PLATINI Michel: il campione che volle farsi re

PROLOGO

Sognava, il ragazzino Michel. Come tutti quelli che hanno l’età per sognare. Inventava interminabili partite di calcio nel cortile davanti al bar del nonno, laggiù a Jouef. Il locale era pieno di italiani, perché nonno era arrivato in Lorena da Agrate Conturbia, provincia profonda di Novara, in cerca di fortuna. E dall’Italia erano arrivati in tanti, all’epoca, per lavorare nelle miniere della regione.
Sognava, il ragazzino Michel. Inventava sfide mondiali che naturalmente vinceva, perché con un po’ di fantasia si vince sempre. Il suo idolo si chiamava Pelé, e in mezzo al cortile Pelé era lui, lui e nessun altro. Per questo, ogni volta che gli capitava di dover firmare un pezzo di carta, si divertiva a storpiare il proprio cognome. Il ragazzino Michel si trasformava, si chiamava Platini e ogni volta diventava Peleatini.

Destino, certo che c’entra il destino. Le origini italiane, la dannata voglia di essere calciatore, di sentirsi calciatore. Il giorno che lo chiamarono in municipio, per ritirare la sua prima carta d’identità, alla voce “professione” scrisse proprio così: calciatore. L’impiegato comunale gli spiegò che quella non era una professione; l’impiegato sbagliava, eccome se sbagliava. Il ragazzino Michel non sarebbe mai diventato come Pelé. Era scritto che dovesse diventare Michel Platini e basta. Unico, come tutti i fuoriclasse. Diverso, nel suo modo di essere artista del pallone, così naturale da non farlo pesare, a volte nemmeno apparire. Non aveva il fisico, da bambino. I compagni di gioco lo chiamavano “ratz”, forma contratta di rase bitume, espressione lorena che significa, più o meno, rasoterra. Non aveva il fisico ma aveva la stoffa, il piccoletto. E grandi esempi da seguire. Quando aveva appena dodici anni, papà Aldo lo portò a Metz a vedere il grande Kubala, che ancora spargeva semi di classe immensa sui campi del calcio francese. Michel decise che quello sarebbe stato il suo modello, e si mise d’impegno.

Michel Platini ai tempi del Nancy assieme ai compagni Paco Rubio e Olivier Rouyer
Michel Platini ai tempi del Nancy assieme ai compagni Paco Rubio e Olivier Rouyer

NANCY E ST. ETIENNE

Cinque anni dopo, Michel Platini firma il primo contratto da professionista, a Nancy. Seimila franchi al mese, più o meno un milione e duecentomila lire. Debutto in prima squadra il 3 maggio del 1973, Nancy-Nimes 3-1. I primi gol, due, arrivano un paio di settimane dopo, Lione-Nancy 2-4. Il Nancy è una specie di famiglia, a due passi da casa. È un divertimento, fare il calciatore. Ma diventa mestiere, o arte, giorno dopo giorno. Cresce, Michel Platini. A dispetto di quel fisico che proprio atletico non è, a guardarlo bene. Muscoli pochi, e contro madre natura si può fare il giusto. E allora avanti con quei piedi magici, con la classe che non si insegna e non si impara, per sopperire a certe carenze. Cresce, Michel Platini, conquista l’affetto dei tifosi e l’attenzione degli addetti ai lavori.

La maglia della Nazionale, anche. Tra i ricordi, una marea di ricordi buoni, c’è anche quella specie di favola del debutto al “Parco dei Principi” contro la Cecoslovacchia. Il ragazzino Michel che si fa uomo, che un po’ si sente perso in quel posto pieno di gloria e di storia, ma come al solito non lo dà a vedere. Il destino corre, e ricorre. L’Italia di Michel è quella dei racconti del nonno, delle vacanze estive tra i parenti di Agrate Conturbia. Il futuro è ancora meno di un’ipotesi. Eppure, le strade si incrociano una prima volta l’8 febbraio del 1978, e sono dolori per gli azzurri: Michel batte due volte Zoff su punizione, due capolavori di quelli a cui ormai ha abituato i francesi e a cui abituerà gli italiani. Uno dei due gol viene annullato, l’altro invece vale il 2-2.

Stagione ‘77-78, il Nancy conquista la Coppa di Francia. Appena dopo la gioia, Platini fa le valigie. La chiamata è di quelle che non si rifiutano, arriva dal St. Etienne. È la consacrazione, e arriva subito dopo il Mondiale di Baires. Il St. Etienne è il motore del calcio transalpino, Michel Platini ne diventa il leader. Un indimenticato eroe di Francia, Raymond Kopa, lo consacra pubblicamente quale suo legittimo erede. Lo scudetto arriva nella stagione 1980-81, il pubblico stravede per il ragazzino diventato uomo e diventato campione, quello che non aveva il fisico e forse ancora non ce l’ha, ma non importa perché quando è laggiù, in mezzo a un campo di calcio, non si vede. Michel Platini è una favola vivente, è il brutto anatroccolo che si infila scarpe bullonate e calzoncini e scende in campo per recitare la sua parte di meraviglioso cigno.

