“il calcio è una perfetta metafora della competizione sociale, assai più di qualsiasi altro sport. Fra le squadre e i tifosi, ci sono proletari, borghesi e aristocratici; ci sono quelli onesti e quelli che comprano gli arbitri, quelli furbi e quelli ingenui”
«de Saussure ha ragione, ma a metà. Roma… Lazio… il linguaggio è per lui come una squadra di calcio. Se fai entrare un giocatore cambia per forza l’assetto di tutta la squadra. Basta una variazione per variare tutto. Una parola non conta per la sua storia, ma per il posto che occupa fra le altre. Vedi, io non credo che il linguaggio serva solo a comunicare. Anche i simboli comunicano. No, il senso della parola non può finire qui. C’è altro. La bellezza. Capire non basta. Capire è un limite, è fretta di arrivare, passar oltre, concludere, non guardare dentro a quella magia della parola in sé: scartarla, spazientirsi alla sua levità, inutilità… Capire è fermarsi solo a una reazione condizionata, è usare le parole come biglietti da mille, da diecimila lire, come tessere per entrare, per passare e basta» («Le parole non le portano le cicogne», pagine 94-95).
Roberto Vecchioni, tifoso interista, è uno dei più bravi e celebri cantautori italiani: una canzone come «Luci a San Siro» è titolo di merito sufficiente per essere presenti su questo sito. Qui, però, è intervistato in qualità di scrittore e di professore. Nel 2000 ha pubblicato un romanzo, «Le parole non le portano le cicogne» (editore Einaudi), che è una vera e propria avventura nel mondo della linguistica. E quindi la giusta guida, Vecchioni, per un breve viaggio fra le parole legate al pallone: per gustare la loro bellezza (o smascherare la loro bruttezza) e seguirle nei loro dribbling semantici da un campo della vita all’altro.
Vecchioni, partiamo proprio dal titolo del libro. Dato per scontato che le parole non le portano le cicogne, analizziamo le due parole centrali di questo libro: «calcio» e «pallone».
«Pallone» è una parola bellissima proprio nella sua etimologia: in latino si dice «follis», dalla radice «fo» che indica, in modo onomatopeico, l’aria soffiata dentro il cuoio. Fra i romani i «fullones» erano i conciatori di cuoio, e da lì derivano anche parole come «follia» e «folle», perché si diventa folli, secondo gli antichi, quando l’aria ti opprime troppo la testa. Dalla stessa radice derivano la palla e il pallone, che grazie alla trasformazione di «f» in «p» non sono diventati «falla» e «fallone»… per fortuna. Anche se nel calcio il termine «fallo», che è sempre molto ambiguo, esiste. Ma esprime un altro concetto e viene da un’altra radice. «Calcio» è originariamente il termine che esprime il gesto, l’atto del calciare: viene dal latino «calx», che significa sia «tallone» che «calce» (da qui il doppio significato, di pedata e di elemento chimico). Il fatto che la parola «calcio» sia passata a indicare il football è, credo, una derivazione dal calcio fiorentino. Che però era giocato anche con le mani ed era un gioco al tempo stesso aristocratico e molto violento.
Siamo l’unico popolo a indicare il gioco con un termine autoctono. Tutte le altre lingue, almeno quelle europee, usano l’inglese «football», magari deformato (come nello spagnolo «futbol» o nel tedesco «fussball»).
Già, gli inglesi hanno creato questo termine composto: palla più piede. Molto concreto, semplice. Ma l’italiano «calcio» è più bello. Persino i francesi, che sono sempre così attenti alla purezza della lingua, dicono «foot», all’inglese. Gli americani dicono «soccer», ma solo perché non amano il gioco e il loro football è un’altra cosa.
I francesi, in realtà, usano il termine «calcio»: ma lo adoperano per indicare il campionato italiano. Dei loro campioni che giocano in Italia, dicono che sono andati «à jouer dans le calciò».
