FRANCO RECANATESI: Uno più Undici

Il profilo umano di Tommaso Maestrelli, l’allenatore che nel ’74 guidò Chinaglia e il mucchio selvaggio della Lazio al primo storico scudetto


Un uomo così affabile e civile da sembrare fuori posto in un ambiente di opportunisti e di squali; un signore così beneducato da apparire remissivo e persino inadatto al ruolo che la tradizione assegna all’allenatore di calcio: è davvero difficile sottrarsi allo stereotipo che fa di Tommaso Maestrelli non solo un’eccezione ma un caso più unico che raro. Si tratta di un luogo comune radicato proprio perché suffragato da una fisionomia che tuttora induce rimpianto e ammirazione, come attesta il bel profilo, peraltro assai documentato, che Franco Recanatesi dedica a colui che guidò la Lazio alla prima vittoria in campionato, appunto nel 1973-74, appena due anni prima di morire all’età di soli cinquantaquattro anni.

La sua carriera di calciatore nulla aveva avuto di eccezionale se non la ferita di una guerra che lo aveva disperso in Jugoslavia: un mediano destro di stile lineare, coriaceo nella sua mitezza, con quindici anni di professionismo sulle spalle (tra Bari, Roma e Lucchese) e una sola presenza in nazionale alle Olimpiadi londinesi del 1948, convocatovi dal vecchio Vittorio Pozzo.Un’etica tanto più forte quanto meno esibita, il credo religioso, il culto patriarcale della famiglia e delle solide amicizie, sono questi per lui i necessari contravveleni alla successiva scelta di divenire allenatore: qui Maestrelli brucia le tappe, colleziona promozioni (con Reggina e Foggia) per approdare alla Lazio nell’estate del ’71 e riportarla immediatamente in serie A.

Presidente è il vecchio Umberto Lenzini, palazzinaro e paternalista, direttore sportivo lo spregiudicato Sbardella: sulla panchina incombe lo spettro di Lorenzo, stregonesco e demagogico trainer sudamericano, il suo antipode esatto; lo spogliatoio è invece dominato da un ragazzone anglo-italiano, il centravanti Giorgio Chinaglia, indocile e visibilmente viziato, egocentrico e sbruffone: Chinaglia è pure un rompicapo morfologico, la sua conformazione è singolare (alto e gibboso, ha il collo incassato) però costui è capace di progressioni devastanti e di tirare in porta da qualunque posizione. Proprio su Chinaglia (blandito e irretito dalla mitezza di Maestrelli, infine adottato alla stregua di un quinto figlio) viene costruita la squadra che manca lo scudetto per un pelo nel ’73 e poi lo vince a passo di carica l’anno successivo.

L’antico motto di San Paolo, secondo cui quando si è consapevolmente deboli proprio allora si è forti, è il motto medesimo di Maestrelli, il quale fa di necessità virtù inventandosi uno strepitoso bricolage. Intorno a Chinaglia egli connette presunte scartine, ex campioni o campioni mancati, ruvidi muscolari ed esangui promesse: in porta Felice Pulici che non ha il genio di Zoff ma all’occorrenza sa volare; terzini due incontristi tuttavia capaci di forti propulsioni sulla fascia, Petrelli e Martini: in centro area lo stopper Oddi e, battitore libero, il capitano Pino Wilson, negato al gioco di testa ma puntuale nel tackle e molto avveduto nei disimpegni; nel quadrilatero di centrocampo, due cursori a tutta manetta quali Nanni e Luciano Re Cecconi (il cui apporto atletico risulta infatti inversamente proporzionale al nitore dello stile), insieme con un giovanissimo rifinitore, facciatosta ma capace di intermittenze alla Rivera, quale Vincenzo D’Amico.

Infine il baricentro, quasi uno gnomo sapiente, quel minuscolo Mario Frustalupi che alla squadra sa sempre dare il tempo mentre ordisce la trama del gioco alla maniera degli antichi centromediani metodisti; davanti, libero di concludere ovvero di lanciarsi verso il fondo per crossare su Chinaglia, l’ala destra Renzo Garlaschelli, un asso del contropiede che avrà parabola troppo breve per dimostrare appieno la sua grande classe.