JUVENTUS NEL CUORE

Improvvisamente, nella vita del campione che voleva tanto essere Pelé, entra l’Italia. Non è quella dei ricordi di bambino, delle vacanze estive, dei parenti lontani. È la Juventus, la Signora del calcio. L’avvocato Gianni Agnelli lo vede, lo stima, lo vuole. L’occasione, ancora una volta, è una sfida tra presente e futuro. Francia-Italia, 23 febbraio 1982. Ancora Parigi, ancora “Parco dei Principi” che evidentemente è una specie di portafortuna. È la più bella partita di Michel con la maglia della sua Nazionale, lo dice lui e bisogna credergli. Vince la Francia, segna Platini, s’innamora Agnelli.

Vecchia storia, quella dell’Avvocato che impone il campione francese alla truppa. Vecchia e più che mai vera. Accanto a Zibì Boniek doveva giocare Liam Brady. Invece arriva la stella del St. Etienne e l’irlandese se ne va alla Sampdoria. Illuminazione pura, quella del presidente della Fiat. E Boniperti, a tempo di record, chiude l’operazione.Costa 148 milioni, il passaggio di Platini alla Juventus. Anche questo è un record, perché nel tempo il suo acquisto si rivelerà un grande affare, anche sotto il profilo economico. Ma l’aspetto finanziario, per l’Avvocato, è l’ultimo dei pensieri. Lui ha scelto Platini perché Platini corrisponde esattamente alla sua idea di calcio. Divertimento, essenza del gioco, naturalezza. Affronta il calcio con la stessa eleganza, la stessa felicità con cui andrebbe affrontata la vita. È già Michel Platini, così unico e così irripetibile.

NON TUTTA FELICITA’

A conti fatti, se la strada fosse tutta ricoperta di petali di rosa la favola diventerebbe una poltiglia troppo zuccherata, difficile da mandar giù. La realtà è che anche i campioni soffrono. Alla legge non si sottrae neppure Platini, all’inizio del suo viaggio italiano. La sensazione è quella di andare a schiantarsi contro un muro di problemi. Quando arriva, è tormentato da noie muscolari che gli impediscono di dare il massimo in campo. E l’Italia del pallone lo mette in discussione.

Nei primi mesi a Torino coltiva quella specie di idiosincrasia alle critiche, alle domande indiscrete, ai processi, alle “pagelle”. I giudizi, dice, sono troppo legati alla casualità. Di sicuro contrastano con il suo modo di interpretare il calcio, che è spettacolo puro, spettacolo e basta. È dura, la partenza. Abbastanza da alimentare pensieri di rinuncia. Certo che ci pensa, Michel, a mollare tutto; ma poi va avanti per la sua strada. Perché un ritorno in Francia sarebbe una sconfitta. Meglio isolarsi, piuttosto. Poche interviste, pochi discorsi. Fatti, non parole.

Il vento gira, apparentemente all’improvviso. Invece, dietro alla consacrazione di Michel Platini c’è un lavoro enorme. Si è abituato così, forse per quella faccenda del fisico. Lavorare duro per sopperire a quello che la natura non ha elargito. E poi scendere in campo per trasformare tutto quel lavoro in leggerezza, in allegra spontaneità. Michel Platini comincia a guidare palloni e uomini, a imporre il suo pensiero, a dirigere. A segnare, anche.

Capocannoniere del campionato per tre anni di fila, lui che attaccante puro non è, non canonico almeno. Regista che inventa idee per lanciare a rete i compagni, e se i compagni non raccolgono la trova da solo, la via del gol. Perfezionista che studia mille e mille volte in allenamento quel magico, incredibile tiro di punizione dal limite dell’area, perché l’arte va coltivata con l’esercizio, anche se poi al momento della recita sembra semplicemente genialità e improvvisazione.

Anche la felicità è inesplosa. Fatta di sorrisi, non di risate. Di lieve malinconia, di sfumature. La felicità è la Juve, “quella” Juve. La Juve di Platini. Due scudetti (1983-84 e 1985-86), la Coppa Italia nell’82-83.E poi i successi internazionali. Una Coppa delle Coppe, un Mundialito, una Intercontinentale, una Supercoppa Europea. E Michel viene incoronato imperatore del calcio: vince tre volte in fila il Pallone d’Oro, dall’83 all’85. Manca qualcosa, nell’elenco. Il trofeo più desiderato, più atteso dalla Signora del calcio. Ci voleva Michel Platini, per guidare la Juventus alla conquista della Coppa dei Campioni.

