Sacchi prima di Sacchi

Con la Primavera del Cesena aveva vinto il campionato. Col Rimini era stato protagonista in C. Aveva allenato la Primavera della Fiorentina lasciando il segno. Col Parma si era imposto di prepotenza. E col Milan era diventato l’allenatore più famoso del mondo.


CESENA 1981/82

Sacchi aveva appena terminato la sua breve scalata nel mondo del calcio dilettantistico. Fusignano, Alfonsine, Bellaria, poi il salto a Cesena, un giorno, un bel giorno, in cui Arrigo disse a sua moglie Giovanna che avrebbe finito di girare per l’Europa a vendere scarpe.

Era il 1977. Arrigo Sacchi entrò nel settore giovanile del Cesena. Proprio in quegli anni conobbe un giocatore piccolo e intelligente, nato a Eschsur-Alzette, in Lussemburgo, da genitori italiani: Daniele Zoratto, destinato a una lunga militanza nel Brescia, prima di divenire il faro del Parma dei miracoli.

Come in una fiaba dal finale incredibile, quindici anni dopo averlo conosciuto, Sacchi volle di nuovo con sé il piccolo Zoratto e, nel maggio ’93, contro la Svizzera a Berna, gli offrì addirittura la maglia della nazionale, come ricordo (o regalo) di una carriera importante e di una professionalità inattaccabile.

A Cesena era quasi il primo Sacchi. «Più che un allenatore – ricorda Zorattoera un insegnante. Sapeva metterci in campo, la tattica, il pressing, il fuorigioco, ci ha insegnato tutto. E’ stato lui a trovarmi il ruolo che ho conservato per tutta la carriera. Ero una mezza punta e Sacchi mi ha trasformato in un play-maker, un centrocampista centrale. Stimo l’allenatore ma stimo soprattutto l’uomo, il suo comportamento fuori dal campo è stato un esempio importante per me. Posso dire che Sacchi è stato il mio secondo padre».

Quello di Zoratto è un racconto che segue linee più sentimentali che tecniche. «A Sacchi sono legati ricordi struggenti, come lo scudetto che abbiamo vinto nel campionato Primavera, nella stagione 1981-82».

– Ma a quei tempi la preparazione atletica era già dura?
«Lui voleva mettere in testa a tutti i suoi concetti, il suo modo di vedere il calcio. In generale, faceva lavorare molto sul piano atletico anche se per me, che ero più fragile degli altri, aveva un occhio di riguardo».

– Come si comportava, a livello tattico, con i ragazzini?
«Con molta chiarezza, come ha sempre fatto in tutta la sua carriera. Per noi, le sue idee erano rivoluzionarie. Anche lui si è evoluto, ma nella sostanza il calcio che insegnava a quei tempi è rimasto lo stesso».

– Da Cesena in poi, attraverso le tappe di Rimini, Firenze, Parma, Milano, fino a giungere al soglio della Nazionale, si è sempre portato dietro gli uomini di cui si fidava.
«Ha detto bene: gli uomini. Per fare quello che lui voleva, per esprimere il calcio che aveva in testa, Sacchi non poteva rinunciare alla gente adatta alla situazione. Gente che era disposta a qualsiasi sacrificio pur di arrivare, insieme al proprio allenatore, al traguardo prefissato».

– Avete impiegato molto tempo per capirlo?
«Io sono partito subito bene, altri hanno faticato di più. Era tutto così nuovo, tutto così diverso da quello che avevamo appreso fino a quel punto. Da allora ci siamo sentiti spesso e poi mi ha regalato la grande soddisfazione di una maglia azzurra».

– Anche a Cesena era una sorta di martello?
«Ha una grossa professionalità e non riesce mai a dimenticare il calcio. Le faccio un esempio. Se un giorno era prevista soltanto una seduta di massaggi, lui si presentava nella stanza e restava lì a parlarci di tattiche, di giocatori, di schemi».

– E di filmati.
«Ce ne faceva vedere moltissimi e per quei tempi quel modo di apprendere calcio rappresentava una innovazione straordinaria. Quello che Sacchi faceva alla fine degli anni Settanta è stato d’insegnamento per intere generazioni di allenatori».

