Ruben Buriani: rottamato con una lettera

«Con Rivera il decimo scudetto»  «L’ultima gara a San Siro. Segna Maradona, dopo Mandorlini mi rompe una gamba e la società mi licenzia con una lettera»

Fa più male un intervento spacca gamba oppure una lettera? Messa così, sembra una domanda insensata. Ma se riavvolgiamo il nastro della storia di Ruben Buriani, allora le cose cambiano. Ad affondare il roccioso mediano, capace di vincere lo scudetto della stella con il Milan dell’ultimo Rivera e poi compagno di squadra di altre due divinità del pallone come Falcao e Maradona, non è stato solo Andrea Mandorlini (nel novembre 1985 gli causò la rottura scomposta ai tibia e perone), ma la raccomandata partita da Napoli e arrivata dalle parti di Ferrara, dove l’ex giocatore viveva e vive.

«Licenziato in tronco. Non ero in grado di allenarmi dopo l’infortunio e il club aveva facoltà di stracciare il contratto. Glielo consentivano le regole: dopo 6 mesi e un giorno se non eri guarito ti ritrovavi a spasso. Assurdo, la gamba me l’avevano spezzata mentre indossavo la maglia del Napoli, contro l’Inter a San Siro. Eppure mi hanno trattato da reietto. Neanche una telefonata. Solo allora ho aperto gli occhi».

erché pensare male si fa peccato, ma spesso s’indovina. «A Pavia, dove andai per curarmi di concerto col club, mi volevano operare con metodi innovativi. Il Napoli si oppose. Risultato: un bel gesso fino all’anca che portai per settimane. Quando fu rimosso, avevo perso tutta la muscolatura e il recupero si allungò. Nessuno mi convocò a Napoli per discutere del problema. Potevamo trovare un accordo. Ecco perché quella lettera è ancora una ferita aperta».

14 FRATELLI

La fine del calciatore è brutale, ma ci sono tante altre cose da raccontare. La prima squadra di Buriani, con tanto di riserve, è stata la famiglia. «Eravamo 14 fratelli, io l’ultimo. Soldi pochini e giocare a calcio era un modo per non pensare. Me la cavavo: mi prese la Spal. Un giorno arriva una comunicazione. “E’ stato ceduto alla società Monza. Dopodomani è atteso in sede alle 12”. Seguiva l’indirizzo. Vado in agitazione, aspetto il rientro di mio padre. Gli spiego la novità, risponde in dialetto: “Pagano? E allora vai figlio mio, una bocca in meno da sfamare”. Il viaggio fu un’avventura. Per fortuna incontrai un signore del mio paese che andava a Milano: mi spiegò per filo e per segno come arrivare a Monza disegnandomi una mappa su un fogliettino. La mia carriera iniziò così».

In salita, perché Buriani finisce in panchina. Poi, dopo l’esonero di David, la svolta: signore del centrocampo brianzolo, promozione in B e l’anno successivo la A persa di un soffio. Ma nel massimo campionato il biondo giocatore ci arriva uguale. E dalla porta principale. «Nell’estate 1977 passo al Milan di Rivera. Gli davo del lei: era a fine carriera, ma disponibile con i giovani. Un vero leader. Poi bastava dargli la palla: la distribuiva coi giri perfetti, sembrava teleguidata. Nella prima stagione segno 2 gol nel derby vinto 3-1 e poniamo le basi per lo scudetto».

Buriani – poster

MAESTRO LIEDHOLM

L’avversario è insolito: spunta il Perugia invincibile. «Non perdevano mai e questo ci metteva ansia. Tra l’altro Rivera non giocava tutte le gare, doveva gestirsi. E quando mancava, soffrivamo. Per fortuna avevamo in panchina Liedholm: un 22maestro geniale in grado di tranquillizzare lo spogliatoio. Indimenticabile quello che accadde contro l’Inter nel ritorno. Andiamo sotto 2-0, mancano 10’ e siamo sulle gambe. Senza alzare la voce, ci dice: “Calma, tempo ancora tanto. Possibile recuperare”. Parole semplici, ma utili. Rimontiamo con due tiri da fuori di De Vecchi. Al 2-2 corriamo tutti dal mister. Era impassibile, seduto in panchina. Si divincola dagli abbracci, guarda l’orologio e fa: “Peccato, partita finita. Ancora un minuto e potevamo vincere”. Un gigante. Quel punto è stato forse decisivo per lo scudetto».

