RUBEN BURIANI – novembre 1977

Ultimo di quattordici figli conosce le difficoltà della vita e nella gioia di sentirsi dire campione non dimentica la misura d’uomo. A San Siro ha scoperto una realtà nuova e pochi sogni, ma belli. Vuole coltivarli con modestia, ma anche con grinta

Questo Milan ha un “Tigre” nel motore

MILANO – E’ tanto saggio che dovrebbe avere, sulle spalle poderose, almeno dieci anni più dei ventidue che ha e che dimostra solo quando ti afferma che sì, la vita è proprio meravigliosa. E che vale proprio la pena di trascorrerla bene. Te lo afferma, serio e compito, quasi commosso, allorché si parla dell’aborto: non quando gli chiedi del derby della Madonnina, il suo primo derby, che ha caratterizzato con invenzioni tanto favolose da ricordare, lui emiliano trapiantato in Lombardia, le prove a tutto campo dei Di Stefano e dei Cruijff (si fa per dire). Ma tutto ha una logica: pure l’esistenza di Ruben Buriani le cui convinzioni hanno substrato tanto maligno quanto reale. Quattordicesimo di quattordici fratelli, ha capito subito, da impubere giovincello, cosa significa patire la fame, cosa vuol dire sacrificarsi. Per sé e per gli altri. Glielo hanno insegnato l’esperienza quotidiana e il comportamento dei genitori e dei fratelli: ai quali è legato con rapporto quasi ombelicale. E’ contento del suo presente nella misura in cui – dice – lo sono i «vecchi» a casa. E’ inevitabile, quindi, che non sia favorevole all’aborto: «E’ un argomento complesso – afferma – perché tutti i bimbi hanno diritto di nascere e di vivere, ma di vivere bene. Ci sono, però, tante e tali situazioni a questo mondo che mai un giudizio deve essere assoluto: non si può divenire, credo, giudici obbiettivi delle decisioni altrui».

Del divorzio pensa, invece, che sia cosa utile: «quando due non stanno bene assieme, è meglio che si dividano, se possono, soprattutto quando succedono fatti che squalificano la vita in comune».
Non si interessa di politica: però – né poteva essere altrimenti – ha alto senso sociale: sono le sperequazioni, in particolare, che lo tormentano. «Posso affermarlo con cognizione di causa – dice Buriani – perché, anche se ora guadagno bene, ho sperimentato la povertà. E non tollero che, accanto al ricco, ci sia pure quello che non può permettersi il lusso di vivere con dignità».
Rispetto ai suoi coetanei (e ai non coetanei) è coerente fino in fondo: non solo a parole. Lo stipendio, per la quasi totalità, lo dirotta a casa («ci pensa mio padre a farne l’uso che crede»); le giornate invece che in un lussuoso appartamento, le trascorre in un modesto monolocale dove in pochi metri quadrati, un impietoso architetto dei giorni nostri ha sistemato tutto quanto può servire.
Si trova bene da solo e in compagnia: «mi adatto – gli viene spontaneo confermare – nel senso che cerco di trovare i lati migliori d’ogni esperienza in cui mi calo».

n_ac_milan_i_giocatori-3696776 E’ FIDANZATO con Raffaella, dolce e matura diciottenne di Monza, che gli cura pure le pubbliche relazioni. Anche perché Ruben non ha telefono e per rintracciarlo tocca chiamare la casa della sua futura compagna. Si sposeranno fra uno o due anni: ed è, questo, un segno di equilibrio, tenuto conto che Ruben e Raffaella si conoscono dal 73, quando la giovane speranza Buriani iniziò con Magni allenatore, la sua «escalation» ai vertici nazionali. La «fama» non gli dispiace: cerca, anzi, di assaporarla; significa che s’è comportato bene, addirittura benissimo, come in occasione del 180. derby della Madonnina.
Deve molto a Giorgio Vitali, il direttore sportivo del Napoli: fu lui difatti a volerlo al Monza (si era nel 72) nell’ambito di una operazione che la società lombarda concluse con la Spai di Mazza. Nativo di Quartiere, che è un comune in provincia di Ferrara, era logico che iniziasse a giocare al pallone con la maglietta della Spai che allora (maestro Massei) era financo capace di tirare lo sgambetto agli squadroni metropolitani. A tredici anni e mezzo ebbe origine la storia di Buriani-calciatore: dopo la consueta trafila nelle formazioni giovanili della compagine bianco-azzurra, Ruben si immerse nelle nebbie della Padania superiore.

«Dapprima
– ricorda – non mi trovai a mio agio: poche le amicizie, scarsa la fiducia che David, il tecnico del Monza, riponeva in me, tanta la paura di aver sbagliato carriera».

– Poi all’improvviso, cambiarono molte cose…
«Infatti. Mario David lasciò la squadra prima della fine del girone d’andata poiché la situazione di classifica non era florida. Al suo posto i dirigenti lombardi (fra cui era Felice Colombo, che è oggi presidente del Milan) promossero Magni, allenatore della “primavera”. Con lui conquistai la maglia da titolare: e per quattro stagioni feci parte del centrocampo monzese».

– Non ti mancarono le soddisfazioni…
«Tutt’altro. A cominciare dalla promozione nella serie cadetta e dal brillante campionato che disputammo la scorsa stagione. Quando, per un punto, rimanemmo fuori dai giro della promozione in serie A».

– Che a te è giunta ugualmente!
«Eppure la delusione è stata cocente: pensi solo che il Genoa, in precedenza, riuscì a compiere il salto con tre punti meno di quelli che totalizzò il Monza. La verità è che, a parte la flessione finale, la promozione la perdemmo con il Cagliari: non andammo al di là dello zero a zero e si infortunarono Tosetto, Braida, Pallavicini e Gamba».

