MAZZOLA Sandro: il Baffo nerazzurro

Ha vinto tutto quello che c’era da vincere, scudetti e coppe internazionali. Ha segnato gol storici e s’è visto affibbiare i soprannomi più svariati, dall’innocente «baffo» all’inquietante «padrino».


Sandro Mazzola nasce l’8 novembre 1942, una domenica, quasi una predestinazione per un futuro calciatore. Figlio del grandissimo Valentino Mazzola, inizia molto presto a calpestare un campo di calcio. Come mascotte del «grande Torino» posa nelle tradizionali inquadrature d’ante partita quando non ha nemmeno quattro anni. Il padre lo aveva infatti inserito subito nell’ambiente poiché per il piccolo Sandro non esisteva altro che il pallone come giocattolo preferito. E’ difficile dire se fin d’allora avesse già deciso quale doveva essere la sua carriera, un bimbo di quattro anni non è solito porsi certi problemi. Ma quando avviene la tragedia di Superga, e siamo nel 1949, il piccolo Mazzola ha poco meno di sette anni e si sente impegnato a continuare un giorno le gesta del padre.

Dopo la tragedia Sandro e suo fratello Ferruccio rimangono nell’ambiente calcistico. La madre è costretta a trasferirsi a Cassano d’Adda, nella grande periferia di Milano, sia per la poca sollecitudine del Torino a risolvere i molti problemi della famiglia, sia perché l’ambiente natale del grande Valentino avrebbe potuto meglio aiutarla. Ed è così che i due fratelli Mazzola crescono in questa cittadina di provincia frequentando la scuola e giocando al calcio sul Campetto parrocchiale. Nell’ambiente del grande calcio i due fratelli rimangono per merito di un toscanaccio polemico, dal cuore grande come una casa che allora giocava nell’Inter del Presidente Masseroni.

Quel toscanaccio di Benito Lorenzi, brontolone, sempre in polemica con qualcuno, e proprio per questo soprannominato «Veleno». Lorenzi, quando l’Inter gioca a San Siro, se ne andava a Cassano a prelevare i due ragazzi e li porta nel grande stadio milanese ad assistere alla partita dai bordi del campo con la maglia nerazzurra con il biscione sul petto. Per Sandro, però, prima di staccare il primo cartellino dell’Inter c’è spazio per un breve intermezzo in una squadra dilettantistica, l’U.S. Milanese, dove rimane però un solo anno.

A quindici anni, settembre del 1957, comincia gli allenamenti nelle giovanili dell’Inter. Per maestri, avrà, in tempi diversi, Peppino Meazza e Giovanni Ferrari, Maino Neri e Benito Lorenzi, e quest’ultimo è forse l’uomo che influisce di più sul suo carattere di giocatore. Lorenzi, infatti, è un giocatore combattivo e tenace: polemico quanto si vuole ma anche capace di una generosità a tutta prova, non accetta la sconfitta se non al fischio finale e dopo, al posto delle gambe muove la lingua. Un giocatore che a perdere non ci sta mai, e lo ripete spesso a Sandro: «Ricordati che quando si va in campo bisogna essere convinti e sicuri della vittoria. Non pensare mai alla sconfitta».

E Sandrino di questi insegnamenti ne fa tesoro, anche se intorno a lui le perplessità sono molte. Innanzitutto, fisicamente non è proprio il massimo. Alto e sottile, con il torace che non ha nulla di atletico, e che per di più gioca a centrocampo, dove le qualità stentano maledettamente ad evidenziarsi. Nelle «giovanili» gli elementi di spicco sono quasi sempre o attaccanti o difensori e anche per queste ragioni le ironie sul suo conto si sprecano. Non è difficile sentire fra il pubblico frasi di questo genere: «Se quella pertica si chiamasse Rossi, non giocherebbe certamente nelle giovanili dell’Inter». Malvagità belle e buone, perché Sandro, pur con quel fisico poco prestante, ricopre zone di campo incredibili e gioca tutto per la squadra, senza mai eccedere in personalismi. Lo scatto breve lo usa principalmente come cambio di marcia per liberarsi dalla marcatura dell’avversario, ma raramente fa sfoggio di questa sua caratteristica per avventarsi nell’area di rigore e trasformare in gol.