Il ricordo di Sacchi: «Giocavamo bene, ma sulla zona ero ancora confuso»

Dall’archivio della sua memoria, Sacchi sa ripescare senza difficoltà quel suo Cesena Primavera che vinse lo scudetto. «Eh sì, quella squadra giocava proprio bene». Arrigo snocciola i nomi dei giovani bianconeri di quell’anno. In formazione, due giocatori destinati a una carriera coi fiocchi: Sebastiano Rossi, portiere, e Gabriele Zoratto, centrocampista centrale. In attacco, trovava posto Massimo Agostini, futuro “condor”, mentre in difesa, sulla fascia sinistra, c’era Walter Bianchi, che sarebbe divenuto uno dei discepoli storici di Sacchi, attraverso le tappe di Rimini, Parma e Milano.

«Giocavamo – ricorda Sacchi con quattro difensori, tre centrocampisti, due ali e un centravanti. La difesa si disponeva in linea solo quando attaccavamo: quando il pallino era in mano agli avversari, uno dei due centrali, Tondi, si spostava dietro a tutti».

C’era già la zona, ma una zona “sui generis”: «Le mie idee al riguardo erano ancora confuse. Facevamo raddoppi di marcatura e fuorigioco, ma gli automatismi tipici della zona ancora non c’erano. Il punto di riferimento era ancora l’avversario, più che lo spazio da occupare».


RIMINI 1982/83

Una delle qualità meno famose ma più autentiche di Arrigo Sacchi è la memoria. Quello che ci racconta Marco Scanio Pecoraro, salernitano, una carriera più che decorosa con esperienze di serie A ad Avellino e Ancona e anni di serie C e B a ottimi livelli e con alti rendimenti, è la conferma di una memoria che potremmo definire storica, ma che in realtà è stata utile soprattutto al cittì durante tutta la sua carriera. Pecoraro ha conosciuto Sacchi a Rimini, nella stagione ’82-83, in una squadra dove c’erano De Napoli e Walter Bianchi, incollato da sempre al tecnico di Fusignano. «Mi volle a Rimini, insieme a De Napoli, perché ci aveva visto nella finale del campionato Primavera fra Avellino, dove giocavamo Nando ed io, ed il suo Cesena. Lo avevamo impressionato e non si era più dimenticato di noi. E’ vero, la memoria non lo ha mai tradito».

Rimini, il primo campionato di serie C di Arrigo Sacchi. Com’era a quei tempi?
«Vorrei cominciare dicendo che auguro a tutti i giovani calciatori di incontrare un allenatore come Sacchi. Per l’inizio di una carriera, è fondamentale. E’ un tecnico costruttivo, con una completa dedizione al lavoro. A quell’epoca, la ricerca del particolare faceva un certo scalpore e i suoi allenamenti erano molto didattici. E infatti, chi aveva frequentato la scuola, era avvantaggiato rispetto agli altri».

– Come si presentò?
«Chiedendo il massimo impegno. “Non penseremo solo a giocare, ma anche e soprattutto a giocare bene”, ci disse il primo giorno. L’inizio del ritiro fu molto duro, facevamo tre allenamenti al giorno. Il primo, al mattino, con base atletica, il secondo al pomeriggio con pallone e schemi, il terzo la sera in palestra».

– Fu difficile capire il suo calcio?
«Ci volle del tempo, il suo era un modo di giocare tutto nuovo. Al tempo non si parlava di 5-3-2 o di 4-4-2, ma soprattutto era la mentalità che voleva cambiare: dovevamo giocare senza interessarci dell’avversario. Per un giovane era più facile adattarsi a quella nuova impostazione rispetto a chi aveva toccato la trentina».

– C’è qualcosa che lo contraddistingue dai suoi colleghi?
«Con tutto il rispetto per gli altri allenatori della mia carriera, ricordo soprattutto lui: era lucidissimo nelle spiegazioni e mi ha insegnato alla perfezione il tempo delle giocate».

– Ci parli della preparazione atletica.
«Non fu certo leggera. Ma anche Sacchi, col passare degli anni, l’ha modificata. Tant’è vero che ogni volta che ci incontriamo ne parliamo. Ha rivisto qualcosa, ricordo che a Pasqua, durante una sosta del campionato, facemmo un lungo lavoro di richiamo. E fu un’esagerazione».

– Per lei, a quei tempi, Sacchi era un “maniaco” del lavoro?
«Sì, maniaco, e lo sottolineo due volte, ma per raggiungere i suoi livelli bisogna esserlo. E poi la sua maniacalità era di quelle costruttive».