Curioso. Non lo sapevo. Credo che possiamo esserne fieri. Come minimo, indica che per i francesi il nostro calcio è davvero un’altra cosa.
Restiamo nel meraviglioso mondo delle lingue. Quando hai cominciato a seguire il calcio, che sensazione ti facevano tutti quei termini inglesi che popolavano il gergo calcistico?
I miei primi ricordi calcistici sono legati all’Inter degli anni 50, quella di Lorenzi e Amadei. Già il fatto che la squadra si chiamasse Internazionale Football Club la dice lunga, anche se ovviamente tutti la chiamavamo Inter: lo stesso nome della beneamata portava una ventata di inglese nelle nostre vite. Idem per il gergo. Usavamo parole inglesi pronunciate all’italiana, come le sentivamo da Carosio alla radio, senza sapere nemmeno cosa significassero. Dicevamo corner e non calcio d’angolo, off-side e non fuorigioco, gol e non rete, cross e non traversone, hands e non fallo di mani, dribbling e sicuramente non scartare; penalty, no, direi che si era già imposto il termine «rigore». «Hands» era usatissimo, ma nessuno di noi sapeva che era la parola inglese per «mani» e sicuramente l’avremmo scritto «enz». Eravamo pre-semantici, il nostro era un uso puramente concreto e funzionale delle parole.
I termini che indicano i ruoli, invece, si sono italianizzati molto presto. Proviamo a spogliarli del dato tecnico e ad esaminarli nella loro pura dimensione linguistica.
L’unico che era rimasto in inglese, anche se adesso non si usa più, era «stopper». Che è bellissimo: alla lettera significa «il fermatore», colui che deve stoppare il centravanti avversario, impedendogli di muoversi. Un francobollatore implacabile. Ma pensa anche quanto è bella la parola «ala». Ed è anche giusta: le ali stanno a destra e a sinistra, ai lati, e volano, in origine erano velocissime e piccoline, come Muccinelli. Oggi si chiamano laterali, lo stopper e il libero si chiamano centrali: queste, come dico nel libro, sono parole che servono solo a «capire» ma non hanno gusto della bellezza. Anche «libero» è una parola bellissima, indica l’unico giocatore che ha licenza di spaziare ovunque ci sia pericolo. Termini come centravanti o mediano sono chiari, semplici. «Mezzala» è molto bello: indica un giocatore più lento dell’ala, ma dotato di cervello. «Terzino» è un mistero: essendo il numero 2 e il numero 3, dovrebbero chiamarsi secondino e terzino. Ma forse il primo termine faceva paura. «Regista» non è male: regista come reggitore, colui che regge e regola, impone un metro o una misura, è un termine semanticamente molto ricco (non pensiamo solo al cinema); ma è bello anche il francese «meneur de jeu». «Portiere» non mi è mai piaciuto. Capisco l’origine aulica, dannunziana (come «autiere» al posto di «autista»), ma mi fa venire in mente la portineria e, di qui, la facile battuta sui portieri scarsi (tanto varrebbe metterci un citofono). Mi piace il francese «gardien de but». O l’inglese «goalkeeper»: entrambi molto concreti, significano «guardiano del gol», ma ancora una volta l’espressione francese è molto elegante. Insomma, lancio un appello: cancelliamo la parola portiere, cambiamola!
Volentieri. Ma come?
Già, come? Estremo difensore è brutto… Ultimo baluardo… per carità! Bisognerebbe rifarsi al mito. Chiamiamolo Leonida! In fondo le Termopili erano la porta della Grecia.
Proviamo ad analizzare qualche frase fatta del gergo calcistico che è entrata nell’uso popolare?
Proviamo.
«Palla lunga e pedalare».
Bellissima: è da Nereo Rocco, fa molto fine anni 60, è da calcio popolare. È diventata proverbiale proprio perché viene dalla base, non dal vertice. E ciò che viene dal basso entra più facilmente nel gergo. Oggi la vedresti bene in bocca a Trapattoni, a Mazzone. Non a Lippi.