Abbiamo visto sopra le persone che nel tempo hanno plasmato il giovane Sandro. Peppino Meazza lo seguiva con passione così come Gioanin Ferrari e Maino Neri. Questi allevatori di giovani speranze, erano stati amici del grande Valentino, ma il di là della comprensione per la tragedia umana che aveva colpito la famiglia, lo trattarono come qualsiasi altro ragazzo della squadra. Abbiamo visto come Benito Lorenzi lo seguisse con le attenzioni di un padre, interessandosi della sua carriera e aiutandolo con consigli che gli derivavano dalla sua esperienza di calciatore. In casa, poi, Sandrino si affidava a Piero Taggini, che aveva sposato sua madre, e che dava ai due fratelli quel calore umano di cui era ricco. Nel destino di Sandrino queste persone hanno contato molto, ma il «Pigmalione» della sua carriera doveva ancora arrivare…

Verso la fine degli anni ’50, il futuro «Pigmalione» di Sandrino Mazzola sta infuocando la Spagna con le sue polemiche violente, facendo la guerra al grande Real di Alfredo Di Stefano. Ci riferiamo, è ovvio, a Helenio Herrera che, «conducator» del Barcellona, sta facendo man bassa di tutti i titoli spagnoli. Decide di rispondere affermativamente alle lusinghiere proposte che gli arrivano da un petroliere milanese. Angelo Moratti, infatti, che era presidente dell’Inter dal Settembre del ’55, non aveva avuto molta fortuna fino ad allora.

Salito alla presidenza con l’ambizione di vincere almeno uno scudetto, nel primo quinquennio della sua gestione era stato costretto a licenziare una decina di allenatori, a spendere un mare di soldi per acquisti sbagliati e con risultati deprimenti, tanto da fargli pensare all’abbandono. Ma nel corso della Coppa delle Fiere del ’59-60, Moratti assiste alla doppia sconfitta dell’Inter ad opera del Barcellona e questa opportunità lo spinge a prendere contatti con il futuro “Mago”. I due riescono a concordare un incontro e il contratto è siglato ancora prima che il Barcellona termini campionato e Coppa dei Campioni.

Herrera vuole nel precampionato a San Pellegrino anche i giovani per farsi una idea delle forze di supporto dell’Inter. Nelle sue relazioni considera attentamente le possibilità di Facchetti e Mazzola, e per quest’ultimo, rilevando che il ragazzo dispone di uno scatto considerevole, lascia intendere che forse fino ad allora era stato impiegato in campo in modo errato. Herrera segue abitualmente le squadre ragazzi in quanto da sempre grande estimatore dei vivai ed attento analizzatore delle possibilità future di molti ragazzi che allora erano alle dipendenze dell’Inter.

E infatti, mentre Facchetti è visto da tutti come un futuro campione, per Mazzola, che Herrera ha indicato come una dei giovani più interessanti, incontra resistenze piuttosto tenaci. Non sono molti, all’Inter, convinti delle capacità di Mazzola, ma Herrera non si preoccupa minimamente della diversità di opinione di alcuni dirigenti. A decidere è lui, nei colloqui con il ragazzo gli fa balenare la possibilità di giocare in prima squadra in breve tempo e gli preventiva un futuro da campione.

Sandrino gioca in quella che ora si chiama «Primavera» assieme alle speranze della società. Durante il campionato ’60-61, a Torino, nel corso dell’incontro fra Juventus e Inter, la folla strabocchevole invade il terreno di gioco e si assiepa ai bordi del campo. Questo avviene alla 28.a giornata e la partita è decisiva per l’assegnazione dello scudetto. L’arbitro Gambarotta, al 31′ del primo tempo rimanda le squadre agli spogliatoi. Il regolamento è abbastanza chiaro. In casi del genere, la vittoria va attribuita alla squadra ospite. Supportata da precedenti simili, dieci giorni più tardi la Lega assegna il 2-0 all’Inter, che torna a intravvedere lo scudetto.
Ma il 3 giugno, alla vigilia della domenica conclusiva del campionato, la Caf accoglie il reclamo della Juve e decide che la partita va rigiocata, suggellando in pratica lo scudetto numero 12 dei bianconeri.

