Quando il calcio fa bene alla vita

Storie (stra)ordinarie di sport e solidarietà: ieri come oggi, in molti contesti di povertà, degrado e violenza, il calcio si è rivelato un’insostituibile strumento di educazione e riconciliazione.


Antony Suze ha il sorriso vasto e spiazzante di chi ha visto il fondo del baratro e sa che se ne può uscire. Anche giocando. Calcio e libertà. I due capisaldi della sua esistenza. Libertà per la sua gente, neri sudafricani oppressi dall’apartheid. Libertà negata nel carcere di Robben Island, dove è stato rinchiuso per quindici anni, insieme a migliaia di altri attivisti politici. E poi il calcio, che ugualmente gli illumina lo sguardo. Libertà di tirare due calci a un pallone di stoffa, conquistata dopo quattro anni di richieste cadute nel vuoto: pochi minuti alla settimana, per dare sfogo a energie e passione, che un po’ alla volta diventano una squadra, un torneo e infine un campionato in piena regola, la Makana Football Association. Con tanto di regolamenti, proteste, ricorsi. E un tifo da stadio.
«More than just a game», dice Antony Suze alla fine del docufiction che lo vede protagonista insieme ad altri ex prigionieri di Robben Island. Molto più di un semplice gioco.
«Perché il calcio ci ha dato una ragione per resistere. Una ragione per sopravvivere. E per affermare la nostra dignità di esseri umani», ci dice «Tony», che conserva ancora oggi l’entusiasmo di quel giovane calciatore talentuoso, insieme alla saggezza di chi ne ha passate tante, ma è ancora capace di guardare avanti con ottimismo.

Se si guarda un po’ oltre l’immagine iperbolica del calcio-business, quello dei giocatori miliardari e del marketing spinto all’estremo, se ne trovano tantissime di storie così, e pure meno eclatanti di quella di Antony Suze. Anche in Sudafrica, dove l’esperienza della nazionale di calcio degli homeless, che ha vinto la Coppa del Mondo 2009 a Milano, o il Progetto Football for Hope (Calcio per la speranza), che prevede la costruzione di dieci campi di aggregazione comunitari nelle township, raccontano di un calcio ancora molto legato ai temi dell’educazione e della solidarietà.

E poi ci sono le infinite storie quotidiane di ragazzini che nei posti più disparati dell’Africa tirano calci a un pallone. Magari sognando di diventare un campione e intanto evitando di diventare chissà chi. Ladro o soldato, bambino di strada o criminale. In molti angoli dell’Africa, miseria e degrado fanno crescere troppo in fretta. La necessità aguzza l’ingegno ed espone allo sfruttamento. Moltissimi minori – bambini e bambine – ne sono vittime, nell’agricoltura come nei lavori domestici, nei piccoli commerci come nella prostituzione. E allora il calcio può diventare uno strumento di svago e di educazione, di affermazione dei propri diritti e di capacità di stare insieme. E magari di un futuro

Le esperienze positive si sprecano in Africa. La maggior parte appartengono così intimamente e spontaneamente alla vita di questi ragazzi da passare praticamente inosservate. Li vedi giocare ovunque, a volte nei posti più improbabili, in una piazza come in uno spartitraffico, nel deserto o al limitare della foresta. Con quella passione e quel trasporto che cancella tutto il resto. In quel momento sembra non esistere nient’altro. Lo sa bene chi si occupa di sport ed educazione. Niente di nuovo, per molti versi. Basti pensare alla decennale storia del Csi in Italia, nato con questo spirito nel lontano 1944. Eppure è qualcosa sempre da riscoprire. In Africa ci stanno investendo seriamente ormai da diversi anni. E molto resta da fare.

Serena Borsani è un esempio di come si possa coniugare teoria e pratica. Volontaria del Coe a Kafue, in Zambia, ha alle spalle una tesi di ricerca sullo sport come strumento di riconciliazione nella Rift Valley, in Kenya, dopo gli scontri post-elettorali del 2008, ed è esperta di sport per lo sviluppo e la pace. «Qui in Zambia – racconta – abbiamo cercato di abbinare lo sport all’insegnamento, con un approccio partecipativo, promuovendo abilità “di vita” e “per la vita”, ovvero sviluppando attitudini positive nell’interazione con gli altri e nel rapporto con il proprio ambiente sociale».

