Quando la corsa della Roma inciampò sul Lecce

Il girone d’andata del campionato 1985-86 si chiuse con la sentenza-scudetto apparentemente già scritta. La Juventus, il 22 dicembre 1985, era campione d’inverno con ben 6 punti di vantaggio sul Napoli secondo classificato e 8 sulle terze, Inter e Roma. Considerando che allora la vittoria valeva solo due punti, la pratica poteva considerarsi pressoché chiusa, tanto era lo strapotere che la squadra guidata da Trapattoni in una delle sue edizioni più efficaci riusciva a esercitare sulla concorrenza. Dopo la sosta natalizia, il 5 gennaio, cominciava il girone di ritorno. E la Roma, partendo dal terzo posto, cominciava a rosicchiare il distacco, prima nell’indifferenza generale, poi in modo sempre più vistoso, così da riesumare l’interesse per la lotta di al vertice.

Dalla sedicesima alla ventottesima giornata, in tredici turni, la Roma totalizza 23 punti, la Juventus, sempre più “cotta”, ne raccoglie solo 15. Risultato: il 13 aprile la Roma appaia i bianconeri in testa alla classifica, portando a compimento una rimonta fantastica. A quel punto mancano solo due giornate alla fine e l’ipotesi spareggio sembra prendere corpo e anzi, diventa nei pronostici la più ottimistica per Trapattoni e i suoi, alle prese con un calendario meno agevole, che li vedrà al penultimo turno contrapposti al Milan di Liedholm, mentre la Roma deve ricevere all’Olimpico il Lecce, già matematicamente condannato alla retrocessione. Nell’ultimo turno, Juventus a Lecce e Roma a Como.

La scintilla di ciò che accadrà forse scocca proprio durante la settimana che precede la ventinovesimo giornata. La Roma ha condotto la sua rimonta in allegria, giocando un calcio di spensierati e scintillanti arrembaggi, senza calcoli e senza accreditare mai veramente l’ipotesi di un aggancio. Ora improvvisamente qualcuno, il leader Boniek in testa, lancia proclami, come se la Roma avesse già fatto suo lo scudetto. La metà giallorossa della Capitale muore dalla voglia di cominciare i festeggiamenti. Come potrà l’ormai spompata Juve resistere a un rush finale così prepotente? Anche Eriksson, splendido artefice di una così esaltante macchina da gol, si piega per la prima volta ai calcoli e per esempio contro il Lecce, pur avendo finalmente di nuovo disponibile uno degli artefici principali dell’impresa, il campione del mondo Bruno Conti, preferisce dirottarlo in panchina. Meglio risparmiarlo per lo spareggio…

Il 20 aprile dardeggia nel cielo come una splendida giornata di primavera. Nel sole accecante dell’Olimpico bardato a festa, il Lecce di Fascetti si offre come vittima sacrificale. Dopo 7 minuti appena, Graziani di testa infila il portiere Ciucci e la gioia dei 65mila esplode. Intanto la Juventus è sul nulla di fatto al Comunale di Torino contro il Milan di Liedholm, che mastica i suoi languidi ritmi. I giallorossi passeggiano, frenati da mille calcoli. Occhio a non commettere falli, per possibili ammonizioni e squalifiche (e chi ci sta a perdersi lo spareggio o il trionfo?). Inutile forzare.

E a quel punto che insorge inatteso l’orgoglio del Lecce. Un’avanzata di Miceli sulla sinistra si chiude con un calibrato cross a mezza altezza in area. Dove Alberto Di Chiara, terribile ex (è cresciuto nelle giovanili romaniste), vola a incornare in rete. Pareggio, la Roma è scossa, come ferma sulle gambe; dimenticato il gioco senza risparmio, alla garibaldina, che l’ha portata in alto. Nel Lecce un lancio in profondità sguinzaglia l’attaccante argentino Pasculli (di lì a poche settimane sarà campione del mondo con Maradona in Messico), che entra in area e viene atterrato dal portiere Tancredi. Rigore. Va sul dischetto l’altro argentino Barbas, regista al fosforo col dente avvelenato per essere stato escluso dai 22 dì Bilardo per il Mondiale. Tiro secco, Tancredi vola alla propria destra, il pallone si infila nell’angolo opposto.

La Roma è in confusione e dopo 8 minuti della ripresa ancora Barbas, lanciato dall’incontenibile Alberto Di Chiara, infila in rete. Pochi minuti dopo, a Torino, Briaschi inventa un gioco di prestigio e Laudrup trasforma il cross in uno splendido gol. Potendo rifiatare sulle lunghe pause milaniste, la Juventus del regale e un po’ stracco Platini ritrova se stessa e le ragioni del proprio domìnio. Quando Pruzzo, a 9 minuti dalla fine, devia in porta di petto un colpo di testa di Tovalieri, tutti si accorgono che non conta nulla. Per il centravanti coi baffi è il duecentesimo gol della carriera, ma non ha nessuna voglia di festeggiare.

In tribuna d’onore il ministro Signorello, accomodarsi di fianco al presidente Viola per partecipare al trionfo annunciato, sparisce. Spariscono tutti, dopo il fischio di chiusura, sciamando mesti dopo una delusione cuocente. La Juventus ha due punti di vantaggio, ha ormai le mani sul suo ventiduesimo scudetto. Infatti la domenica dopo i giallorossi, ormai vuoti di energie, perdono anche a Como (0-1), mentre, ironia della sorte, la Juventus vince colfatidico 3-2 proprio a Lecce, conquistando il titolo tricolore con 4 punti di vantaggio sulla Roma. Comincia la leggenda delle “gloriose sconfìtte’’ di Sven Goran Eriksson.

Roma, Stadio Olimpico – domenica 20 aprile 1986
ROMA-LECCE 2-3
ROMA: Tancredi, Gerolin, Oddi, Boniek, Nela, Righetti, Graziani, Giannini (8’st Conti), Pruzzo, Ancelotti, Di Carlo (22’st Tovalieri).
Allenatore: Eriksson.
LECCE: Ciucci (26’pt Negretti), Vanoli, Colombo, Enzo, Di Chiara I, Miceli, Raise, Barbas, Pasculli, Nobile (20’st Paciocco), Di Chiara II.
Allenatore: Fascetti.
Arbitro: Lo Bello di Siracusa.
RETI: 7′ pt Graziani, 34′ pt Di Chiara II, 42′ pt (R) e 8′ st Barbas, 37′ st Pruzzo.
NOTE: Ammoniti: Graziani, Conti, Vanoli, Raise.