L’Inter si ritiene lesa nei propri diritti e il 10 giugno del ’61, data designata per la disputa del recupero, Herrera manda in campo la squadra ragazzi, con ciò infrangendo l’articolo del regolamento che impone alle società di mandare sul terreno di gioco la migliore formazione possibile. Vince facile la Juventus (9-1) con Sivori che nell’occasione eguaglia il record delle reti segnate in un incontro di campionato detenuto da Piola fin dagli anni 30 con 6 reti. L’episodio fin qui trattato interessa unicamente perchè nella squadra che Helenio Herrera ha mandato ad incontrare i bianconeri fa parte Sandrino Mazzola, assieme ad altri giovani come Annibale e Gugliemoni che si segnaleranno poi nel campionato italiano.

Mazzola debutta quindi in serie A proprio a Torino, davanti a quel pubblico che per tanto tempo aveva applaudito suo padre. All’inizio l’accoglienza non è molto convinta, l’applauso è più diretto al ricordo del passato, un saluto affettuoso ad un ragazzo che intende seguire le gesta del padre. Alla fine, sebbene la formazione nerazzurra fosse stata duramente battuta, gli applausi che salutano l’uscita dal terreno di gioco di quegli undici ragazzi è più consistente e convinto. «Mazzolino», come viene definito da alcuni giornali, ha disputato la sua brava partita senza mostrare la pur minima emozione anche quando l’arbitro Gambarotta assegna un rigore ai nerazzurri e Sandro lo trasforma con sicurezza.

Quella prima apparizione in serie A, dovuta a circostanze contingenti, è seguita l’anno dopo dal debutto vero e proprio nelle file della sua Inter nell’ultima partita di un campionato che il Milan si è già assicurato. Herrera lo schiera infatti nell’Inter che batte il Lecco per 3-0 con i nerazzurri che scheriano: Buffon; Masiero, Facchetti; Bolchi, Della Giovanna, Picchi; Morbello, Mazzola, Hitchens, Suarez, Corso.

Helenio Herrera ha promesso a Mazzola che nel campionato ’62-63 sarebbe partito titolare. Complice della decisione anche il buonissimo comportamento della squadra giovanile dell’Inter nel 14. Torneo Carnevale di Viareggio. L’Inter, che non aveva mai vinto la manifestazione, riesce ad accedere alle finali e contro la Fiorentina si impone per 2-1 e Mazzola e Boninsegna si meritano la segnalazione fra i migliori elementi dell’intero Torneo. E’ questo, forse, il passo decisivo della futura carriera di Sandrino.

Seguendo i consigli di Herrera, Mazzola gioca come mezza punta per sfruttare al meglio lo scatto bruciante del quale è dotato. In pratica da uomo di regia, ruolo al quale si sente vocato, si trasforma in realizzatore del gioco altrui, costretto ad assumere quel pizzico di egoismo che il «goleador» deve avere nel proprio bagaglio tecnico.

Dal giorno del trionfo di Viareggio, nel giro di un paio di stagioni, Mazzola diventa rapidamente una delle più belle realtà del calcio italiano, e si prende le sue solenni rivincite sugli scettici che insultavano la sua passione e le sue capacità ad inizio carriera. Nel campionato ’62-63 Herrera mantiene le promesse schierandolo come titolare e Sandrino con i suoi gol (10) contribuisce non poco alla conquista dello scudetto tanto agognato da Moratti. In quella stagione storica, che vede finalmente il «mago» conquistare il primo alloro italiano al terzo tentativo, si ha la definitiva consacrazione di Mazzola.

Anche i selezionatori della Nazionale iniziano ad interessarsi a lui. Nello sforzo di rinnovamento che il Commissario Unico Edmondo Fabbri intraprende dopo l’ennesima deludente spedizione in Cile nel ’62, Sandrino trovò un posto ben preciso. Il 20 marzo del ’63 si giocò a Firenze un incontro amichevole con la Bulgaria B. Mazzola è inserito in quella formazione sperimentale assieme a giocatori come Domenghini, Burgnich, Guarneri e Picchi che stanno facendo come lui i primi passi in azzurro.

Si merita subito la promozione alla nazionale maggiore. Una Nazionale, che sta sbocciando con una fioritura di grandissimi campioni, anche se poi incorre poi nel naufragio di Middlesbrough (sconfitta 0-1 con la Corea del Nord, Campionati del Mondo 1966). Le basi dello squadrone azzurro che vincerà poi il Campionato Europeo 1968 e conquisterà lo storico secondo posto ai Mondiali in Messico, nasce sotto la guida di Mondino Fabbri. Fabbri seguiva un programma di impegni difficili alternati a impegni definiti facili per formare un nucleo di giocatori adatti ad assicurare un futuro alla Nazionale azzurra. Per tale programma accetta con piacere l’impegno che prevedeva per il 12 maggio del ’63 un incontro con un Brasile campione del mondo in carica.