– E’ molto differente il mondo della serie A da quello della B?
«Tecnicamente non tanto: nella serie cadetta si gioca benino anche se si corre di più, palla al piede. Differente è lo stress; maggiore in B: il campionato è lunghissimo e non ti concede respiro: alla fine ti ritrovi vuoto fisicamente e mentalmente».

– E l’ambiente?
«La mia esperienza fa testo fino ad un certo punto. Quando ero al Monza si era instaurato un clima davvero fraterno anche con i dirigenti. Eppoi, noi giocatori scapoli si viveva tutti insieme. Al Milan è diverso: ci si ritrova solo a Milanello per gli allenamenti. Poi, ognuno percorre la sua strada».

– Con i compagni di squadra esiste particolare amicizia?
«Io sto bene con tutti. In particolare con Tosetto; ma è logico: eravamo alla Spal assieme, ed insieme ci siamo ritrovati a Monza e poi a Milano. Con Rivera? Ci parliamo poco anche perché lui sta sulle sue; di questi tempi – poi – è piuttosto silenzioso con chiunque».

BENCHÉ’ ABBIA in custodia la maglia numero sette, Buriani è centrocampista puro; corre per due, «come un matto», hanno detto malignamente i tifosi di fede interista l’altra domenica, ma non è vero affatto. E’ anzi, Ruben, uno dei pochi calciatori italiani che sa muoversi senza palla: molto bene, può aggiungersi. Anche se stilisticamente non è un portento, è giocatore valido in assoluto: a parte la vitalità, infatti, ha innato il senso della posizione: una dote che, se non ce l’hai, nessuno te la può inculcare. Eppoi è ambidestro benché calci meglio con il piede destrorso; possiede tiro potente e preciso; sa cos’è il collettivo di cui interpreta alla perfezione un ruolo importante: al contempo, infatti, è portatore d’acqua e campione. Sintesi importante, quasi matematica, del suo nascere e del suo divenire. Nella vita come nello sport.

Di certo, alla Scala del calcio italiano, non stona affatto. In occasione del derby, di cui s’è rivelato il protagonista principe, ha steccato solo un cross: in apertura, poi non ha sbagliato nulla: le cose facili e quelle meno facili. Con classe e testardaggine. Ha detto e scritto Brera che il Milan rimarrà in vetta fino a che reggeranno i Bigon, i Morini, i Buriani. I corridori del centrocampo rossonero, le stampelle dei Capello e dei Rivera: che, del campo, occupano zone strategiche ma poco vaste. Ebbene, Buriani, che non è «solo» corridore, risponde che non è proprio il caso di allarmarsi. Lui è abituato alla serie B, alle trentotto giornate consecutive (ci si ferma solo a Natale), alla concentrazione più assoluta. In A si gioca meno: ci sono soste più numerose: si può tirare il fiato. Correre per trenta partite, insomma, magari sbagliando qualcosa, non lo spaventa proprio. Quanto agli altri, non sa: anche se, in cuor suo, spera che reggano: per portare il Milan dove non può essere raggiunto da alcuno. La soddisfazione della «stella», in definitiva. Ci spera, nello scudetto, così come spera nella maglia azzurra: ma con pudore, quasi temesse di aver allungato troppo la gamba, di aver osato nella misura di Ulisse, che patì – poi – il suo ardire e la sua ansia di andare sempre avanti nella conoscenza.
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«Non si può avere tutto – dice Buriani -, bisogna anche sapersi accontentare; e ricordarsi che esiste gente che sta peggio di te».

– Dicono che sei maturo per andare in Argentina…
«Alla maglia azzurra ci si pensa sempre, soprattutto quando si comincia a tirare i primi calci veri ed i sogni si stingono ancora nella realtà. Fossi fra i ventidue dei mondiali vivrei la favola più affascinante che mi cullava da piccino».

A poco più di ventidue anni ha vissuto, Buriani, una giornata indimenticabile, una stracittadina da cornice; tre i momenti magici: il gol che ha realizzato subito, al 4’30” di gioco; il salvataggio su Anastasi che stava accarezzando l’idea del pareggio; la rete della sicurezza che ha permesso a paron Rocco di rimanere in panchina e di non temere più le scariche di adrenalina.

«Eppure
– racconta – ho provato qualcosa solo all’inizio della partita, quando mi sono accorto che a guardarci era tutta la città: la muraglia umana di San Siro ne era il simbolo. Poi ho giocato come al solito. Con identica concentrazione, voglio dire».

– Ti sei reso conto della tua superba prestazione…
«Un poco, forse, dopo aver siglato la terza rete: quando mi sono accorto di essere anch’io fra i protagonisti».

– E poi?
«Tante pacche sulle spalle e tanti “bravo”. Neanche la mia fidanzata s’è scomposta: lei, però, non si esalta né si avvilisce. La frase che mi ha colpito veramente, nell’intimo, è stata di mia sorella: quando mi ha detto, per telefono, che i miei stavano bene. E che gioivano. Avevo temuto, infatti, che si emozionassero a tal punto da soffrire».

– Resta da chiederti perché ti hanno chiamato Ruben…
«Non so: non ci ho mai pensato: dovrò chiederlo al padrino che mi ha battezzato: chissà cosa gli è passato per la mente in chiesa: e pensare che doveva chiamarmi Daniele…».

Ci salutiamo così, nel suo monolocale, pensando che un fuoriclasse deve essere diverso anche nel nome. Casualità o destino?