Il 29 maggio dell’85 c’è la finale contro il Liverpool, a Bruxelles. Dovrebbe essere ricordata come la notte della festa infinita. Passa alla storia come la notte della tragedia, della follia, della morte assurda. Poco prima della partita, gli hooligans inglesi vanno all’assalto dei tifosi italiani. La gente, impaurita, cerca vie di fuga impossibili. Restano trentanove corpi senza vita, sugli spalti del vecchio stadio Heysel. Sul campo, i giocatori di Juventus e Liverpool giocano immersi nell’incubo. Hanno deciso di giocare perché in quel momento è l’unica scelta possibile. Michel Platini, come tutti quelli che hanno vissuto quelle ore d’angoscia, esce profondamente segnato dall’esperienza. Forse più di altri si interroga sul senso di ciò che è successo. Porta la sua Juve nella storia, ma non ha tempo nè voglia di far festa.

Non è finita, l’epopea del campione. Ma nelle ultime due stagioni torinesi l’antidivo Michel guadagna spazio sul fuoriclasse Michel. Nei pensieri, nei comportamenti. C’è ancora spazio per l’ultimo scudetto, per la Coppa Intercontinentale, per gli applausi di un’Italia che finalmente gli è entrata nel sangue, così passionale e sanguigna, così diversa da lui ma – proprio come lui – così unica. Nelle ultime due stagioni torinesi, e italiane, si consuma l’addio. Almeno nella sua testa. La data ufficiale resta scritta negli annuari del calcio: 17 maggio 1987, Juventus-Brescia si conclude sul 2-1 e finisce alle 17,47. Il campione esce dal campo per l’ultima volta. In Italia, con la maglia della Juventus, ha giocato 222 partite e segnato 103 reti, tra campionato e coppe. Ha vinto due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe, un Mundialito. E tre volte il Pallone d’Oro. Ce n’è abbastanza per entrare nella leggenda.

UNA FAVOLA BLU

Un capitolo a parte. Michel Platini, figlio di figli d’italiani, non ha mai dimenticato il suo Paese. Ha dato tanto alla Nazionale francese, ha attraversato gioie grandi e delusioni infinite. Con quella maglia ha raggiunto un traguardo storico, il titolo europeo del 1984, primo grande trofeo in ottant’anni di storia del calcio di Francia. Ha partecipato a tre avventure mondiali, una delle quali (Messico 1986) aspettava la Francia in un ruolo da primattrice. Delusione grande, il terzo posto messicano. Paradossalmente, molto più del quarto posto ottenuto quattro anni prima in Spagna. Delusione per Re Michel, soprattutto. Che ha realizzato i suoi sogni di bambino, che è andato oltre perché voleva diventare come Pelé e invece è diventato Platini, un campione uguale solo a se stesso. Ma uno di quei sogni è rimasto là, irrealizzato, sotto le stelle del Messico.

L’altra avventura in Nazionale è quella di Platini nelle vesti di Commissario tecnico. Partito in salita, con una sconfitta (18 novembre 1988, Belgrado, Jugoslavia-Francia 3-2), arrivato in salita, con un’altra sconfitta (17 giugno 1992, Malmö, Danimarca-Francia 2-0). Battute d’arresto che lasciano il segno: la prima è una secca battuta d’arresto sulla strada che porta a Italia 1990, e infatti alla fine la Francia resta ai margini della festa. La seconda corrisponde alla delusione forte dell’Europeo svedese. Dopo Malmö, Platini si alza dalla panchina francese e se ne va. Non sbatte la porta, non è nel suo stile, ma è evidente l’amarezza per non essere riuscito a trasmettere all’ambiente – stando seduto in panchina – le sue idee sul calcio. L’annuncio dell’addio alla Nazionale del Ct Platini arriva come una doccia fredda nel giorno della festa. È il 2 luglio del 1992, la Fifa ha appena deciso che la Francia sarà la sede del Mondiale ‘98.

Il resto non è più storia, è cronaca che brucia e si consuma giorno dopo giorno.”Le Roi” Platini guida il comitato organizzatore del Mondiale francese del 1998. Dice che gli anni juventini gli sono serviti anche a questo. Che da Trapattoni ha imparato a stare in panchina, da Boniperti a stare dietro una scrivania. E non può nemmeno stupire la sua recente elezione alla massima carica dell’UEFA, primo ex calciatore a sedersi a quella scrivania. E l’UEFA adesso è il suo presente e futuro, è la vita quotidiana scandita dalle venti sigarette al giorno che non sono neppure una novità, sono le stesse che fumava ai tempi in cui faceva l’artista in campo.

