Riva e la Sardegna

Gigi Riva rappresenta la perfetta fusione tra un campione e l’identità di un popolo. In Sardegna trovò la sua dimensione ideale, diventando il simbolo di una terra orgogliosa che cercava riscatto e riconoscimento.

Le eliche fendevano l’aria con un ronzio monotono nell’abitacolo del piccolo aereo che puntava verso la Sardegna. Era l’autunno del 1963, e Gigi Riva cercava di dominare l’ansia stringendo una logora valigia sulle ginocchia. Era solo un diciannovenne di Leggiuno, un puntino minuscolo sulle rive del Lago Maggiore, catapultato in un’avventura più grande di lui. Lassù, tra le nuvole che si aprivano su un mare sempre più vicino, quel giovane dalle spalle larghe non poteva immaginare di essere il protagonista di un destino unico: stava per iniziare una storia che avrebbe unito per sempre un uomo del Nord a un’isola fiera e orgogliosa.

La Sardegna che lo accolse era una terra di contraddizioni profonde, dove il Piano di Rinascita prometteva un futuro radioso mentre migliaia di persone facevano le valigie per cercare fortuna nel triangolo industriale del Nord. Dal porto di Cagliari partivano navi cariche di speranze verso Genova, Torino, Milano. “Fatelo e quando l’avrete fatto io tornerò“, aveva detto un emigrante a un cronista della Rai che gli chiedeva del Piano di Rinascita. Era la voce di un’isola che non voleva più aspettare.

In questo contesto, il Cagliari Calcio era molto più di una squadra. Era il vessillo di un popolo orgoglioso, il simbolo di un riscatto possibile. E quel ragazzo timido e allampanato che scendeva dall’aereo, con i suoi occhi chiari e il suo sinistro devastante, ne sarebbe diventato inconsapevolmente il profeta.

Non fu amore a prima vista. La Sardegna era un mondo completamente diverso da quello che Riva aveva conosciuto fino ad allora: altri ritmi, altri colori, altra lingua. Ma c’era qualcosa in quell’isola fiera e schiva che sembrava parlare direttamente al suo cuore di ragazzo solitario. Era l’inizio di una storia che avrebbe cambiato per sempre il calcio italiano.

La costruzione di un miracolo

La trasformazione del Cagliari da squadra di provincia a potenza del calcio italiano fu un’opera d’arte collettiva, dipinta con i colori della passione e della competenza. Al centro di questa metamorfosi c’era Manlio Scopigno, un personaggio quasi letterario: ex studente di filosofia, amante dei paradossi, con una sigaretta sempre accesa e una battuta tagliente pronta sulle labbra. Era l’antitesi dell’allenatore sergente di ferro, eppure – o forse proprio per questo – riuscì a plasmare una delle squadre più rivoluzionarie della storia del calcio italiano.

Scopigno comprese subito che per far crescere un talento come Riva non servivano urla e imposizioni, ma spazio e comprensione. La sua gestione del giovane campione fu magistrale: gli permise di mantenere quella sua natura schiva e solitaria, proteggendolo dalle pressioni esterne. “Uno che c’ha sonno“, si definì una volta Scopigno alla Domenica Sportiva, con quella sua ironia che nascondeva una profonda intelligenza calcistica.

Sotto la sua guida, il Cagliari divenne una squadra moderna e spettacolare. La difesa a quattro, una novità per l’epoca, permetteva di sfruttare al meglio le caratteristiche dei suoi giocatori. E che giocatori: Comunardo Niccolai, il cui nome evocava la Comune di Parigi, Ricciotti Greatti, che portava il nome di un figlio di Garibaldi. Era una squadra che sembrava uscita da un romanzo del Risorgimento, con Riva nel ruolo dell’eroe romantico, quel “Rombo di Tuono” che Gianni Brera aveva immortalato con un soprannome destinato a entrare nella leggenda.

Il miracolo stava prendendo forma, partita dopo partita, in un crescendo di entusiasmo che coinvolgeva tutta l’isola.