Questo programma si è concretizzato nella Football League, giunta al secondo anno, con sedici squadre, in quattro località diverse, e più di 1.200 partecipanti, tra cui 480 ragazze, divisi in categorie, dai pulcini agli under 20. L’hanno chiamata «Never give up» («Non mollare mai») con l’idea di suscitare uno spirito positivamente combattivo nella vita, nella scuola, nelle sfide quotidiane. «Vuole essere un motto contro un certo fatalismo – dice Serena -, contro una diffusa accettazione di situazioni di povertà e ingiustizia, vissuti come destino inevitabile».

Grazie alla Football League, invece, «molti bambini e giovani possono sfidarsi, divertirsi, imparare a vincere e a perdere, impegnarsi per un obiettivo comune, allenarsi per un risultato migliore». Figura-chiave in tutto questo processo è quella dell’allenatore. «Come sempre – dice Serena – la scelta delle persone è fondamentale: durante gli allenamenti, infatti, i coach hanno l’arduo compito di non limitarsi a mettere un pallone in mezzo al campo, ma devono proporsi come modelli positivi da seguire, offrendo loro, in maniera ludica, le informazioni necessarie per una scelta consapevole per il loro futuro. Si tratta di un approccio olistico, che prevede la diretta partecipazione dei bambini, molti dei quali vengono da situazioni di povertà estrema».

Insomma, il calcio viene usato come collante per attrarre i giovani e per raggiungere obiettivi non solo sportivi. Serena fa qualche esempio: «Dalla gestione e mediazione nei conflitti alla maggior conoscenza delle malattie più comuni e pericolose come Aids, malaria e tubercolosi; dall’aumento della capacità di ripresa dopo un forte trauma, al tenere lontano gli adolescenti da giri sbagliati a causa dalla forte disoccupazione; dall’apprendimento di abilità che consentono di affrontare le sfide quotidiane alla responsabilizzazione dei giovani sino alla costruzione di relazioni sociali…».

In quest’ultimo decennio i valori fondamentali dello sport sono stati riconosciuti anche dalla comunità internazionale come fattori molto importanti per la costruzione di una società civile più forte. Anche le Nazioni Unite, le grandi organizzazioni sportive e di cooperazione, governi e università stanno creando nuove forme di collaborazione tra enti e istituzioni, che condividono l’obiettivo di dare una chance di educazione in più ai giovani.

Un esempio, in questo senso, viene dalla Costa d’Avorio, dove i peacekeeper della forza Onu hanno costruito e inaugurato, nel dicembre 2009, un campo da calcio nel villaggio di Trainou, vicino a Bouaké, esattamente al confine tra la zona governativa e quella controllata dalle Forze nuove. «Conoscendo l’importanza del calcio in Costa d’Avorio – ha detto il maggiore Tashfees – abbiamo voluto dare la possibilità ai giovani di impegnarsi in attività salutari attraverso lo sport». Entusiasti i capivillaggio di Trainou 1 e Trainou 2: «I nostri giovani saranno meno oziosi e saranno capaci di organizzare tornei per divertirsi e rinforzare la coesione sociale».

Non è il primo caso in Costa d’Avorio: in questo Paese politicamente e socialmente molto travagliato, la missione Onu ha già costruito diverse strutture per favorire la pratica del calcio e di altri sport, come strumento di supporto al processo di pace. Si situano, invece, molto più alla base alcune esperienze in Camerun. Ma con un vastissimo coinvolgimento. Come quella del Centre sportif camerounais (Centro sportivo camerunese, Csc), nato nel 1998 dalla collaborazione tra l’ong Centro orientamento educati (Coe) e Centro sportivo italiano. Su questa esperienza, si è inserito nel 2001, il progetto di Inter Campus, finalizzato alla formazione tecnica di allenatori secondo metodologie pedagogiche e all’integrazione sociale di bambini di aree isolate e emarginate.