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In questa interessantissima intervista d’epoca del Guerin Sportivo, tutti i retroscena del sua trasferimento in Italia e di come l’Avvocato lo conquistò…

Dalle strade di Joeuf ai tre sandwich di Boniperti lungo la «vie en rose» di Nancy e Saint Etienne, i «coups francs», un cane più bravo di Zoff, il nonno piemontese, la cugina di Novara

SAINT ETIENNE. In principio, nella vita di Michel Platini, «Le platine» come dicono i francesi, «il platino», c’è un cane. Poi c’è la saracinesca di un garage. E quindi, c’è un palo della linea telegrafica Nancy-Metz. «Il cane si chiamava Fufi ed era il cane di mia cugina Stefanina che sta in Italia», ricorda Michel. Passeggiamo sulla «pelouse» dello stadio «Geoffroy Guichard», che è il campo di calcio di Saint Etienne, tettoie in lamiera, seggiolini multicolori, la ciminiera fumante di una fabbrica di bottiglie da un lato. Vetri e bottiglie, e il carbone, sono la ricchezza di Saint Etienne. «Fufi è stato il mio primo portiere». Michel è di buon’umore. «E la saracinesca del garage vicino alla casa in cui abitavo, a Joeuf, è stata la mia prima porta di calcio». Ha buoni e simpatici ricordi, Michel, e la mattina a Saint Etienne è piena di sole. «Il palo del telegrafo, poi, mi serviva per prendere la mira. Naturalmente, sto parlando di tiri col pallone. E di quando avevo sette anni».

JOEUF E IL NONNO

Joeuf, cinquanta chilometri da Nancy, è un paese di minatori, case grigie, strade bitumate, e alla Rue Saint-Exupery, numero sette, un giorno di giugno nasce Michel, è l’anno 1955. «Mio nonno era italiano, piemontese di un posto di collina vicino Novara, faceva il muratore e venne a cercar fortuna in Francia. Vennero lui, due fratelli e due sorelle, e si sistemarono a Joeuf. Mio nonno si chiamava Francesco ed era veramente un grand’uomo. A Joeuf è nato mio padre e sono nato io, ed è nata mia sorella Martina. Questo è stato l’inizio». Michel racconta con un certo gusto. Dei Platini solo nonno Francesco ebbe la forza di restare a Joeuf. Gli altri suoi fratelli tornarono sotto il cielo più benevolo delle colline novaresi. Mettendo su mattoni, Francesco Platini (ancora senza accento sulla «i») fa un gruzzolo di vecchi, benedetti franchi e si compra un bar. E’ «le Café des Sports» di Joeuf. «Mio nonno era patito di calcio, non poteva comprare che quel caffè, il bar degli sportivi di Joeuf».

UN «GAMIN»

«Nella mia vita c’è stato subito il pallone. Mio padre è un vero intenditore di calcio. Sarebbe diventato un grande giocatore – dice il figlio. – Giocava a centrocampo, milieu de terrain, ma volle rimanere un amateur, un dilettante del calcio. Finì col fare l’allenatore nel tempo libero. Quando smisi di centrare il palo del telegrafo ed ebbi undici anni e firmai il primo cartellino per il Jovicienne di Joeuf, lui è stato il mio maestro. Se sbagliavo uno stop, mi faceva fare venti giri di campo. Era meglio tirare il pallone a Fufi il cane». A proposito di Fufi, un giornale parigino ha scritto che «il grande portiere italiano Dino Zoff avrebbe fatto bene a conoscere Fufi, il cane dei Platini, perchè Fufi era capace di prendere quei palloni che Zoff non è riuscito a prendere». Dunque, Platini. Nato col pallone, un disastro a scuola. È un vero «gamin», un monello. C’è un abate Pieron di un collegio di Briey che se lo ricorda ancora. E un monsieur Deremble, direttore del collegio, ha dichiarato a un giornale di Nancy, nel coro dei commenti alla partenza di Michel Platini «pour l’Italia», che star dietro allo scolaro Platini «era una faccenda scioccante». «Beh, insomma, non stavo fermo un minuto», dice Michel.

INSUFFICIENZA CARDIACA

La verità è che Michel Platini era un discolo. La sua giovane insegnante di inglese e l’autista dell’autobus sul quale Michele saliva per andare a scuola, un certo Parachini, ne sapevano qualcosa. Parachini però era un duro. E se Michel sull’autobus esagerava, Parachini frenava brusco e diceva a Michel di scendere. Più volte il «petit Platini» si fece a piedi da casa a scuola, sei chilometri. Quasi Gian Burrasca. Agli insegnanti che lo rimproveravano, lui replicava: «Vous verrez quand je serai champion». È stato di parola.
«A quattordici anni – mi racconta Michel – vado a Parigi, finale del concorso per i migliori giovani calciatori di Francia. Allo stadio di Colombes c’era un vento cane. Non riuscii a toccare e a giocare un solo pallone buono. Mi offrirono un biglietto per andare sulla Senna in battello e uno per andare a vedere la Torre Eiffel. Gli altri ragazzi rimasero allo stadio a giocare al calcio, a me consigliarono di fare il turista».
Era il maggio del 1969. Non andò meglio a Metz. «Diciassette anni, andai a fare un provino. Visite mediche. Mi misero davanti ad uno spirometro. Un tipo mi dà un tubo e mi dice: soffiaci dentro. Soffiai, ma cautamente. Il tipo mi dice: soffia più forte. Io riprovo. Quello fa: ancora più forte. Non so come, forse l’emozione, io soffiai forte e persi i sensi. Mi dissero che l’ago rivelatore aveva segnato tre litri d’aria, che era una capacità polmonare fiacca e mi liquidarono con una bella sentenza: insuffisance cardiaque».

