensando a quanto vicino fosse stato a far parte di quella storia.
Le ultime stagioni della sua carriera furono un lento dissolvimento. Montpellier, Toulouse, Bastia: piccole tappe di un viaggio che lo portava sempre più lontano dai suoi sogni giovanili. L’ultima fermata fu in Israele, al Maccabi Ahi Nazareth, poi in Qatar all’Al-Khor. Un epilogo malinconico per chi era stato paragonato a Zidane.
Il calcio amatoriale francese fu l’ultima tappa, l’ultimo giro di valzer di una carriera spezzata in due da un singolo momento. Non c’erano più i riflettori, non c’erano più i fischi. Solo il pallone, come all’inizio, quando era un ragazzino che sognava di conquistare il mondo. Ma questa volta, il mondo era un posto molto più piccolo, molto più intimo. E forse, proprio per questo, finalmente più sopportabile.
La redenzione

Oggi Reynald Pedros ha trovato la sua dimensione come allenatore nel mondo del calcio femminile. Con l’Olympique Lyonnais ha vinto tutto quello che poteva vincere sia in patria che in Europa. Grandi soddisfazioni anche sulle panchine del Marocco e della Costa d’Avorio.
Pedros ripensa ancora a quel rigore sbagliato a Wembley, ma lo fa con più distacco e maturità. Ha superato quei momenti difficili che lo hanno tormentato per tanto tempo e usa questa esperienza per insegnare alle sue giocatrici che sia nel calcio che nella vita non bisogna farsi definire da un solo errore.
L’ex talento del Nantes, da cui tutti si aspettavano grandi cose come calciatore, si è reinventato come allenatore e mentore. E in questo nuovo ruolo sembra aver trovato la sua vera vocazione e la serenità che cercava.
