Pietro Paolo Virdis: andante con gusto

«L’allenatore è un mestiere bello e difficile. Forse ho sbagliato a non cominciare subito. Forse ho perso qualche coincidenza. Fa niente, la vita è lunga e io me la sono sempre goduta»


Adagia su una mano una bottiglia di rosso. «Un Turriga ottenuto dallo splendido assemblaggio di uve Carignano, Bovale sardo, Cannonau e Malvasia nera».
Pietro parla di vitigni autoctoni sardi. E piemontesi, friulani, toscani. Parla di uvaggi e alimenti. Di cibo, salute, cucina, bere. E gusto. E i suoi occhi brillano.

Un negozio, Il gusto di Virdis. Quaranta metri quadri, soft, alimenti e «vini importanti».
Due gigantografie per arredamento, un assemblaggio di immagini in movimento, gesti atletici, colpi di testa, braccia al cielo e baffi neri. Il calciatore Pietro Paolo Virdis con maglia del Cagliari. Con quella della Juve. A Udine con Zico, al Milan con Van Basten. «Sono ricordi dolci», dice. Il negozio è stretto ed elegante. Entra una giovane signora scura con dieci euro in mano. «Volevo una buona bottiglia per un regalo, posso spendere questi». Pietro alza la testa, si liscia la barba bianca di cinque giorni e cerca il vino giusto.
Si diverte a sistemare le bottiglie e gli altri prodotti. E’ in maniche di camicia, usa il computer, mostra cataloghi. «Io sono sardo, mia moglie Claudia piemontese. Una grande, vecchia passione: la cucina e i vini. Andavamo in giro ad assaggiare cibi e prodotti. Poi ci siamo detti: “Perché non facciamo una cosa nostra?”. L’ abbiamo fatto. Spero con gusto…».

Juventus - Foggia 6-0, Virdis contrastato da Sali
1977/78, Juventus – Foggia 6-0: Virdis contrastato da Sali

L’accento sardo è fortissimo, non ha perso niente. Ha vinto tanto. Ha vinto anche qualche braccio di ferro. «Anche le malattie, nei primi anni è stata dura». Ci sediamo vicino alla piccola cassa.
I clienti si fermano, scrutano, entrano, toccano. Pietro si alza e parla e spiega la tecnologia di lavorazione della bottarga. Dice che è un alimento molto antico. Ci sono testimonianze del suo utilizzo da parte dei fenici, i primi a salare e stagionare le sacche ovariche dei muggini, i cefali. Poi dei cartaginesi e dei romani. Si risiede e parla di calcio e di quel «no» alla Juventus. «Si sono dette tante cose sul rifiuto…».
Nel 1977 Giampiero Boniperti parte per la Sardegna per convincere il giovane attaccante del Cagliari ad accettare il trasferimento. «Ma no, ma no. Si è favoleggiato…».
Non è venuto in Sardegna, Boniperti?
«C’era già. Era a Santa Teresa di Gallura, all’hotel Moresco, in vacanza. E io scappavo per l’Isola… ».
Scappava? «Sì, il presidente Delogu mi disse: “Pietro, ti abbiamo ceduto alla Juve”. Io non ci volevo andare alla Juve, e il motivo era molto semplice: giocavamo in B, avevamo perso gli spareggi per la serie A, volevo rimanere nella mia squadra, nella mia città. Io sono nato per caso a Sassari, io sono di Sindia. Mio padre Pietrino era ispettore agrario a Cagliari, ero l’unico maschio della famiglia. Poi babbo è morto e io non me la sono sentita di andar via da Cagliari».
Si liscia la dura barba bianca di cinque giorni. «Anche Riva aveva detto “no” alla Juve. Ma quella è un’ altra storia. Io volevo continuare nella mia squadra che era stata la squadra di Riva. Poi la mamma mi ha convinto: “Pietro, vai, vai. Altrimenti non ti fanno più giocare”. Ci sono andato, mi sono ammalato, sono tornato e poi ripartito. Ero diventato un professionista».