NANCY, LA SUA CITTÀ

E, poi, Nancy. Comincia la «vie en rose» per Michel Platini. Egli è un giovane promettente calciatore che ha soltanto una palese incomprensione con gli spirometri. Bocciato a Metz, lo richiedono il Sochaux e il Sedan, persino il Charleroi dal Belgio. Ma Aldo Platini ha amici a Nancy, per esempio Hervé Collot, ex «capitano» della squadra lorenese. È un buon passepartout. Michel è del Nancy. Metz, la squadra di Nestor Combin, non è più una nostalgia. «E a Nancy conosco Claude Cuny». Sembra uno qualunque. Invece, Cuny è il presidente del Nancy e, quel che più conta, è l’uomo che inventa per Michel le famose quattro sagome azzurre di plastica con le quali il figlio del professore di matematica e intenditore di calcio Aldo Platini perfeziona il suo «coup frane», il suo calcio di punizione, quello che il cane Fufi riusciva a parare e che risulta essere una «chance» di famiglia perché già il calcio di punizione di Aldo Platini, il padre, era una grossa cosa. Quando parla dei suoi anni a Nancy, Michel Platini fa gli occhi dolci e la voce sentimentale. «Nancy est ma ville et elle le resterà encore après le football. I’y reviendrai, c’est sur». La neve a Nancy, le inferriate rosse di Nancy, la Place Stanislas di Nancy, il pubblico dello stadio «Marcel Picot» di Nancy, gli amici, Olivier Rouyer «la freccia del Nancy» e Francisco «Paco» Rubio, e la pizzeria «Capri». Che tempi, a Nancy!

UN NANO

Una delle cose più buffe che mi ha raccontato Platini è quando per guardare nonno Francesco e i suoi fratelli doveva «alzare gli occhi parecchio». «Loro erano dei giganti ed erano buoni per giocare a basket-ball, ma io proprio non crescevo mai, e in casa mi chiamavano “le nain”. Je devais toujours lever la tire pour les regarder. Ma per fortuna, un anno, venni su di colpo di dieci centimetri». Indubbiamente, deve essere stato uno dei migliori anni di Platini. Ma, poi, questo Platini «nanin» (oggi un metro e 78) era ugualmente un fenomeno sportivo. Dai ricordi del padre: «A dodici anni lo metto in un kavak sulle onde lunghe dell’Atlantico in Bretagna, a Perros Guirec, bella stagione balneare. Comme par enchantement, il trouve immédiatement le style du spécialiste». Alla pallavolo, alla pallamano, al basket, al tennis Michel Platini di primo acchito ha sempre lo stile dello specialista. Diciamo che, in ogni sport dove c’è una palla, Michel non è mai in difficoltà. E sulle piste ghiacciate del pattinaggio? Anche là, un fenomeno. Aldo Platini non si entusiasma facilmente per il figlio: dice le cose come stanno. E quando dalla barca lo buttò per la prima volta in mare? «Un poisson dans l’eau!», un pesce. Ecco che cos’è Platini. Sulla spiaggia di Perros Guirec, nella dolce Bretagna, Michel palleggia a piedi nudi come i brasiliani. E’ uno degli esercizi in cui lo allenava particolarmente il padre. Non hanno prodotto caviglie infrangibili: quella sinistra di Michel ha fatto due volte trac (è scritto nella «sèrie noir» degli infortuni, sei, di Platini).

TREMARELLA

Da giocatore professionista il nostro Michel debutta a Nancy un giorno di maggio, contro il Nimes. Gli danno la maglia numero undici, Kuzowski il titolare è infortunato, e gli dicono di stare avanti. Stagione 1972, Michel ha 17 anni. «Quel trac!», dice. Che tremarella! Per venti minuti non tocca palla. «Non vedevo niente, mi si era appannata la vista. Per me fu un giorno di nebbia. Eppure c’era un gran sole». Passata l’emozione del debutto (Platini si diventa dopo), Michel fa due gol nelle successive due partite, contro il Sedan e contro il Lyon. Le cose si mettono bene, la tremarella non ci sarà più. Comincia «la leggenda». Devono però saperne poco a Bastia, dove notoriamente vive gente cattiva, perché, là, la leggenda-Platini viene presa a sputi e a insulti. Qualche fischio ci sarà a Saint Etienne anche dopo che Platini è diventato un idolo da queste parti, ma – si sa – anche gli idoli vengono fischiati qualche volta. Mentre con la maglia verde – «Les verts» – del Saint Etienne vola verso una finale europea, sfonda anche in nazionale, chiamatovi da Hidalgo, e «France Football» lo definisce «la locomotiva che conduce i francesi ai mondiali». Con Hidalgo ha un piccolo scontro di opinioni: quello vuole farlo giocare centravanti, Michel si sente un «milieu de terrain», un centrocampista. Vince Michel, il match è chiuso. «Sono pazzo di gol – mi dice Platini – ma non sono un centravanti. Io parto da lontano, mi inserisco. Ho sempre ammirato i registi. Da ragazzino, i miei idoli erano Rivera e Mazzola. Poi, ho ammirato Guillou. E ci ho giocato insieme, con soddisfazione».