«Fare pressing».
E recente, suona anni 80. Ma è molto curiosa, perché nella vita è passata a significare il contrario di ciò che indica tecnicamente. Fare pressing significa non dare respiro, non concedere spazio a chi avanza: il pressing è difesa, non attacco! Invece, che so, fare pressing su una donna vuol dire incalzarla finché non cede; mentre invece dovrebbe significare il contrario, ossia difendersi quando è la donna che ti incalza. Ma è tipico del linguaggio popolare rovesciare il significato di certa terminologia tecnica: pensa a cosa è successo al latino «una tantum», che vuol dire «una volta sola» e poi mai più, ma molti lo usano nel senso di «una volta ogni tanto», che è l’esatto contrario.
«1-0 e palla al centro».
I ragazzi, a scuola, la usano moltissimo. Ha un senso diverso a seconda di chi ha «segnato». Se la dice chi si è messo in una posizione di vantaggio, è una sorta di signorile sfottò. Se invece la pronuncia chi è svantaggiato, vuol dire «va bene, mi hai fregato ma ora si ricomincia e ti sistemo io». Ha un tono di rivincita.
«Stangata».
Interessante… Certo, è un termine calcistico – indica un tiro fortissimo, impossibile da parare – che poi è entrato in politica e soprattutto in economia. E ha subito uno spostamento semantico. Nel calcio la stangata non è una punizione, è solo un gesto atletico. Invece la stangata economica o politica è punitiva. È un significato traslato.
«Fare spogliatoio».
È molto tardivo, è uscito dall’ambito calcistico molto tardi: di fatto, è quel che faceva Helenio Herrera, con le scritte sui muri che dovevano galvanizzare i giocatori, ma il termine non si usava ancora. Oggi può indicare il lavoro di gruppo, ma non altolocato, perché suona burino e lievemente maschilista. Un manager direbbe piuttosto «siamo un team», o «facciamo gioco di squadra». Il linguaggio manageriale ha assorbito molto dal linguaggio sportivo, per ovvi motivi: però, essendo un linguaggio fortemente americanizzato, ha mutuato termini e concetti più dal football americano, che dal calcio.
E arriviamo alla madre di tutte le frasi fatte: «scendere in campo».
E una frase guerresca. Credo proprio che il calcio l’abbia mutuata dal linguaggio bellico, militare. I primi a scendere in campo (di battaglia) sono stati gli eserciti, ma è noto che il calcio è una guerra ritualizzata, non cruenta, non sanguinosa: un modo, per il maschio della specie, di sublimare la violenza e l’aggressività. È una frase pesante. Significa: tutto ciò che c’è prima, sono chiacchiere, ma la vis della battaglia è quando esci dallo spogliatoio e c’è il pubblico che ti guarda. E il passaggio gramsciano dalla teoria alla prassi. Quando la usa Berlusconi, indica non tanto lo «scendere in campo» quanto una «scelta di campo» ben precisa. La cosa curiosa è che la «scelta di campo» c’è anche nel calcio, ma è tutto sommato ininfluente: nel 99 per cento dei casi giocare prima a destra o a sinistra è indifferente. In politica, invece, è una scelta pesante, presuppone che il campo non sia erboso ma mentale, ideale. Lo «scendere in campo» di Berlusconi, in ultima analisi, è una frase abbastanza priva di senso, ma scelta bene, usata in modo efficace: esattamente come la scelta di battezzare «Forza Italia» un partito. Deve avere degli ottimi creatori di slogan.
Quando hai avuto la sensazione che il gergo calcistico stesse tracimando nel linguaggio quotidiano, e nel gergo politico in particolare?