– Era incontentabile?
«Sì, come deve essere chi cerca la perfezione. Una volta vincemmo a Modena uno a zero. Fu espulso il nostro portiere e siccome le due punte non volevano andar in porta io mi misi i guanti, andai fra i pali e feci anche una bella parata. Ebbene, negli spogliatoi Sacchi non era soddisfatto perché toccava a uno dei due attaccanti trasformarsi in portiere, così da non alterare l’equilibrio della squadra. Ricordando questo episodio, non ho avuto difficoltà a capire perché Sacchi ai Mondiali 1994 ha sostituito proprio Baggio, dopo l’espulsione di Pagliuca, nella partita con la Norvegia».

– E una volta almeno lo ricorda completamente felice alla fine di una partita?
«Sì. Accadde dopo un Rimini-Carrarese, vinto da noi per 2-1 con un mio gol. Dall’altra parte c’era Orrico, anche lui zonaiolo. Ecco, quella per Sacchi è stata una grande affermazione».

arrigo sacchi rimini 1982-83

Il ricordo di Sacchi: «Un modulo dinamico: correvano tutti come matti»

Chiamato a Rimini in C1, Sacchi ripropose il modulo già adottato con il Cesena Primavera: difesa in linea quando si attaccava, con il libero quando ci si difendeva; tre centrocampisti, due tornanti e un centravanti. «L’idea di base – dice Sacchiera che sia in fase difensiva che offensiva si agisse sempre con 5 uomini. Quindi, un centrocampista andava a integrare la difesa quando ci attaccavano, due centrocampisti si univano ai tre attaccanti quando avevamo l’iniziativa».

In squadra, anziani di nome (Petrovic e Cinquetti), fedelissimi (Zoratto e Bianchi), promesse (De Napoli e Gaudenzi). Sacchi centrò il quarto posto e lo stesso fece due anni dopo, tornando a Rimini alla guida di una squadra simile alla prima. «Correvano tantissimo. In attacco avevo un tridente, ma non come quello adottato da Zeman o anche da me in Nazionale. Io usavo gli esterni meno in profondità e più da centrocampisti aggiunti. Il nostro 4-3-3 era a tratti simile a un 4-5-1. La zona non era ancora pura, sia per la presenza di un libero anziano come Frosio, sia perché ero ancora in fase di studio».


FIORENTINA 1983/84

«Poche settimane prima avevamo vinto lo scudetto Primavera con Vincenzo Guerini in panchina. Ne eravamo fieri. Quando Sacchi entrò per la prima volta nello spogliatoio, ci guardò negli occhi uno per uno e ci disse: “Sono contento di allenare la squadra Campione d’Italia, ma cambieremo gioco. Andremo incontro a giorni difficili, ma non vi preoccupate, se mi seguirete andremo lontano”».
L’impatto fu quasi traumatico, Stefano Carobbi, che di quella Primavera viola era forse il più bravo, lo ricorda ancora oggi come uno dei giorni più importanti della sua carriera.
Con Guerini, quella squadra aveva fatto tantissimo. Perché cambiare? Se lo chiedevano Carobbi e Landucci, Carboni e Bortolazzi, era l’83, avrebbero fatto tutti carriera, anche grazie a Sacchi che a Firenze fu portato da Allodi, allora amministratore delegato della Fiorentina. Lo aveva conosciuto a Coverciano, quando era rettore del centro federale, durante uno dei corsi per allenatori. Aveva intuito che nella testa del giovane tecnico di Fusignano c’era un calcio rivoluzionario.
L’anno precedente, Sacchi aveva allenato in C, a Rimini. Non aveva ancora scelto la sua strada, gli piaceva troppo lavorare con i giovani, per questo aveva accettato la Fiorentina Primavera. Da Firenze tornò a Rimini, poi passò a Parma e quando sembrava ormai certo il suo ritorno a Firenze, nell’87, stavolta sulla panchina della prima squadra, una telefonata di Berlusconi lo convinse a declinare l’offerta del conte Pontello.

A Firenze avrebbe ritrovato Carobbi, un giocatore che Sacchi volle comunque con sé a Milano, per due stagioni non proprio fortunate. E ora Carobbi ci aiuta a capire il Sacchi fiorentino.