NAPOLI

Il giorno che gioca a Fuorigrotta con la nazionale, prima dei «mondiali» in Argentina, Michel Platini aggira Zoff con due dei suoi «coups francs», punizioni, e scopre nel tiepido pomeriggio napoletano di febbraio che cos’è il tifo in Italia. Egli però ha modo di dichiarare: «Sono francese e mi sento tale. Stimo l’Italia, ma io non sono italiano». Ora, dopo aver firmato per la Juventus, rifiutando una eccitante contemporanea offerta del Paris Saint Germain, Michele Platini corregge il tiro e declama: «Parigi è Parigi, ma la Juve è la Juve». D’altra parte, suo nonno non era piemontese? E la cugina Stefanina non vive ad Agrate Conturbia, su una collina a trenta chilometri da Novara, e non lo chiama forse «Michelino», «il mio cugino Michelino, francese sì, ma il nonno era di qua»? Lascia la Francia perché il calcio francese non gli dice più nulla. L’ho visto intervenire molto regalmente la sera dell’ultima giornata di campionato qui, a Saint Etienne, quando tutti «les verts» correvano come matti e segnavano gol a gettoni nel vago-sognato-impossibile-inutile tentativo di sorpasso al Monaco per il titolo e lui, Michel Platini, toccava di grazia ma senza scomporsi essendo proprio di un altro pianeta, non un postino del pallone, ma un artista. Nel dramma della serata per un titolo già perduto, segna due gol da re e un terzo pallone mette dentro la gruviera del portiere di Metz Ettori (mai nome glorioso è stato tanto mortificato: nove gol nella sera di Saint Etienne) con un delicato colpettino di mano, annullato, da gran giocoliere del Circo di Mosca.

MICHELINO E PABLITO

Certo, sarà una bella coppia quella di «Michelino» e «Pablito» per una Juve di tutte stelle. Saint Etienne non ha fatto cose folli per l’ultima partita di Platini con la maglia biancoverde, e c’erano solo 17 mila spettatori sotto le tettoie in lamiera del «Geoffry Guichard» la sera degli ultimi due gol di Michel. Mi ha spiegato Gerard Simonian, chef du sport de «La Tribune» mangiando una pizza napoletana al ristorante di Mario D’Angelo, siciliano trapiantato qui da venticinque anni, amico di tutti i giocatori del Saint Etienne: «Il fatto è che nel Saint Etienne ci sono, oggi, un sacco di casini e nessuno ha voglia di organizzare feste, neanche per uno che si chiama Platini». Però Mario D’Angelo, «chez Mario», che ne sa una più del diavolo, mi confida: «Non c’è più grande entusiasmo per il Saint Etienne. Questa non è una grande squadra. Io mi ricordo quella di Larqué, di Bathenay, di Synaeghel. E, qui, una sola festa si è fatta: per Piazza l’argentino. Una favola era quell’uomo, veniva a giocare a bocce sul marciapiede del ristorante, e tiravamo le tre di notte, giocandoci la birra. Poi, era sempre il migliore in campo». La festa a Platini si farà in settembre: la Juve verrà a giocare in amichevole e mostrerà Michel in maglia bianconera per i rimpianti e i sospiri dei «platinois» di questo delizioso posto della Lorena neanche sporcato dal gran carbone che produce.

TESTA A TESTA

C’è un infortunio nel vostro futuro. Sembrò lo slogan di Platini fra gli anni ’72 e ’76. Due volte gli saltò la caviglia sinistra; una volta si ruppe una mano e una volta un braccio; gli hanno tirato fuori, inutile e fastidioso, un menisco. Ma storica è rimasta la grande capocciata con Tresor, un kappaò spettacolare, lo stadio ammutolito. «Mi hanno chiesto spesso dei miei infortuni – mi dice Platini – Ma non preoccupatevi, in Italia. Sono solido. Dopo l’operazione al menisco, guarii in diciannove giorni. Le mie ossa non si sbriciolano». Pessimista, invece, è Johnny Rep, l’olandese che gioca nel Saint Etienne e che mi chiede di Krol, e poi fa: «Non sarà facile per Platini da voi, con i difensori che avete». Ho chiesto a Platini, che nell’ultimo campionato francese ha segnato ventidue gol in trentotto partite, quante ne segnerà in Italia in trenta. Mi ha detto: «Dieci gol sicuri. E vengo a rendere un po’ più offensivo il gioco italiano».