L’anno della gloria

Il 1969 si chiudeva con un’Italia ferita nel profondo. Il 12 dicembre, una bomba esplodeva nella sede della Banca dell’Agricoltura a Milano, segnando l’inizio degli anni di piombo. Ma proprio in quel momento buio, il Cagliari stava scrivendo la pagina più luminosa della sua storia. Appena una settimana prima della strage, la squadra aveva battuto il Bologna 1-0 con un gol di Riva, balzando in testa alla classifica.

La cavalcata verso lo scudetto fu un crescendo di emozioni. La sconfitta a Palermo il 14 dicembre, con Scopigno squalificato per cinque mesi dopo un’accesa discussione con il guardalinee, sembrò per un momento poter minare le certezze della squadra. Ma il Cagliari aveva ormai una solidità mentale straordinaria: ogni battuta d’arresto diventava un nuovo punto di partenza.

Il 12 aprile 1970 è una data che ha cambiato la geografia calcistica italiana. Per la prima volta nella storia, una squadra del Sud vinceva il campionato. Non era solo una vittoria sportiva: era la dimostrazione che le gerarchie consolidate potevano essere spezzate, che i sogni potevano diventare realtà anche lontano dalle grandi città del Nord.

Lo scudetto del Cagliari rappresentava qualcosa di più grande del calcio stesso. Era il simbolo di un’Italia che stava cambiando, dove anche le “provincie” potevano emergere e brillare. La squadra di Riva aveva dimostrato che con il talento, il lavoro e la passione si potevano abbattere anche i muri più alti. Non a caso, ai successivi mondiali del Messico, la nazionale italiana avrebbe schierato ben sei giocatori del Cagliari campione d’Italia, a testimonianza di come quella squadra avesse ridisegnato gli equilibri del calcio nazionale.

L’uomo oltre il mito

Il vero capolavoro di Gigi Riva non fu solo nei numeri straordinari che ha lasciato nel calcio italiano – quei 200 gol in 378 partite con il Cagliari o il record ancora imbattuto di 35 reti in 42 presenze in Nazionale. La sua grandezza si misura soprattutto nelle scelte, nei “no” che hanno definito la sua carriera e plasmato il suo mito. In un’epoca in cui il calcio stava già diventando un business e i giocatori iniziavano a inseguire contratti milionari, Riva scelse una strada diversa, più autentica, più umana.

Quando la Juventus dell’Avvocato Agnelli bussò alla sua porta con offerte faraoniche, Riva rispose come il Bartleby di Melville: “Preferirei di no“. Una risposta semplice, diretta, che racchiudeva un mondo di significati. Non era solo il rifiuto di un contratto più ricco o della possibilità di giocare in una squadra blasonata. Era la scelta consapevole di legarsi a una terra e alla sua gente, di anteporre i valori dell’appartenenza e della fedeltà al richiamo del denaro e della gloria facile.

La sua integrazione con l’isola fu totale e profonda, quasi una simbiosi. Da ragazzo timido e riservato del Nord, Riva si trasformò in un sardo ad honorem, assorbendo la cultura e le tradizioni dell’isola. Imparò ad amare i colori accesi della Barbagia, i sapori autentici del Campidano, il profumo salmastro del mare che scopriva nelle uscite in barca con il suo amico pescatore Martino. Non era una posa, una maschera indossata per compiacere i tifosi. Era una trasformazione autentica, un innamoramento reciproco tra un uomo e una terra.

Questo legame viscerale con la Sardegna si manifestò anche decenni dopo la fine della carriera, quando a sessant’anni non esitò a schierarsi pubblicamente contro il progetto di stoccaggio di scorie nucleari nell’isola. Era ancora lì, in prima linea, a difendere la sua terra adottiva con la stessa determinazione con cui un tempo proteggeva il pallone dai difensori avversari.

Come scrisse Pasolini, Riva era “un poeta realista” del calcio. La sua poesia non stava solo nei gol spettacolari o nelle prodezze atletiche, ma nella coerenza con cui ha vissuto i suoi valori, nella fedeltà a una scelta di vita che è diventata esempio e ispirazione per generazioni di sportivi. Una storia, la sua, che ci ricorda che si può essere grandi anche – e soprattutto – rimanendo autentici e fedeli a se stessi.