Carlo Petrini: “Ecco come ci drogavano”

“…Ormai sono nel giro e tiro avanti a infiltrazioni, pillole, flebo. Raschio dal barile quanto resta, le ultime energie. Il calcio è una roulette pazza, chi va in disgrazia non rimedia soccorritori”

(Nota: intervista rilasciata al Corriere della Sera il 7 dicembre 1998. Carlo Petrini è morto il 16 aprile 2012)

Ha vissuto quasi vent’anni da globetrotter del pallone per finire, a 50 anni,solo, in un sottoscala, dentro la monocamera di un amico di gioventu’ che non chiede nulla. Qui parla, pregando il cronista d’ evitare particolari: una citta’ qualsiasi, uno scenario avvilente, un alloggio provvisorio che deve restare sconosciuto ai creditori; forse gli stessi che lo braccavano quando suo figlio Diego era ricoverato agonizzante all’ospedale Galliera di Genova. Lui sa tante cose. Lui dice che, rispetto ai suoi tempi, “e’ roba da ridere l’abuso contemporaneo dei farmaci nello sport”. E che s’ e’ ridotto cosi’ praticamente senza accorgersene “perche’ ad un tratto diventarono normali certe pratiche nelle mie squadre d’appartenenza“.

Quali sono i motivi di questa ritardata denuncia? “Ho cambiato pelle dalla morte di Diego. Tumore al cervello. Porto dentro il rimorso di non averlo visto vivo: ero fuggito in Francia nel 1989, spaventato dalle minacce di gente pericolosa, dopo il fallimento di alcune finanziarie che si sono mangiate anche i risparmi della mia attivita’ professionistica“.

Quanto?
Miliardi. Un pacco di quattrini buttati via, poi una villa a Catanzaro e altri immobili sacrificati nella voragine del dissesto. Fossi arrivato accanto a Diego, avrei rischiato la pelle e, soprattutto, messo a repentaglio l’incolumità della moglie e degli altri due figli. Oggi me ne pento e i guai servono paradossalmente ad alleggerire gli incubi. Sto diventando cieco a causa di due glaucomi. Prima sono stato rovinato dalle donne? Prima cercavo l’impossibile, sicuro di non sbagliare mai, di poter vivere impunito, al di fuori d’ogni regola. Centravanti nato, avevo talento e avrò realizzato un centinaio di gol, fra A e B, senza fare un sacrificio lecito per il football“.

Cominciamo dal Genoa, la società che lancia Petrini.
Sono figlio d’un muratore e d’una casalinga. Mio padre è morto a quarant’anni, tetano. Anche l’unica sorella morì sedicenne di diabete. Sembrava andare meglio a me: proveniente dal vivaio, entrai in prima squadra il 6 gennaio 1965, Genoa – Pro Patria di serie B. Tuttavia i fatti strani arrivano nella stagione successiva, allenatore G.G. e, vice, mister V. Perdevamo spesso e occorreva qualche soluzione per risalire in classifica. Allora qualcuno in società prepara le punture “rigeneranti”. Sono iniezioni di non so quali sostanze associate; il liquido prevalente, all’interno della siringa, è rosso acceso. Noi accettiamo le siringate durante la settimana e prima d’ogni partita. E’ per il bene del Genoa. Ricordo che nel ritiro di Ronco Scrivia le dosi aumentarono, ci iniettavano queste sostanze una volta al giorno. Ricordo Giuliano Taccola, bianco come un cencio e poi paonazzo al termine d’una partita di quel tormentato campionato. Era adagiato sul lettino dello spogliatoio e, tutt’intorno, noi compagni avevamo paura. Respirava a fatica. Giuliano, passato alla Roma, morì circa due anni dopo. Noi eravamo paurosamente bombati: al confronto, creatina e ormoni della crescita diventano caramelle“.