– Come fu il suo inizio?
«Molto complesso. Riuscimmo ad ingranare solo a dicembre, troppo tardi. E nel torneo di Viareggio, giocando benissimo, arrivammo al terzo posto. Le sue lezioni erano stupende. Ci spiegò che in tutti i paesi del mondo i ragazzini, quando cominciano a giocare sui campetti, si dispongono a zona. Parlava di schemi mentre ci faceva vedere i filmati delle partite. Ne ricordo uno in particolare: Italia-Svezia 0-3 a Napoli. Ci fece notare come tutte le volte in cui la palla era in possesso dell’Italia, la Svezia aveva sei o sette giocatori contro tre o quattro dei nostri: “Ditemi voi come potevamo vincere”, fu il suo commento».

– Fu un brusco cambiamento.
«Sì, Sacchi puntava moltissimo sulla tattica. Cambiammo completamente la mentalità: prima di lui il punto di riferimento era l’avversario, poi divenne il pallone».

– Era un passaggio difficile.
«E infatti molti incontrarono delle difficoltà, qualcuno non riuscì a seguirlo, il ricordo dello scudetto vinto giocando a uomo era troppo recente. Ma Sacchi ci insegnò a stare in campo e quei giocatori come me, come Bortolazzi e come Carboni, arrivati poi in serie A, sono stati aiutati tantissimo dai suoi insegnamenti».

– Cosa ricorda della preparazione?
«Era più intensa delle altre. Ci portava alla soglia della fatica velocemente e ce la faceva oltrepassare. In campo non stavamo tantissimo, un’ora, non di più, ma l’intensità era spaventosa. Era diverso dagli altri tecnici che ci facevano restare in campo tre ore ma abbondavano con le pause».

– Molto lavoro tattico, non è così?
«Certo. Ci spiegava la differenza fra il 4-4-2 e il 4-3-3, per quei tempi era la rivoluzione».

– Come era fuori dal campo?
«Bravissimo. Puntava sugli uomini più che sui giocatori. Allontanò un paio di ragazzi perché disturbavano il gruppo. Una volta mi fece una bella ramanzina: ero passato in prima squadra e quando tornai con la Primavera, secondo lui non avevo più il rendimento di prima perché stavo perdendo la mia dimensione. Il motivo della flessione era fisico, ma la lezione mi aiutò a crescere. Un giocatore deve preoccuparsi quando Sacchi non gli dice più niente. Quando ti sgrida, sta’ sicuro che ti stima».

– E un bel giorno vi portò Passarella negli spogliatoi.
«Daniel conosceva la zona. Ci dava convinzione e ci spiegava ogni segreto del nuovo gioco».

– Lei ritrovò Sacchi a Milano. Era cambiato?
«Curava ancor più l’aspetto fisico. Contava anche il centimetro e in allenamento ci fermava mille volte».

Il ricordo di Sacchi: «Quell’anno ho capito molto grazie anche a Passarella»

Il tuffo fra i giovani della Fiorentina consentì a Sacchi un anno di studi e di passi avanti sulla via della zona: «Un campionato Primavera permette di lavorare con meno assilli. In difesa, abbandonai ogni idea di libero tradizionale. I quattro del pacchetto arretrato giocavano in linea, e tutta la squadra si muoveva secondo gli automatismi tipici della zona: tattica del fuorigioco, marcature a scalare e così via. A chiarirmi via via le idee a proposito della zona contribuì moltissimo Passarella». L’argentino era uno dei grossi calibri della Fiorentina che quell’anno si sarebbe piazzata terza dopo Juve e Roma. «Daniel giocava a zona da sempre, con me fu molto prodigo di consigli e aiuti».

L’organico che Sacchi ebbe a disposizione era ritagliato in buona misura su quello che l’anno precedente aveva vinto lo scudetto. Il terzino Carobbi e il centrale Bortolazzi erano già molto quotati. Carboni, attuale romanista, s’infortunò nel corso della stagione. Attaccante di destra era Neri. In porta, Landucci.

Tornando l’anno successivo a Rimini, Sacchi mise temporaneamente da parte le innovazioni più radicali sperimentate a Firenze, ma la stagione passata con i giovani viola si sarebbe rivelata importantissima per il futuro.


PARMA 1985-1987

Per quaranta giorni è stato uno dei suoi bersagli preferiti. Dalla collinetta della Pingry School, davanti al campo di allenamento dove gli azzurri sudavano in attesa delle partite mondiali, ogni giorno era la stessa scena. Sacchi urlava, sbraitava, si arrabbiava con quegli allievi che, magari involontariamente, non si piegavano ai suoi voleri. Bastava una mossa sbagliata, un piegamento falso, un recupero ritardato, un rilancio male effettuato, il cittì fermava il gioco e cominciava ad urlare. Fra i “pluri-richiamati” non c’erano Baresi e Roberto Baggio, c’era invece un trentunenne che non avrebbe mai sperato di arrivare fino in America, un ragazzo toscano, dai capelli rossi e dalla straordinaria capacità di assorbire quelle urla senza abbattersi e senza rispondere: Roberto Mussi.