La squadra è un prodigio di regolarità calibrata sulla cosiddetta media inglese, fuori casa sembra vivacchiare ma all’Olimpico è pressoché imbattibile. Il lavoro di Maestrelli è psicologico prima che tecnico-tattico. Il gruppo, che non è affatto un gruppo, è diviso in due fazioni ed ama sbranarsi in allenamento, specie nella rituale partitella del giovedì quando volano colpi proibiti e insulti sanguinosi: da un lato Wilson e l’ineffabile Chinaglia, dall’altro Martini e Re Cecconi, col seguito dei rispettivi gregari. Non basta: quello che accomuna quasi tutti è un combinato disposto di strafottenza e incoscienza, di volgare bullismo e tracotanza neofascista.

La maggior parte dei giocatori fa uso di armi laddove l’Hotel «Americana» sull’Aurelia, sede dei ritiri, è anche il loro poligono di tiro: per vincere la noia, sembra che sparassero pure ai lampioni dell’albergo. (Quanto a ciò, si è sviluppata tutta una letteratura: vedi non solo il bellissimo libro dedicato anni fa alla vicenda di Re Cecconi da Carlo D’Amicis, Ho visto un re, Limina 1999, ma anche l’inchiesta di di Guy Chiappaventi, Pistole e palloni, ivi 2004). Fa eccezione nel mucchio selvaggio l’anziano Mario Frustalupi, gran lettore di libri e giornali, comunista dichiarato: i capetti del fascio laziale ovviamente lo detestano e ogni estate non mancano di fare pressioni sulla società perché venga ceduto.

L’umanità di Maestrelli non può dunque che assumere la forma del riserbo e dell’onesta dissimulazione: tende a scusare i suoi calciatori all’esterno, interviene in maniera diretta all’interno. A Chinaglia volentieri lascia credere sia lui a comandare e gli offre i contentini che si danno ai ragazzi immaturi. Testimonia Recanatesi: «Una sera chiesi a Maestrelli: – Lei non pensa che la disciplina sia una regola importante? Rispose: – La disciplina è essenziale. Nel lavoro. Sorrise. Mi chiese quanti anni avessi: – Gli stessi di alcuni dei suoi giocatori. (…) Concluse: – A lei piacerebbe vivere per tre settimane in un posto sperduto, caldissimo e infestato dalle zanzare, lontano dalla famiglia, e per di più con il divieto di fare qualche cazzata?».

Oltre le faide dello spogliatoio, la squadra in campo testimonia di un’assoluta compatezza. Maestrelli la fa giocare a uomo, ama il pressing ed esige che il ritmo sia tenuto costantemente alto. Gianni Brera lo sospetta di “eretismo podistico”, vale a dire di dispendio fisico suicida, ma il 12 maggio del ’74 (uno a zero sul Foggia: rigore di Chinaglia) arriva finalmente lo scudetto, lo stesso giorno del referendum sul divorzio. C’è un gran sole, l’Olimpico è un mare di stendardi biancoazzurri, giocatori e pubblico tripudiano, ma al fischio di chiusura sulla panchina della Lazio sta seduto un uomo a capo chino, travolto dall’emozione, più di sempre composto, che non osa nemmeno alzare gli occhi. Perché Tommaso Maestrelli conosceva sia il valore sia il prezzo, entro di sé, della giusta distanza. Dicono che, in seguito, dal letto della sua malattia, in una clinica sulla collina Fleming, spiasse col binocolo gli allenamenti a Tor di Quinto: sentiva che presto li avrebbe lasciati, i ragazzi del mucchio selvaggio, ma forse intuiva che, senza di lui, più d’uno si sarebbe perduto.

Franco Recanatesi
Uno Piu’ Undici
L’Airone Editrice Roma, 2006
pp. 189