Due debuttanti, Mazzola e Guarneri, una squadra complessivamente molto giovane, dove la parte degli anziani è sostenuta da Maldini, Salvadore e Trapattoni, che neutralizza abbastanza agevolmente Pelè, complice la cattiva condizione fisica del fuoriclasse brasiliano che quasi alla mezz’ora del primo tempo lascia il posto a Quarentinha. Al 35′ Sormani sbloccò il risultato raccogliendo una corta respinta di Gilmar susseguente ad un violentissimo tiro di Rivera. Quattro minuti dopo, Dias atterrava lo stesso Sormani. in piena area, e l’arbitro assegna il rigore agli azzurri. Sormani, designato da Fabbri a battere le punizioni dagli undici metri, lascia l’incarico a Rivera e questi fa segno a Mazzola se si sente di battere il rigore. Sandrino raccoglie la sfida, piazza la palla sul dischetto, guardò ben dritto negli occhi Gilmar, campione del mondo, per cercare di intuirne le intenzioni, e spara forte dal basso in alto; la palla si insacca nell’angolino alto alla sinistra di Gilmar. E’ con questa prestazione Mazzola conquista il suo buon diritto a vestire la maglia della Nazionale.

La conquista dello scudetto assegna alla squadra di Herrera il diritto a partecipare alla Coppa dei Campioni del ’63-64 e il primo impegno prevede un banco di prova molto difficile. Il sorteggio assegna l’Everton, lo squadrone di Liverpool, che vanta nelle sue file giocatori come Labone, Kay e Vernon. Il doppio confronto con l’Everton si conclude con una rete di Jair nell’incontro di Milano, dopo che al Goodison Park l’Inter aveva sofferto non poco per l’arrembante assalto degli inglesi. Con Monaco e Partizan di Belgrado, l’Inter si qualifica abbastanza agevolmente mentre Mazzola, con le reti messe a segno contro francesi (2) e jugoslavi (1), scala la classifica cannonieri del Torneo.

Qualche difficoltà gli uomini di Herrera la incontrano nell’incontro con il Borussia Dortmund. In terra tedesca il centravanti Brungs segnare due reti che Corso e Mazzola riescono a pareggiare con molta fatica. A Milano, poi, Jair e ancora Mazzola spalancano ai nerazzurri le porte della finale con il Real che si presenta al big match con una esperienza a tutta prova e con ambizione del tutto simile a quella dei milanesi.

Il Prater di Vienna la sera del 27 maggio è stracolmo, 72000 spettatori, con molte carovane di tifosi italiani e spagnoli che invadono la vecchia capitale asburgica. L’Inter, chiusa a riccio nella propria metà campo, controlla le sfuriate iniziali di Amancio e Di Stefano che convergono il gioco sull’appesantito Puskas, controllato da Guarneri; Mazzola il cui guardiano è Zoco che spesso gli lascia ampi spazi, staziona sul centrocampo pronto a sfruttare l’arma con la quale Herrera spera di trafiggere i rivali di sempre.

Al 42′ del primo tempo la prima rete. Sulla tre quarti nerazzurra, Guarneri toglie una palla a Puskas e la smista sulla sinistra a Facchetti, questi, dopo una breve volata serve di precisione Mazzola che controlla rapidamente la palla e con un tiro preciso la colloca alle spalle di Vicente. Alla rete di Mazzola segue un palo di Gento in apertura di ripresa e poi il raddoppio di Milani al 61′, e quando il ritorno dei madrileni si fa più insistente dopo che Felo al 70′ ha accorciato le distanze, ancora in una classica manovra di contropiede Mazzola ruba la palla a Santamaria e trafigge Vicente in uscita: 3-1, quindi, e vittoria meritatissima dei nerazzurri.

La vittoria nella Coppa dei Campioni dà ai nerazzurri un titolo prestigioso e ciò forse influisce a saziarne l’appetito. Di lì a pochi giorni si gioca infatti lo spareggio per l’assegnazione dello scudetto, avversario un Bologna che ha saputo eguagliare le imprese dei milanesi e ben deciso a vendere cara la pelle dopo le polemiche furibonde per il caso del «doping» che ha caratterizzato il finale del Campionato. Nella finale di Roma, il Bologna organizza al meglio le residue energie, l’Inter tenta la manovra che così bene aveva funzionato con il Real, ma i rossoblu, più guardinghi e grazie al gran gioco spumeggiante di Haller e Bulgarelli, Fogli e Nielsen, riescono ad imporre ai nerazzurri un rotondo 2-0 scaturito dalle reti di Fogli e Nielsen e conquistano così lo scudetto che non vincevano da ventiquattro anni.