Aveva conosciuto Sacchi a Parma, nell’estate del 1985. Al cittì era piaciuto, lo aveva voluto con sé anche a Milano e lo ha poi chiamato in Nazionale. A Parma, Sacchi era praticamente alle soglie della grande svolta. Avrebbe battuto il Milan con una squadra di ragazzini sconosciuti ed avrebbe fatto innamorare Silvio Berlusconi. Già allora era pieno di idee, una fonte inesauribile di progetti, programmi e ambizioni.

– La preparazione fu dura?
«Si, moltissimo. Voleva il meglio da tutti, non si accontentava mai».

– Nel gioco, era diverso?
«No, per niente. Il primo anno, in serie C, appena arrivato ha dato il via ad una autentica rivoluzione. Io e Melli eravamo fra i pochi reduci della stagione precedente. Il giorno in cui si presentò negli spogliatoi, capimmo subito che in quegli occhi c’era qualcosa di folgorante. Era determinato, voleva arrivare a tutti i costi».

– Parliamo della sua preparazione.
«Intensa, molto intensa. Per me, era il primo vero ritiro da professionista, a Parma ero arrivato l’anno precedente ma quando il campionato era già iniziato. Prima giocavo in C2 con la Massese e fu duro salire ai suoi ritmi. Mi insegnò tutto, a cominciare dalla tecnica individuale».

– Il suo modulo era lo stesso di oggi?
«No, era ancora più audace, un 4-3-3 come quello di Zeman. Ricordo che giocavamo benissimo, la gente correva allo stadio perché sapeva che lo spettacolo era assicurato. Vincemmo alla grande il campionato di C1 e per un soffio perdemmo la promozione dalla B alla serie A. Quell’anno battemmo due volte il Milan con una squadra di ragazzini».

– Come impostava le partite?
«Senza pensare troppo all’avversario. Ci ripeteva di continuo: “Se fate quello che vi dico io, non ci sono problemi”».

– Ed in panchina come si comportava?
«Non era troppo agitato anche se urlava tantissimo».

– Cosa le hanno insegnato i due anni di Parma con Sacchi?
«Tutto il calcio, ma anche qualcos’altro. Per esempio il modo giusto di affrontare le cose, senza mollare mai. E questa è diventata da allora la mia caratteristica».

– Era teso anche fuori dal campo?
«No. Sapeva stare in compagnia, ci metteva sempre a nostro agio».

– Il suo rapporto con Sacchi ha dato buoni frutti. Prima a Milano, poi in Nazionale, non la dimentica mai.
«Si fida dei giocatori che ha avuto, di quelli che possono essere utili al suo gioco. A Parma, per esempio portò con sè un gruppo di ragazzi che aveva avuto nelle squadre precedenti. Marco Rossi, Walter Bianchi, Landucci e Gabriele. Io mi sono sempre impegnato al massimo e Sacchi se n’è ricordato. Di sicuro non mi ha portato in America nel 1994 solo perché ero un bravo ragazzo».

parma sacchi 1986

Il ricordo di Sacchi: «In pochi minuti convinsi Signorini a giocare a zona»

Sacchi arrivò in un Parma appena retrocesso in C1, portando con sé il consueto plotone di fedelissimi (Righetti, Marco Rossi, Walter Bianchi, Gabriele e Zannoni). Trovò come assistente Pietro Carmignani, per anni poi sua preziosissima spalla.

Il Parma colse la prima piazza e tornò subito in B. In squadra, tra gli altri, c’erano i giovani Mussi e Bordin, mentre il sedicenne Melli muoveva i primi passi.

«La difesa era in linea – ricorda Sacchi – ma dei due difensori centrali era Signorini ad avere più compiti da libero. Signorini veniva da un calcio più tradizionale e inizialmente era restio a passare alla zona, ma lo convinsi molto facilmente: schierai in allenamento 4 difensori e li posi a uomo su cinque attaccanti. Signorini, da libero, si trovava quindi solo contro due e diventava matto. Poi lo schierai a zona con gli altri tre difensori e gli misi di fronte ben otto attaccanti: dopo parecchi minuti non aveva ancora subito un gol».