E i controlli antidoping?
I medici preposti alle pipì avevano zero possibilità di scoprire i nostri imbrogli. Avevamo pronti tre accappatoi con doppia tasca e facevano pipì in una provetta da clistere quelli che non giocavano. Chi doveva presentarsi, nascondeva la provetta sotto l’accappatoio e ne spremeva il contenuto nel barattolo federale. Nessun medico, finchè sono rimasto in attività, avvertì l’obbligo d’accertare, da vicino, cosa cavolo combinassimo nel ripostiglio, davanti al rubinetto dell’acqua. Nessuno controllava gli accappatoi e, spesso, allungavo la pipì con l’acqua per sbrigarmi. Come gli altri. E la buffonata dura da decenni, mi risulta che poco o niente sia cambiato“.

Poi la stagione degli spareggi per evitare la C. Giusto?
Sì, il Genoa s’affida prima a F. e poi quindi a C., senza fortuna. L’annata disastrosa ci porta agli spareggi: quattro squadre che hanno due posti per salvarsi dal baratro. E’ giugno inoltrato: tornano a somministrarci un cocktail di farmaci, tenuto dentro bottigliette rotonde di vetro, con tappi adatti per l’aspirazione della siringa. Era già successo durante il campionato, sul neutro di Ferrara, dove disputammo Verona – Genoa. In quell’occasione, avevano scelto cinque di noi, cinque cavie. Il liquido era chiaro, filature gialle e rosse. Ci siringarono un’ora prima dell’inizio della partita e ci raccomandarono di fare un riscaldamento lento, senza scatti. Dopo venti minuti mi scoppiò il fuoco in corpo, ero un assatanato che, saltando, arrivava al soffitto dell’androne dello stadio ferrarrese, alto quasi tre metri. In campo ci ritrovammo trasformati, saltavamo addosso agli avversari con la lingua gonfia e una bava verdognola attaccata alla bocca. Credo non cambiassero nemmeno gli aghi delle siringhe. Di certo, le “bottigliette miracolose” non erano sterilizzate. Passavano il batuffolo di cotone, imbevuto in un pò d’ alcool e ci facevano la puntura. Così, pieni di propellenti, arrivavamo pure dove non si poteva, ignorando la soglia della fatica. Scatenati, inesausti e insonni fino alle quattro – cinque del mattimo. Infine stremati, dentro a un bagno di sudore“.

Il primo spareggio è Genoa – Venezia, 36 gradi dentro lo stadio di Bergamo. Qualche retroscena inquietante?
In quell’occasione un mio compagno volle esagerare: una siringata prima del via e un’altra, identica, durante l’intervallo. Beh, schierato accanto a me, prendeva botte, si proponeva e reagiva senza un attimo di respiro. Pareva Pelè, un drago. Il suo cuore arrivava a un livello pazzesco di battiti e accelerava sempre. Restammo in B, ma per fortuna saltai gli ultimi tre spareggi per infortunio. Fu un bene, mi venne risparmiato l’avvelenamento totale subito dagli altri. Più tardi, li mandarono a San Pellegrino per disintossicarsi; successivamente, ritenuti cotti e inservibili, vennero ceduti nelle categorie inferiori. A me toccò il Milan, collocazione prestigiosa“.

Petrini, a quel punto lei era a un passo dalla gloria. O no?
Purtroppo no, la partenza fu difficoltosa. Bloccato da uno strappo alla gamba destra, mi sottoposi ad interminabili sedute di Rontgen terapia. La stessa di cui parla Saltutti, quando accenna alle radiazioni che avrebbero provocato la leucemia di Beatrice. Mi sono venuti i brividi. Terapie a parte, nel Milan ho avuto la sensazione di recuperare un pò di normalità. Certo, realizzai appena due reti per dieci presenze, ma partecipai alla vittoria rossonera in Coppa Campioni. Nereo Rocco mi stimava, mi ripeteva che cambiando testa avrei sfondato. Giocai a Malmö, contro gli svedesi. E nella domenica seguente non ci fu nessun controllo antidoping per il Milan. Era una prassi sottintesa per le formazioni italiane impegnate in Europa durante la settimana“.

