SACCHI Arrigo: grandezza e caduta di un rivoluzionario

Vuole una massima antica che sia destino degli uomini di grande rilievo dividere i propri simili. Amore e odio, senza vie di mezzo. Qualcosa del genere è capitato ad Arrigo Sacchi come a pochi altri allenatori del calcio italiano…

Ciò non basterebbe tuttavia ad ammantarne la figura di un’aura di grandezza se a supporto non vi fosse il radicale cambio di mentalità imposto ai vertici del calcio italiano, un fervore innovativo capace di contrassegnare un’era e residuare un’eredità imprescindibile. Purtroppo, o forse inevitabilmente data la forza rivoluzionaria del messaggio, il veicolo della novità è un carattere manicheo, conformato a una visione talmente monotematica da arrivare a violentare la stessa storia del nostro calcio, negandone connotati tattici diversi dal Catenaccio prima dell’avvento del Profeta.

Dimenticando che il calcio italiano, in ogni suo periodo, è stato una fucina di intuizioni, un ribollire di idee e sperimentazioni sempre in evoluzione. E che gente come Trapattoni, Bearzot, Bagnoli già aveva disincagliato il calcio del Bel Paese dagli stereotipi difesa-contropiede riconosciutigli da tutto il mondo. D’altronde, lo stesso lavorio di innovatori come Vinicio, Marchioro, Radice, Liedholm aveva gettato più d’un seme di rinnovamento prima dell’avvento sulla grande ribalta di Arrigo il rivoluzionario. Insomma, non è vero che prima delle sue scosse vitali il calcio italiano fosse fermo da quarant’anni.

Sulla base di questa doverosa premessa si può a pieno diritto tratteggiare l’avvento di Sacchi sulle grandi ribalte del calcio italiano nella seconda metà degli anni Ottanta come l’evento più innovativo dell’ultimo scorcio del secolo. Prima ancora che di un modulo, Sacchi si fa portavoce di una filosofia di gioco affrancata dal tradizionale pregiudizio legato alla natura casalinga o esterna dell’impegno. Per la prima volta una squadra italiana adotta il medesimo atteggiamento in casa e in trasferta, in quanto in ogni caso punta a imporre il proprio gioco prima che a sterilizzare quello altrui.

Arrigo Sacchi è in gran parte un autodidatta, non avendo calcato che marginalmente le scene del calcio, perdipiù solo dilettantistico. A spingerlo è una passione genuina, condita dall’ammirazione incondizionata per il calcio olandese degli anni Settanta, lontanissimo da quello italiano per capacità atletiche e carattere di iniziativa. Il papà, Augusto, ha giocato nella Spal e il piccolo Arrigo cresce con il pallone nel sangue. Di fonte materna è un aneddoto vagamente messianico: il futuro profeta ha appena cinque anni, quando viene sorpreso a concionare un capannello di persone nel parco delle Terme di Montecatini che assomiglia in modo impressionante a un gruppo di dottori nel tempio. Argomento, i massimi sistemi del calcio e l’Inter, la squadra del cuore.

Quando cresce in sapienza e fortezza, Arrigo segue l’inclinazione per il pallone, ma i primi calci nelle giovanili del Baracca Lugo non sono un granché. Gioca in difesa, ma i piedi gli sono nemici e a diciannove anni lascia il pallone e pure la scuola, a due mesi dalla fine di ragioneria. Fidando nella sua parlantina e nella disinvoltura con le lingue, il padre gli offre di lavorare per la sua ditta di scarpe, rappresentandola in giro per l’Europa. Cacciato dalla porta, il calcio rientra dalla finestra, perché all’estero Arrigo non resiste alla tentazione di dare un’occhiata ai sistemi di preparazione in voga nelle scuole più evolute, incrementando la propria amirazione per calciatori così più adusi di quelli italiani alla fatica atletica infrasettimanale.

Viaggiando, uno stereotipo lo colpisce come il presagio di una missione. Sono le tre cose per cui vanno famosi gli italiani nel mondo: la pizza, la mafia e il Catenaccio. La prima non si discute, la seconda è a occhio e croce fuori portata, per il terzo invece si può fare qualcosa. Quando torna in Italia, il fato ci mette lo zampino, con la proposta degli amici di rilevare il Fusignano che versa in cattive acque. A poco a poco alle mansioni di dirigente Sacchi aggiunge quelle di giocatore e infine di allenatore. L’avvio in panchina è disastroso, ma la carica dirigenziale gli risparmia il siluro ed è una fortuna, perché quando si passa a fare sul serio il Fusignano vince a destra e a manca, conquistando la promozione.