L’anno seguente, con gli innesti di Fontolan e Bortolazzi, il Parma sfiorò la promozione in serie A.


MILAN 1987-1991

Quando Sacchi arrivò sulla panchina azzurra, Ancelotti divenne il suo interprete personale. C’erano sì i milanisti, che già conoscevano quel gioco dopo anni di battaglie e di vittorie, ma c’erano anche i doriani di Boskov e gli juventini di Trapattoni da svezzare, da sostenere, da recuperare alla zona.

La diagonale, l’elastico, la verticale, erano parole sconosciute prima dell’avvento di Arrigo ed è stato Ancelotti, direttamente sul campo, ad operarsi per diffondere il verbo. Dopo le esperienze azzurre con Bearzot e Vicini, ha giocato una sola partita della gestione Sacchi, quella del debutto di Arrigo, a Genova con la Norvegia, e poi è tornato qualche anno dopo in Nazionale, ma con una nuova veste.

sacchi ancelotti nazionale

– Cosa ricorda del giorno in cui Sacchi si presento negli spogliatoi del Milan?
«Capimmo subito che era un uomo dalle idee chiare, che sapeva bene dove voleva arrivare, capimmo che sarebbe riuscito a fare grandi cose».

– Fece una preparazione dura?
«La più dura in tutta la mia carriera di giocatore. Fin dal primo giorno voleva far capire quali fossero i suoi atteggiamenti, il lavoro era molto intenso e gli allenamenti molto lunghi».

– Ma all’avvio incontrò molte difficoltà.
«Il periodo difficile durò tre o quattro mesi. Si lavorava tanto e i risultati non arrivavano. Non furono giorni molto allegri, nella squadra c’erano un po’ di sfiducia e un po’ di titubanza».

– E Sacchi come reagì a una situazione così delicata?
«Anche lui, in quel momento, era un po’ demoralizzato. Ma allora, come oggi e come sempre, c’era qualcosa che lo contraddistingueva: aveva sempre chiaro in mente qual’era il suo obiettivo. Era lucido».

– Cosa è stato Arrigo per il calcio italiano?
«E’ un uomo che ha realizzato un’autentica rivoluzione, che ha portato in Italia, per quanto riguarda il calcio, un nuovo modo di pensare».

– E lei è stato il suo più grande interprete, fin dall’inizio.
«Conoscevo più di altri il gioco a zona, ero stato con Eriksson e con Liedholm durante i miei anni con la Roma. Sapevo come muovermi. Ma soprattutto, e non è un paradosso, mi aiutarono i due gravi infortuni che avevo alle spalle. Avevo ventotto anni, il fisico non era più agile come una volta, dovevo far lavorare più il cervello delle gambe e il ruolo di centrocampista centrale che mi aveva affidato il mister era l’ideale».

Il ricordo di Sacchi: «Erano grandi campioni ma la loro forza era l’umiltà»

Come si è visto, in tutte le sue tappe Sacchi era apparso orientato verso un modulo che prevedeva un tridente d’attacco. Una volta al Milan, cambiò rotta e costruì un 4-4-2 di mitica efficacia. Come mai ?
«In realtà – spiega Sacchi – anche a Milano ero partito con un 4-3-3, così composto: in difesa Tassotti, Filippo Galli, Baresi e Maldini; a centrocampo Ancelotti e Donadoni interni e Bortolazzi centrale; in attacco, da sinistra a destra, Gullit, Van Basten e Virdis (o Massaro). Andammo avanti così fin quasi a Natale, poi si fecero male Bortolazzi e Van Basten e recuperai Evani. Così feci dei cambiamenti. In mediana portai Ancelotti centrale, Colombo a destra ed Evani a sinistra. Allo stesso tempo, poiché il nostro attacco non correva tantissimo e non proteggeva tanto il centrocampo, portai le punte da tre a due. Queste erano Gullit e Virdis, e avevano alle spalle Donadoni come ispiratore. Donadoni era importantissimo, perché in fase difensiva ripiegava dovunque si fosse aperto un buco. Lui ed Ancelotti erano i due centrali, ma Ancelotti agiva in posizione costantemente più arretrata».

Da quel “rimescolamento” nacque un Milan leggendario: «Ma il segreto era nell’umiltà di campioni che sapevano porsi al servizio del collettivo».