Il declino parte da Varese?
Ero stato operato di menisco al ginocchio destro e nel nuovo ambiente trovai un dottore, medico di fiducia d’uno straordinario campione. Arrivò a praticarmi tre infiltrazioni quotidiane nella caviglia, visto che mi ero anche procurato una grossa distorsione nel ritiro precampionato. E poichè il ginocchio sotto sforzo si gonfiava, le infiltrazioni diventarono quattro per due settimane consecutive. Non so quale mistura mi rifilasse; so che ora quando cambia il tempo mi riprendono dolori lancinanti alle caviglie e alle gambe. E che in Francia mi è stato diagnosticato un glaucoma che s’è divorato l’occhio sinistro. Anche l’altro bulbo oculare è pressochè distrutto per lo stesso motivo. L’ho appreso nel 1989, a 41 anni. Ora non posso guidare, nè attraversare una strada al tramonto. I medici francesi mi riferirono che questa malattia, causata dall’incremento della pressione interna, colpisce in genere i vecchi, gli ultrasettantenni. Possibile che le numerose visite d’idoneità professionale non abbiamo riscontrato niente? Squalificato per colpa del Totonero, ripresi dopo quarantadue mesi fra Rapallo, Cuneo e Savona. E, probabilmente, i miei problemi dipendono da tutte le porcherie ingurgitate, compresi chili di Micoren, ora proibito dai regolamenti. A Varese si erano inventati una ricetta contro il freddo invernale. Prima della gara, prendevamo due o tre palline di Micoren più un caffè con dentro due aspirine tritate. Il dottore ripeteva che in questo modo portavamo a temperatura giusta i muscoli e avremmo stracciato gli avversari intirizziti“.

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I romanisti apprezzarono il bomber Petrini. Fuggì presto la stagione 1975-76.
“Nella Roma funzionai abbastanza. Ma anche lì, se volevi una probabilità di trovare posto in squadra, dovevi sottoporti alla rituale flebo del sabato. Il massaggiatore m’avvertì in fretta: “Guarda che è nelle nostre abitudini e non puoi sottrarti alla regola…”. A Roma conobbi tante donne e spesso, a poche ore dall’impegno, mi accadeva di fare l’amore in qualche albergo. A Roma basta indossare la maglia giallorossa e tutti s’inginocchiano“.

Fu a Cesena il suo primo turbamento.
Ero agli sgoccioli, vado all’ospedale civile per il chek-up di prassi e l’onestà d’un sanitario mi toglie il sonno. Mette a confronto due lastre e mi fa vedere come dovrebbe essere il ginocchio d’un trentenne. Accanto c’è la radiografia del ginocchio d’un ottuagenario; proprio il mio ginocchio scassato. Ormai sono nel giro e tiro avanti a infiltrazioni, pillole, flebo. Raschio dal barile quanto resta, le ultime energie. Il calcio è una roulette pazza, chi va in disgrazia non rimedia soccorritori“.

Ecco perchè Petrini affonda senza gridare aiuto.

La Scheda

Carlo Petrini, nato a Monticiano (Siena) il 29 marzo 1948, morto a Lucca il 16 aprile 2012
Dalle giovanili del Genoa, l’avventura professionistica ai vertici del calcio italiano come centravanti: al Milan di Nereo Rocco (1968-69), al Torino (1969-71), al Varese (1971-72), al Catanzaro (1972-74), alla Ternana (1974-75), alla Roma di Nils Liedholm (1975-76), al Verona (1976-77), al Cesena (1977-79), e approdò infine al Bologna (1979-80). Nella primavera del 1980 risultò coinvolto nello scandalo del calcio-scommesse: a Petrini venne inflitta una pesante squalifica che in pratica mise fine alla sua carriera.