Arrigo Sacchi allenatore della Primavera del Cesena. Accosciato, si riconosce il portierone, futuro rossonero, Sebastiano Rossi
Arrigo Sacchi allenatore della Primavera del Cesena. Accosciato, si riconosce il portiere, futuro rossonero, Sebastiano Rossi

Il tirocinio continua nei dintorni romagnoli, Alfonsine, poi Bellaria, in D, con problemi di patentino. Perché anche per allenare, se si è fuori dal giro giusto, la strada non è facile. Così Sacchi decide di fare sul serio: lascia le scarpe di papà e si iscrive al Super-corso di Coverciano. Italo Allodi, inventore e direttore dell’accademia, lo segnala tra gli studendi modello del suo corso, forza di volontà e capacità di apprendi-mento non comuni. Il tirocinio ricomincia dalle giovanili del Cesena, dove svezza un bel po’ di talenti e conquista un titolo di categoria, prima di superare la prima prova tra i professionisti, a Rimini in C1, con un lusinghiero quarto posto finale.

Allodi lo porta tra i giovani della Fiorentina, poi rompe coi Pontello e Sacchi torna al Rimini, dove si ripete. E’ Parma tuttavia a offrirgli la svolta della carriera. A chiamarlo è Ernesto Ceresini, indimenticabile presidente dell’era pre-Parmalat e Sacchi innesta il turbo, prima conquistando la promozione in B e poi sfruttando al massimo la Coppa Italia che per quattro volte l’oppone al Milan, due volte sconfitto in casa al culmine di lezioni di gioco e rapidità di esecuzione. L’eliminazione incuriosisce il fresco patron rossonero, Silvio Berlusconi, che raccoglie notizie e poi saggia l’uomo in un incontro ravvicinato. E’ una folgorazione: Sacchi brucia Capello, efficace sostituto di Liedholm nel finale di stagione.

L’ingaggio di Sacchi suona blasfemo alle orecchie dei più, un azzardo che il Milan rischia di pagare caro, anche se dall’Olanda arrivano due tipi ben referenziati, Gullit e Van Basten. Ma come potrà gestire tanti campioni il mister che viene dalla provincia calcistica più marginale? Gli inizi in effetti sono stentati e la leggenda fiorisce, attorno al tecnico che da Parma ha voluto portarsi i terzini Mussi e Bianchi, pur avendo Tassotti e Maldini, e il regista Bortolazzi, giovane bravino ma fuori categoria tra quei marpioni. Il Milan viene fatto a fette dall’Espanol nel secondo turno di Coppa Uefa e quelli che la sanno lunga sulle scalee di San Siro scommettono sul siluro: il famoso panettone Arrigo dovrà mangiarlo a Fusignano.

Arrigo Sacchi e Silvio Berlusconi

Invece Berlusconi tiene duro, facendo quadrato attorno al tecnico così simile a un apprendista stregone. A primavera, quando il Napoli di Maradona crolla improvvisamente in vista del traguardo, il Milan di Gullit e Virdis (Van Basten è fuori per la via crucis delle caviglie) lancia lo sprint e coglie lo scudetto, grazie anche a una straripante salute atletica. La leggenda di Arrigo è avviata e tutti scoprono il nuovo fenomeno. Il suo Milan è costruito su trame di gioco provate e riprovate in allenamento, rese possibili da una esasperata preparazione atletica e dalla maniacale cura con cui il tecnico striglia gli allievi.

I superficiali parlano di zona, ma il progetto tattico è ben più ampio. A zona pura è schierata la difesa a quattro, fortissima nei singoli (Tassotti-Galli-Baresi-Maldini) e protetta dai meccanismi del centrocampo al punto da risultare alla fine la meno perforata di tutte. Nella zona mediana il pilone Ancelotti, centro motore della squadra, è assistito da due faticatori di fascia, Colombo a destra e Evani a sinistra. In avanti, Donadoni a destra e Gullit a sinistra inventano senza briglie sul collo con Virdis punta centrale di riferimento. Fedele alla scuola olandese, Sacchi esige un pressing ossessivo, che inaridisce le fonti di gioco avversarie fin dall’altrui area di rigore, e tiene corta la squadra con la tattica del fuorigioco e i rapidi contrattacchi, che ribattezzerà “ripartenze” per la gioia degli orecchianti.

Grazie a carichi di lavoro atletico settimanale sconosciuti alla maggior parte della concorrenza, la squadra sembra destinata a inaugurare un ciclo vincente. Impressione sbagliata: quello scudetto resterà senza seguito e il meglio Sacchi lo raccoglierà all’estero, grazie anche a una nebbia provvidenziale che lo salverà in Coppa dei Campioni a Belgrado da una situazione difficile, così avviando l’altra leggenda, quella della sua inossidabile fortuna, legata nell’immaginario popolare (e addirittura nella pubblicistica dell’epoca) alla parte del corpo con cui tiene i contatti con la panchina.