L’Inter si consola della imprevista sconfitta aggiungendo alla Coppa dei Campioni, la Coppa Intercontinentale, avversario tenace e combattivo l’Independiente di Avellaneda. Per due stagioni l’Inter di Mazzola domina la scena europea e mondiale, vincendo tutto quanto c’era da vincere per le squadre di club. In Nazionale, invece, Mazzola fa parte della spedizione inglese che si conclude con la drammatica eliminazione da parte dei nord-coreani. Il brutto episodio segna un momento abbastanza squallido nella scena dei calcio italiano, che l’anno dopo perde anche la possibilità di una ulteriore vittoria in Coppa Campioni, proprio con l’Inter che a Lisbona si fa battere dal Celtic nella finale, dopo aver condotto quasi interamente la gara per un rigore trasformato da Mazzola. Finisce invece con la vittoria degli scozzesi con il minimo scarto e quella fu l’ultima esibizione Europea di un certo valore della grande Inter di Herrera.

Nel frattempo Artemio Franchi, dopo la battaglia d’Inghilterra del 1966 vergognosamente perduta, e dopo un interregno del duo Helenio Herrera-Ferruccio Valcareggi, affida a quest’ultimo la conduzione della rappresentativa azzurra. Valcareggi, oltre all’aria del vecchio saggio, non raccoglie insinuazioni, non alimenta polemiche, ha poche idee ma precise e non dà retta a nessuno. E’ un vecchio saggio anche nel comportamento oltre che nell’aspetto e che la scelta di Franchi è felice lo si vede subito. La squadra azzurra abbandona le retrovie del calcio europeo e balza ai primi posti.

Nel ’68 sono programmate in Italia le finali del Campionato Europeo per squadre nazionali. Gli azzurri affrontano prima la Russia e riescono ad eliminarla solo per l’intervento della dea bendata, sotto forma della monetina lanciata dall’arbitro Tschenscher. Per la finale con la Jugoslavia è necessario un doppio incontro a distanza di due giorni, poiché la prima finale giocata a Roma 18 giugno è terminata in parità (1-1) con reti di Dzaijc e Domenghini. Mazzola, che non ha partecipato alla prima finale, poiché gli è stato preferito il napoletano Juliano, gioca contro la Jugoslavia la sua migliore partita in azzurro schierato a centrocampo, in cabina di regia, nel ruolo che ha sempre sognato. Riva e Anastasi segnano le reti della vittoria azzurra, ma chi raccoglie gli unanimi consensi della stampa è proprio Mazzola.

Una grande prestazione che lascia presagire un seguito, ma le polemiche riprendono subito il sopravvento con il dualismo Mazzola-Rivera con cui si giunge all’assurda contestazione del secondo posto meritatamente conseguito in Messico, con Sandro forse il migliore degli azzurri in quella occasione per continuità di rendimento e concentrazione nell’impegno.

Dopo i Mondiali del Messico, a ventotto anni, con un palmares ricco di titoli prestigiosi, Mazzola gioca la carta della regia nella sua Inter. La società nerazzurra, che dopo i trionfi della gestione Herrera non ha intrapreso la strada di un ragionevole rinnovamento, decade leggermente nei confronti di Juventus, Milan, Fiorentina e Cagliari che vinsero nell’ordine gli scudetti ’66-67, ’67-68, ’68-69, ’69-70. Ed è appunto nella stagione successiva ai Mondiali messicani che l’Inter riprende in mano la situazione e con Mazzola, Boninsegna, Facchetti e Corso riesce ad attingere i vertici abituali durante la gestione Herrera. A quasi due terzi del torneo, il Milan di Rivera sembra imprendibile per il vantaggio sapientemente accumulato, ma la tabella che i «senatori» dell’Inter hanno preparato si dimostra efficace e dopo un fantastico inseguimento il Milan è raggiunto e superato sulla retta di arrivo.