Con la Juve vince due scudetti. Il primo con Boninsegna e Bettega, il secondo con Paolo Rossi. «Non sono stato bene. Prima la mononucleosi, poi i reumatismi articolari. Mi allenavo poco, era tutto molto difficile. Ma a Torino mi sono trovato bene, ho conosciuto Claudia, ci siamo sposati. Siamo stati bene dappertutto: eravamo felici, lo siamo, abbiamo avuto due bambini, Matteo e Benedetta. Ricordo l’ esperienza di Udine: che bella città, Udine. Veramente a misura d’uomo. Stavi bene per l’aria, per la gente, per la qualità di vita…».
Sorride: «C’era, c’è il buon vino, gli amici. Franco Causio ci è rimasto, è lì da più di vent’anni».

Una foto bianconera furlana. «Nel secondo anno c’era Zico. Poi il Barone, Edinho, Mauro, De Agostini. Un buon gruppo, una buona esperienza. Mi sono fatto male e il presidente Mazza ha fatto venire un elicottero che mi ha portato in Francia dal professor Bousquet. Un ambiente molto positivo. I ricordi saranno sempre dolci. Adesso l’ambiente non è cambiato, anzi sono cresciuti. Poi è arrivato il Milan, mi hanno chiamato e io non potevo dire di no. Il direttore sportivo a Udine era Ariedo Braida. Diceva: “Pietro, resta qui, facciamo una squadra ancora più forte”. Ero tentato, ma dall’altra parte c’era il Milan. Non potevo, ero stato alla Juve, non si poteva rinunciare».

Bottiglie, bottarghe, salse, spezie. E gol. Pietro Paolo va al Milan, c’è Liedholm che dice: “Virdis è molto intelligente, sa jocare al calcio. Per lui segnare è fascile». Pietro gioca con Rossi e Hateley, ma vince con Gullit. Con il Milan di Sacchi e Berlusconi. Pardon: di Berlusconi e Sacchi. Vince lo scudetto del sorpasso sul Napoli. A Napoli, primo maggio 1988, partita del contatto con il tricolore, l’uomo decisivo è ancora Virdis. Due gol. Aveva segnato anche nelle domeniche precedenti, a Roma e all’Inter.
Pietro sorride: «Indimenticabile. Come Van Basten, il più grande di tutti noi. Marco era entrato con l’Empoli, una partita destinata allo zero a zero. Segnò un gol strepitoso, quasi da fermo. Probabilmente quello della svolta».
Ricorda Sacchi e quella rivoluzione. «Con lui è veramente cambiato tutto. I metodi di allenamento, la gestione, persino le partitelle. Arrigo le ha fatte diventare tattiche. Non è stato facile, soprattutto per chi come me era già sui trent’anni, entrare in questa nuova concezione calcistica. Mettersi a rincorrere l’avversario, a fare pressing sui portatori di palla, sui difensori. Io ero un attaccante e l’ho fatto, ci sono riuscito e devo dire che quei metodi di preparazione mi hanno allungato la vita calcistica».
Il Milan è il suo secondo trionfo. Dopo il clamoroso scudetto, arriva anche la coppa dei Campioni. Pietro Paolo lascia Sacchi a trentadue anni e chiude al Sud, Lecce. Due stagione, la seconda sfortunata con i pugliesi retrocessi on serie B. «Lecce è una città splendida. Un po’ come Udine, anche lì eccellente qualità di vita. C’era chi mi chiamava maestro del gol. Forse perché avevo vinto una classifica dei cannonieri, o perché qualche gol mi era riuscito bene. Il vero maestro l’ho trovato io, a fine carriera: Carlo Mazzone. Una persona veramente gradevole e perbene. Mi ha insegnato molto, mi piacerebbe poter continuare a fare l’allenatore».
E’ stato a Catania con l’Atletico, poi alla Viterbese, poi la Nocerina dai colori rossoneri.
«L’allenatore è un mestiere bello e difficile. Forse ho sbagliato a non cominciare subito, come Ancelotti. Abbiamo fatto il supercorso insieme nel ’91, lui è andato a fare l’assistente a Sacchi, io mi sono preso un po’ di tempo per riflettere. Forse ho perso qualche coincidenza. Fa niente, la vita è lunga e io me la sono sempre goduta».
Con gusto.

Testo di Germano Bovolenta

Antonio Pietro Paolo Virdis (Sassari, 26 giugno 1957)

StagioneClubPres (Reti)
1973-1974 Nuorese25 (11)
1974-1977 Cagliari75 (24)
1977-1980 Juventus45 (8)
1980-1981 Cagliari22 (5)
1981-1982 Juventus30 (9)
1982-1984 Udinese45 (12)
1984-1989 Milan135 (54)
1989-1991 Lecce46 (8)