Nei primi anni 80. Ma qui occorre una premessa. I sottolinguaggi rimangono chiusi nel loro ambito finché i loro contenuti non diventano straordinariamente universali, capaci quindi di uscire dalla metafora e di diventare senso comune. Il gergo dei ragazzi a scuola, ad esempio, resta confinato – in termini spaziali e temporali – alla scuola stessa: io, facendo l’insegnante, so che «zarro» vuol dire burino, ma continuo, nel caso, a dire «burino». Anche il linguaggio manageriale, in fondo, resta chiuso in se stesso: perché non è universalizzante. Il gioco del calcio ha però una particolarità: è una metafora spaventosamente completa della vita. In esso c’è egoismo e solidarietà, esaltazione dell’individuo e senso del collettivo; c’è la società e c’è il nemico, infine c’è quell’insopprimibile metafora sessuale del perforare, del «penetrare» la rete. In queste parole c’è l’ottanta per cento della nostra esistenza. Per questo, ormai, molti scrittori parlano di calcio, a cominciare dai sudamericani, come Soriano o Galeano. Usano metafore calcistiche perché lo sport, da passatempo di gruppo, è diventato universale. In Italia credo che questo fenomeno sia databile dall’82, dopo la vittoria nei mondiali: da allora, ad esempio, il calcio entra nel linguaggio – e nell’universo – femminile. Lo constato anche sulle mie studentesse.
E cosa significa l’irruzione della terminologia calcistica nel linguaggio politico?
Una parola molto semplice: demagogia. Siamo di fronte a politici che parlano nell’unico gergo che gli elettori amano e riconoscono. Inoltre il gergo calcistico è vago, indistinto. «Fare gioco di squadra», «si gioca sempre per vincere»: tutti i giocatori e gli allenatori possono dirlo, ma cosa vuol dire? Come si fa, in concreto? Nessuno ce lo spiega: siamo letteralmente dalle parti di «la palla è rotonda». E tutto ciò corrisponde alle istanze politiche che sono sempre vaghe, nebulose e allargate, mai verticali e concrete. E un gergo generalizzato: la politica è l’arte del «non dire dicendo», quindi lo svuotamento del linguaggio. Poi, ci sono altri motivi. Ad esempio, il calcio è anche una perfetta metafora della competizione sociale, assai più di qualsiasi altro sport. Fra le squadre e i tifosi, ci sono proletari, borghesi e aristocratici; ci sono quelli onesti e quelli che comprano gli arbitri, quelli furbi e quelli ingenui. Potremmo andare avanti con le analogie. Sia nel calcio che in politica, non sempre chi «gioca meglio» vince: per lo più vince chi ha il gioco più pratico o comunque utilizza al meglio i mezzi che ha a disposizione. Infine, quando si va a stringere, sia nel calcio che in politica contano i numeri: chi fa più gol, chi prende più voti, chi ha più audience. Se invece vogliamo tentare un parallelo più nobile, calcio e politica sono due forme di utopia. Entrambi presuppongono un punto d’arrivo inarrivabile. In politica è la democrazia: che è sempre un progetto, mai la realtà. La politica è un tentativo di eliminare gli errori per arrivare vicini al vero. Anche il calcio è un tentativo di eliminare gli errori, di arrivare alla squadra perfetta… che ovviamente non esiste, perché sarebbe la squadra che non prende mai gol, segna a ogni azione e vince sempre! È un po’ come Michelangelo che toglieva pezzi di marmo al blocco per farlo diventare il Mosè. Anche la politica e il calcio smussano gli angoli, fanno aggiustamenti qua e là, ma al Mosè non ci arrivano mai. Sia chiaro, questo è valido per tutti gli sport di squadra. Ma ciò che rende il calcio unico (e ancor più simile alla politica e alla vita sociale in senso lato) è la differenziazione dei ruoli. Nel basket, semplificando un po’, sono tutti alti due metri e devono fare tutti canestro. Nel calcio c’è quello grande e quello piccolo, quello lento e quello veloce, quello istintivo e quello razionale, quello che deve far gol e quello che difende la porta. Nel calcio c’è tutto, per questo può «diventare» tutto.