E’ l’ultimo grande successo della grande Inter e l’anno dopo, nella Coppa dei Campioni, i nerazzurri raggiungono la finale di Rotterdam contro i nuovi dominatori della scena Europea: l’Ajax di Cruijff. Non c’è scampo nella finale, il fuoriclasse olandese, con una doppietta fantastica, frustra le speranze restauratrici degli interisti. Da allora in poi molti errori societari costringono Mazzola ad esibizioni non certamente all’altezza del suo passato. In campionato, ruoli subalterni allo strapotere torinese; in Nazionale, dopo Monaco ’74, la giubilazione dalla maglia azzurra con motivazioni per lo meno discutibili. Nella sua ultima stagione (1976-77) si eleva spessissimo a vertici di rendimento eccelsi, senza però che la squadra lo segua nelle sue invenzioni geniali.

Un’intervista storica: l’ultima rilasciata da Mazzola prima del suo ritiro

di Franco Costa
Stampa Sera 4 luglio 1977

Appiano Gentile, 3 luglio. L’annuncio ufficiale verrà dato nelle prossime ore, forse già domani, o martedì. Ma ormai è deciso, come anticipato da tutti i giornali nel giorni scorsi: Sandro Mazzola lascia il calcio agonistico per diventare, con decorrenza immediata, direttore generale dell’Inter. Il suo è un congedo doloroso, non soltanto per i tifosi dell’Inter. Si chiude un’epoca, si spegne una dinastia tramandata da capitan Valentino a capitan Sandro e che, forse, un giorno ritornerà viva con un altro Sandro Mazzola, figlio dell’alfiere nerazzurro. Oggi è un bambino di nove anni, dotato, a detta del padre, di una classe naturale. Figlio d’arte, indiscutibilmente, però è ancora presto per stabilire se potrà raccogliere l’eredità lasciata da nonno e papà. Stasera in occasione delle finale di Coppa Italia contro il Milan, Mazzola ha disputato la sua ultima partita con la maglia neroazzurra. Più che i novanta minuti, più che l’immediato prima e dopo partita, abbiamo pensato di raccontarvi questo suo ultimo giorno. Abbiamo frugato, per ore, nel suol pensieri e nel suo stato d’animo, abbiamo ripercorso il passato, analizzato il presente e accennato al futuro. Dalle dieci del mattino, ad Appiano Gentile, sino a stasera, ci siamo parlati. In queste ore Sandro ha dato un calcio alla diplomazia, ha risposto come sa rispondere lui quando decide di rispondere, esaltando la figura di un uomo che è pari a quella del giocatore.

— Che cosa prova nell’imminenza della sua ultima partita?
«Probabilmente sarà la mia ultima partita, è vero, ma fino a quando non l’avrò conclusa, mi sentirò ancora giocatore. Sono un po’ nervoso, un po’ teso, anche per l’effetto del derby che avverto sempre in modo particolare, però oggi sono ancora il capitano dell’Inter, quindi giocatore. Domani sarà un altro giorno. Contrariamente al solito stanotte ho dormito poco, mi sono svegliato presto. Non è una domenica come le altre, lo so. Giovedì, Giancarlo Cella mi ha invitato in sede dicendomi che bisognava far festa attorno al settore giovanile. Ho accettato, di cuor leggero. Invece la festa era per me, mi avevano preparato la sorpresa. Mi hanno anche regalato una medaglia d’oro. Allora mi sono alzato per dire due parole. Mentre parlavo, con il cuore gonfio, ho intravisto accanto a me Lorenzi, l’uomo che mi aveva portato all’Inter tanti anni fa. Aveva gli occhi lucidi, bastava lo guardassi e ci saremmo messi a piangere tutti e due come bambini. Non l’ho fatto, ho resistito, però Lorenzi ci ha lasciati prima degli altri, con una scusa. C’è gente che mi telefona, che mi scrive. Molti vorrebbero continuassi a giocare, pochi che diventassi il direttore generalo. Ma ho già deciso. Soltanto qualcosa di straordinario potrebbe farmi recedere da questa decisione».