IL PASTORE TEDESCO

Viene in Italia, e alla Juventus, convinto che non c’è posto migliore per giocare al calcio. «Siete unici, nel football create un ambiente pazzesco», ha dichiarato a un giornalista torinese. Lascia una villa con giardino e altalene per le sue bambine, Laurent di tre anni e Marina di 16 mesi, nel quartiere residenziale che è L’Etrat di Saint Etienne, ma la Juve gliene ha trovata una altrettanto confortevole sulla collina di Torino, press’a poco dove abita Tardelli. A Torino verrà con la bellissima moglie Christele, capelli biondi, bocca irresistibile e origini bergamasche, il padre (monsieur Bigoni, costruttore edile) ha grossi affari e una gran villa bianca a Plombières-les-Bains, piscina e campo da tennis. Verrà con le due figlie e con Mitty, il pastore tedesco che dovrà tenere lontano i fotografi («ne ho orrore») dalla sua privacy. Verrà per concedere interviste a pagamento e per conservare gli sponsor da mezzo miliardo l’anno: un succo di frutta, scarpe per bambini, calze sportive, maglie da gioco. Con la Juve ha un contratto per due anni. Potranno diventare tre, poi Michel potrebbe finire negli Stati Uniti («ci vanno tutti, si vedono bei posti, si guadagnano dollari»).

GLI HOBBY

Non ne ha uno, non va neanche al cinema, preferisce la televisione. Ama la poesia? Lamartine? Ha risposto sinceramente: «Lamartine e io siamo due cose diverse». E Jacques Laffite? «Non mi interesso molto di automobilismo. Mi piace il rugby». I giocatori che ammira di più sono due. «Beckenbauer e Cruijff». Poi aggiunge: «E Gerd Muller, perché sapeva fare dei gran gol». È a favore della pena di morte ed è per la parità fra uomo e donna. I giornalisti? «Bons. Ma sono troppo appiccicosi». Paragonato spesso a Raymond Kopa, ecco quello che ne pensa Albert Batteux uno dei più prestigiosi allenatori di Francia: «Platini fa più gol, è altruista, Kopa non mollava una palla che era una, ma Platini è meno rapido ed ha meno temperamento». Pare che Michel sia un solitario. «Solo all’apparenza», corregge. Trentaquattro partite in nazionale, venti gol. «In Italia si gioca solo alla domenica, avrò più tempo per la mia famiglia. E avrò sempre tempo per la nazionale francese. Je suis fier de la servir». Le vacanze che preferisce: Brasile, Martinica, Thailandia. Il giocatore che gli è più antipatico? Il nizzardo Huck che gli disse una volta «ma chi ti credi di essere», Michel disse di essere Platini, poi lo giocò sei volte facendo quattro reti e due passaggi-gol. Gli avversari coi quali non l’ha mai spuntata facilmente? Laposte del Paris Saint Germain e Kabyle del Nimes.

LA CUGINA DI NOVARA

Bernard Persia di «Foot 2» è partito alla scoperta dei parenti italiani di Platini e ha trovato una cugina ad Agrate Conturbia, in Piemonte: Stefanina, con suo marito Piero Santi. Sono loro che hanno tirato fuori la storia del cane Fufi. Quand’era piccolo, Michel Platini partiva dalla Francia con la famiglia e andava a far le vacanze da Stefanina. La cugina ricorda: «Aveva un caratterino. Non gli andava mai di perdere. Giocavamo a carte e, se era lui a perdere, non voleva proprio starci». La cugina, che non aveva più notizie di Michel, un giorno lo vide in una trasmissione di una tv privata. Fu un gran colpo. Era diventato il miglior calciatore di Francia. Ha detto Stefanina, tanto per stabilire che quella di Michel è una faccia italiana: «Ha le stesse fossette, la stessa fronte, lo stesso sorriso, lo stesso naso dei Platini». E, giustamente, non ha accettato l’ultima «i». Un poster di Michel fa bella mostra nella casa della cugina a Conturbia. Ma il paese, ora, pretende che Michel vada sulla collina in carne e ossa. Loro, poi, andranno a vederlo giocare nella Juve.