Sulle vetrine internazionali, in effetti, brilla il meglio del Milan. Memorabili alcune prestazioni, contro il Real Madrid e poi nell’Intercontinentale 1990 sull’Olimpia Asuncion, quando la squadra intera sembra volare sulle ali di un gioco redditizio e sublime. Ma sul fronte interno, ove più pesanti affondano i contraccolpi della routine quotidiana, il gruppo si imbizzarrisce qua e là come un purosangue che rifiuta l’ostacolo.

E’ il prezzo che Sacchi paga alla durezza del carattere e dei modi, indispensabili soprattutto all’inizio per imporsi a campioni di fama internazionale. I suoi urli, i suoi feroci rimproveri svaporano nell’aria ovattata di Milanello, dove si può sbuffare e guardare il cielo. Ma quando le circostanze proiettano gli allenamenti di Sacchi in mezzo al pubblico, sono dolori. A Tokyo, dove si gioca l’Intercontinentale, i big vengono strigliati sul campo come ragazzini alle prime armi sotto gli occhi incuriositi di tifosi, cronisti, teleoperatori. La cura ossessiva per il lavoro sfiora il sadismo. Il suo motto è: i giocatori guadagnano troppo per pretendere di divertirsi col calcio. Finché un giorno il culto della sofferenza diventa troppo pesante per tutti.

A secco entro i confini per tre stagioni consecutive, Berlusconi nella primavera del 1991 non è più così incrollabile nella difesa del suo pupillo, tra i protagonisti tra l’altro della poco edificante “fuga” dal match col Marsiglia in Coppa dei Campioni per l’avaria delle luci. Un giorno, Van Basten, a nome dei compagni, gli partecipa l’affetto collettivo nei confronti del mister con poche ma significative parole: «Presidente, o vìa lui o via noi».

La scelta è scontata e Berlusconi, che non vuole abbandonare in mezzo a una strada l’artefice della rinascita milanista, lo “appoggia” cortesemente alla Federcalcio, convincendone il presidente Matarrese che si tratta della soluzione ideale per il dopo-Vicini. Il candidato Trapattoni resta a bocca asciutta e Sacchi approda all’azzurro, proponendo fin dal primo giorno una “rivoluzione culturale”.

Roberto Baggio e Arrigo Sacchi: un rapporto contrastato

Saranno anni di tentativi, esperimenti, polemiche, con un picco positivo, il secondo posto ai Mondiali 1994, e uno negativo, l’eliminazione al primo turno dagli Europei del 1996. In realtà c’è anche un secondo picco, relativo agli emolumenti del tecnico, della cui portata miliardaria a lungo si favoleggia, finché un giorno un dirigente coperto dall’anonimato si premurerà di inviare copia del contratto alla stampa. Cifra del rinnovo dal 1992 al 1996: 11 miliardi e 621 milioni lordi, più i premi doppi rispetto a quelli dei giocatori. Un’enormità. Anche perché l’utopia del progetto non si è mai congiunta con la realtà. Un po’ per impossibilità oggettiva, negando i radi contatti con il gruppo dei giocatori ciò che l’assiduità del lavoro quotidiano consente. Un po’ a causa della mentalità di Sacchi, troppo perfezionista per negarsi il gusto di provare giocatori all’infinito, a costo di pagare il prezzo dell’inflazione di convocati.

Raramente la sua Nazionale ha avuto un volto preciso, raramente ha entusiasmato. E anzi, l’ossessione per gli schemi (tante soluzioni provate e riprovate fino a mandarle a memoria per non restare mai a secco in partita) ha finito col prevalere sugli estri individuali. Sostenuto fino al limite del culto religioso da una parte della critica convinta di vedere in lui il redentore del calcio italiano, Sacchi finirà col diventare oggetto di feroci caricature.

Il fiasco agli Europei 1996 era solo l’inizio di una catena di astensioni dal successo: dopo una disastrosa amichevole in Bosnia, Sacchi tornava con un discutibile blitz al Milan per sostituire il tecnico uruguaiano Oscar Tabarez, conseguendone una pronta eliminazione dalla Champions League e un campionato fallimentare concluso all’undicesimo posto. Non meglio andava il tentativo di recuperare credibilità all’estero, all’Atletico Madrid con un sontuoso contratto onorato solo per pochi mesi, prima di arrendersi a un eccesso di stress che ne consigliava l’abbandono dell’attività.

Ancora un tentativo nel 2001 con il Parma: poche partite in panchina per rendersi conto che ormai la stessa gli va stretta. Riciclatosi direttore tecnico sempre per il club di Tanzi, riesce a svolgere questo suo nuovo compito con ottima competenza, contribuendo a far emergere, tra l’altro, il talento di Alberto Gilardino. Dal 2004 al dicembre 2005 ultimo incarico, sempre come direttore tecnico, al Real Madrid, chiamato a gran voce dal presidente dei “galacticos” Florentino Perez. Tramonto precoce e malinconico di un grande innovatore incapace di rinnovare se stesso.