Non è il solo aneddoto su Liedholm. «Ce ne sono a decine, ma racconto questo: Rivera è out, i giornalisti tutta la settimana provano a indovinare a chi andrà la 10. Il mio nome giustamente non lo fa nessuno. Arriviamo a domenica. Negli spogliatoi il mister spiega: “Do formazione. Iniziamo da 10: questa maglia ha corso poco nelle ultime sfide. Oggi corre: prendila, Buriani”. Eccome se ha corso quel giorno. Ora riposa a casa mia».

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CRUIJFF, FALCAO, MARADONA

Dalle stelle alle stalle. Il Milan nel 1980 finisce triturato dal calcioscommesse: retrocesso in B. Buriani aveva appena esordito in Nazionale. «Proprio durante un ritiro sento l’avvocato Prisco dire “Ci sono dentro”. E mi spavento. In sede tutti negano. Invece trovano gli assegni del presidente. Ero sotto contratto e seguo i rossoneri in B, giocandomi la maglia azzurra e forse il Mundial 1982. Torniamo subito in A con Radice nuovo allenatore: la sua avventura parte male. Disputiamo il Mundialito, con noi c’era persino Cruijff. Radice voleva darci solo 20 giorni di vacanza. Ci rifiutiamo, lui chiede a Cruijff chi avesse ragione e l’asso olandese si schiera dalla nostra parte, facendolo imbufalire. In ritiro svolgiamo carichi pesantissimi: gli altri volano, noi siamo piantati. Precipitiamo ancora in B. Cambio aria: vado al Cesena. Altra retrocessione».

«A sorpresa Dino Viola mi vuole per il centrocampo della Roma. Arrivo dopo il k.o. nella finale di Coppa dei Campioni. C’è grande voglia di rivalsa ed Eriksson si dimostra un tecnico innovatore. Dopo Rivera, eccomi al fianco di Falcao: grande tecnica e buone doti fisiche, ma non un vero e proprio leader. Stava sulle sue. Se devo fare un nome, allora dico Cerezo: una forza della natura. Faccio un bel campionato e passo nel Napoli di Maradona. Beh, Diego è stato il più grande che abbia mai visto: aveva solo il sinistro, ma faceva cose impossibili. E poi era forte, non riuscivi a buttarlo giù. E per i compagni si faceva in quattro. Davvero unico. A Milano in quel giorno di novembre ero titolare. Maradona segna un gol bellissimo: controllo e tocco a bruciare Zenga. Poi arriva l’appuntamento col destino: non vedo arrivare Mandorlini. E questo mi ha fregato. E’ venuto a trovarmi il giorno dopo, da allora mai più visto. E’ stato un intervento duro, ma il licenziamento del Napoli mi ha fatto più male».

GATTUSO E VERRATTI

Carriera finita in pratica a 30 anni, sul prato di San Siro. Ci sarebbero due stagioni in C con la Spal, ma sono una lenta agonia. «Gli altri correvano e sorridevano. Io arrancavo e faticavo. Meglio smettere. Non ho mai pensato di allenare: mi piaceva fare il dirigente. Sono partito dal Milan, Galliani e Braida maestri inarrivabili. Poi sono stato a Salerno in A e ho insistito perché i rossoneri prendessero Gattuso. I primi mesi Rino faticò a Milano e Galliani ripeteva “Mi sa che ti sei sbagliato”. Sappiamo come è finita. Semmai non capisco cosa sia successo con Verratti: Io vedo in un Pescara-Milan, Allievi. Capisco che è un possibile fenomeno. Sento il club e decidiamo di comprarlo al volo. Si trova anche l’accordo economico. Doveva fare le visite mediche nella gara di ritorno a Milano. Manca solo la firma. Che non arriva: qualcuno fa saltare il trasferimento. Ancora oggi non so perché. Errore madornale. Il futuro? Sono fermo da un paio di stagioni, se qualcuno mi chiama metto a disposizione esperienza e tanta voglia di lavorare. Altrimenti amen. Ho passato i 60 anni, dal calcio ho avuto tutto. Bisogna sapersi accontentare. Vale in campo e ancora di più nella vita».

Fonte: Francesco Ceniti – La Gazzetta dello Sport

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