IL VIAGGIO IN ITALIA

Quando è partito per firmare per la Juventus, Platini ha preso in contropiede tutti i giornalisti. Non se ne sarebbe saputo niente se non avesse funzionato il «telefono rosso» di Europe 1, la più popolare emittente radiofonica francese. I particolari me li racconta Eugène Saccomano, amico di Platini e voce notissima di Europe 1. «Il telefono rosso è un numero particolare della nostra emittente che tutti possono chiamare per darci la migliore informazione della settimana. Quella che poi utilizziamo viene premiata con cinquecento franchi. Bene, venerdì squilla il telefono rosso e una voce ci dice: Platini sta partendo per l’Italia, chiamo dall’aeroporto di Lyon. L’informatore, per il quale sono pronti i cinquecento franchi, è ancora anonimo. Ma solo un tecnico dell’aeroporto di Lyon poteva darci una soffiata del genere, uno cioè al corrente dei piani di volo predisposti dallo scalo di Lyon. Così noi di Europe 1 siamo stati gli unici a sapere del viaggio di Platini a Torino a bordo di un petit Cessna quattro posti. Quando abbiamo rilanciato la notizia in Italia, nessuno voleva crederci. Per convincere un giornale di Milano, poiché nel frattempo avevamo raggiunto telefonicamente Platini a Torino nello studio di Boniperti, abbiamo dovuto fare ascoltare la registrazione delle voci di Platini e di Boniperti. Il giornalista milanese che non voleva crederci mi è sembrato addirittura addolorato perché continuava a dire: impossibile, impossibile, Platini è dell’Inter». Sul viaggio segreto di Michel a Torino e sul suo ingaggio da parte della Juve la Francia conosce ormai tutti i dettagli che sono stati rivelati in esclusiva da «Paris Match» in un servizio di 318 righe, con una foto di Platini nella rilassante vasca da bagnomassaggi dello stadio di Saint Etienne, e il titolo «Le sette ore che hanno cambiato la mia vita». Di queste sette ore, tre sono state durissime. «Sono state le tre ore di discussione con Boniperti», mi ha confermato Platini ammirato dallo stile del presidente juventino ma anche scosso dalla sua abile fermezza.

UNA PARKER TUTTA D’ORO

I dettagli che più hanno impressionato i lettori di «Paris Match» sono i seguenti: 1) appena il giorno prima del «voyage en Italie» di Platini, quattro molto simpatici dirigenti dell’Arsenal, incontratisi col campione francese in un albergo di Saint Etienne, erano rimasti con la convinzione di avere le stesse chances della Juve, fifty-fifty; 2) il Paris Saint Germain non ha ancora capito, avendo offerto quasi il doppio della Juve (ma annunciava una colletta tra i suoi tifosi), perché Platini abbia preferito l’Italia; 3) Michel Platini è volato in Italia con Bernard Genestar, suo consigliere di affari, che sedeva accanto a lui sul Cessna a quattro posti, e con Philippe Piat, consigliere dei giocatori professionisti francesi, che invece sedeva dietro; 4) mentre l’aereo atterrava all’aeroporto di Caselle, la testa di Platini era vuota, egli non aveva preso alcuna decisione però pensava a nonno Francesco e guardando il cielo azzurro di Torino prometteva al nonno di «diventare una vedette nel suo paese»; 5) all’aeroporto di Caselle c’era la limousine grigia di monsieur Agnelli, la limousine era blindata, Boniperti era alla guida e lo chaffeur sedeva dietro; 6) lo chaffeur era armato; 7) alla fine di una discussione a sei – Michel Platini, Genestar, Piat, Boniperti, Giuliano d.s. della Juve e un avvocato italiano amico di Genestar – Michel si aspettava una colazione con vitello tonnato, o una scaloppe all’albese, e una bottiglia di barolo, gli venivano offerti invece due sandwichs (e un terzo riusciva a soffiarlo a Boniperti); 8) al colmo del deludente spuntino, Michel Platini si è sentito chiedere da Boniperti se preferiva un succo di frutta al naturale o un succo di frutta con la soda; 9) Michel Platini ha replicato con trasporto: «Non, président, champagne!», ed è giunta una bottiglia di Asti; 10) Boniperti gli ha detto: Adesso che siete dei nostri, dovete tagliarvi i capelli» e Michel Platini.con un «coup frane» di lingua ha chiesto: «Avete forse paura che mi possano cadere?» ; 11 ) Michel Platini ha sottoscritto il contratto che lo lega alla Juve per due anni con una «Parker» d’oro prestatagli da Bernard Genestar; 12) il ritorno è stato tranquillo, mentre all’andata Michel, attardandosi a bere un caffè, aveva costretto il pilota del Cessna a cambiare il piano di volo.

UNA COCA

Il viaggio-lampo di Michel Platini si è concluso con una Coca Cola offertagli dalla moglie Christèle al suo ritorno a casa. Lui ha detto: «On a gagné!». Lei si è compiaciuta e poi ha azionato il videoregistratore assistendo con Michel al film «La guerra dei bottoni». Anche questo ha scritto «Paris Match». Alla Juve, in tanti anni, è arrivata tanta gente: Luisito Monti con i suoi 92 chili, Mumo Orsi con la più bella brillantina nei capelli, Renato Cesarini col violino e la sua celebre «zona», Felice Borel col soprannome di Farfallino, Omar Sivori col suo fantastico piede mancino. Ora c’è Michel Platini con l’accento sulla «i» ma proprio con le fossette, la fronte, il sorriso e il naso dei Platini che non hanno mai avuto la «i» accentata, sono nati sulle colline novaresi e gli piaceva il calcio. Ma questo, a Saint Etienne e nella Lorena, non risulta. Qui, Michel ha una tipica faccia francese che andrebbe benissimo sull’etichetta di uno champagne «très brut».