Storie di fatiche ma anche di successi. Lo scorso settembre, infatti, i ragazzini camerunesi, hanno vinto – ex equo con la squadra dell’Iran – la prima Coppa del Mondo di Inter Campus, che ha radunato in Toscana oltre trecento bambini provenienti da diciannove Paesi. Mentre lo scorso febbraio si è tenuto per la prima volta un corso di formazione anche nel nord del Camerun, a Garoua, in una delle regioni più povere del Paese, che ha coinvolto, presso la Maison des Jeunes del Coe, una sessantina di allenatori locali, sulla didattica del gioco del calcio.

E da appassionato di calcio qual è – oltre che da educatore – non poteva sfuggire a padre Maurizio Bezzi, missionario del Pime, l’importanza di usare lo sport per il recupero dei bambini dei strada di Yaoundé, con i quali lavora da molti anni. Così, tra le mille attività che lo tengono impegnato, una resta tutt’oggi un punto fermo: la partita di calcio del martedì mattina. Padre Maurizio è convinto che lo sport non sia solo uno strumento di aggregazione. Lui, anzi, lo usa anche come metodo di selezione. Infatti, fa giocare a calcio non solo i suoi bambini di strada, ma anche i potenziali educatori. «Ai giovani che desiderano lavorare con me – spiega padre Maurizio – propongo innanzitutto di venire a giocare a calcio il sabato mattina, per quattro settimane. In questo modo posso valutare la loro capacità di stare con i ragazzi, di gestire le tensioni e le possibili risse, di reagire agli insulti. Se superano questo test, sono arruolati; poi si continua insieme la formazione».

Tra i suoi ragazzi ce n’è anche uno soprannominato Roger Milla. La sua specialità non è il dribbling in campo, ma quello tra le bancarelle del mercato, dove esercitava la sua attività principale: la tufinga, lo scippo. Finché non gli hanno piantato un coltello nella schiena. Oggi Roger Milla non è più il re dello scippo e del dribbling, ma per lo meno è vivo e cammina con una stampella. Analoga esperienza è quella di padre Kizito Sesana, missionario comboniano a Nairobi, in Kenya, che ha creato dal nulla e in maniera del tutto informale una squadretta di street children.
«Un modo per togliere questi ragazzini dalla strada e insegnare loro qualche regola di convivenza, attraverso un gioco popolarissimo e molto amato come il calcio», racconta il missionario. Solo che, un po’ alla volta lo Yassets Football Club – questo il nome della squadra – ha risalito inaspettatamente le classifiche di tutti i gironi a cui ha partecipato, sino ad aggiudicarsi il campionato di serie B.
«Avremmo potuto andare in prima divisione – dice padre Kizito -, ma a quel punto abbiamo deciso di fermarci, sia per ragioni economiche, sia perché si rischiava di perdere il senso di questa esperienza, che voleva mantenere innanzitutto un valore educativo».

Ma a dimostrazione che il successo non dà per forza alla testa, è la storia di un ragazzino della Sierra Leone: da bambino-soldato a calciatore del Manchester United. Christian Caulker, ingaggiato dal famoso club inglese. Ma alle sue spalle ha una storia di violenze, droga, abusi. È stato ritrovato ferito in una strada di Freetown da un missionario saveriano italiano, padre Giuseppe Berton, da quarant’anni in Sierra Leone. Ha accolto Christian nella sua Family Home di Freetown, una casa-famiglia per ex bambini soldato e ragazzi di strada. Ed è proprio attraverso la squadra di calcio della Family Home che Christian ha scoperto il suo talento calcistico. Da qui è approdato all’F.C. Kallon, club fondato dall’omonimo ex giocatore dell’Inter, e quindi ingaggiato dal Manchester United.
«Metà dello stipendio del primo anno lo devolverò alla Family Home – ha dichiarato Christian – che mi ha aiutato a uscire da un incubo, permettendomi di vivere cristianamente». Anche il calcio, a volte, fa miracoli…

di Anna Pozzi