— Quel qualcosa di straordinario potrebbe essere la Coppa del Campioni con la Juventus
«No. E’ vero che Boniperti mi ha chiesto di andare alla Juventus, ma lo fa tutte le volte che mi incontra, da anni. Fra me e Boniperti c’è un rapporto che è configurato in una grande stima reciproca. Da parte mia, debbo aggiungere che, al di fuori dell’Inter, è stata l’unica persona che mi ha fatto un favore precedentemente richiestogli, per una certa cosa. Me lo ha fatto nonostante in quel periodo fosse impegnatissimo con la campagna acquisti. Non sto a dire quando e per che cosa, però io, che non sono abituato a chiedere elemosine in giro, sono rimasto commosso per quel gesto che riguardava un’altra persona. L’ha fatto in perfetta scioltezza, senza farmene avvertire il peso, ma io ho dato molta importanza all’episodio. Questo è servito soltanto ad incrementare una stima che ho profonda nel confronti del presidente bianconero. Comunque quel qualcosa di straordinario cui alludevo non riguarda la Coppa dei Campioni con la Juventus. Appunto perché è straordinario non posso prevederlo. Soltanto voglio lasciare una piccola finestra aperta alla mia decisione».

— Perché l’ha presa questa decisione?
«lo penso che il matrimonio fra l’Inter e Mazzola sia stato un matrimonio riuscito perché gli interessi delle due parti collimavano, io credo che gli interessi delle due parti possano collimare soltanto se si verifica una nuova situazione, cioè se io collaboro non più come giocatore ma come dirigente. Sia chiaro: due anni in campo li posso ancora reggere, bene o male, ma sarebbe un compromesso, magari l’Inter continua ad arrivare quarta o quinta in campionato e non si risolve niente. Intanto alle squadre torinesi, che oggi sono dei mostri, si offrirebbe altro tempo per incrementare la loro egemonia. Magari non succede niente, anche se Mazzola fa il dirigente, però ci provo e d’altronde se avessi continuato a giocare, non sarebbe arrivato Beltrami, non sarebbe arrivato Borsellini, non avremmo impostato una certa politica sui giovani, io credo che domani Mazzola sia più utile come dirigente che come giocatore, anche se come calciatore so benissimo che guadagnerei tre volte tanto quello che posso percepire in altra veste. Si tratta in sostanza di fare un tentativo per riportare il calcio milanese a galla, e quello dell’Inter in particolare, in modo da spezzare l’egemonia torinese. Dobbiamo crescere i giovani, evitare di andare da Fraizzoli per dirgli: presidente, occorrono due miliardi se vogliamo quel giocatore. Bisogna davvero ricominciare seriamente da capo. Se ci mettiamo a contrastare, oltre a tutto, la Juventus sul piano degli acquisti nel mercato estivo stiamo freschi, lei arriva sempre prima di tutte. Ecco, dunque, perché occorre modificare una certa politica».

Prende flato e continua:
«Ho preso questa decisione anche perché ritengo di avere un debito di riconoscenza nei confronti dell’Inter. E’ stata la squadra che mi ha preso la mano, prelevandomi da un paesino sperduto, la pur bella Cassano d’Adda, e mi ha fatto giocare. O Dio, ho sempre dato il massimo, non c’è stata partita in tutti questi anni al termine della quale io abbia lasciato il campo senza dirmi: più di cosi non potevo fare. Ho dato e sono stato pagato, non vivo di rendita, perché nessun calciatore quando smette per tanto che abbia guadagnato può vivere di rendita nonostante le storie che si raccontano. Ma proprio per questo debito di riconoscenza non mi sento di andare in giro per gli stadi a raccogliere ancora qualche applauso e molti soldi, trascurando una società che secondo me va valutata per risollevarsi. E poi c’è un ultimo fatto, io in questi anni ho giocato sempre a certi livelli. Non so se nella prossima stagione potrò ancora vantarmi di essere Mazzola. In questa ho saltato due partite e un solo allenamento. Potrò fare altrettanto in futuro, visto che fra pochi mesi compio 35 anni?».

– Perché avete scelto Bersellini?
«Perché mi piace. Ne ho parlato con Beltrami, anche a lui piace perché lo conosce bene e riteniamo che in un piano di ristrutturazione dell’Inter Bersellini con le sue qualità sia l’uomo più adatto, fra quelli che potevano interessarci».
– Rivediamo insieme il suo passato. Siamo alla scadenza del suo contratto come giocatore. Si chiude un’epoca, legata a Riva, a lei e ad altri. In tanti anni di successo, tuttavia, non c’è mai stato da parte sua un errore che le sia rimasto particolarmente impresso e che non si perdona? «Ne ho commessi molti, anche perché non sono un calcolatore come si dice, ma un istintivo, per lo meno lo ero, e se volevo raggiungere un traguardo mi Interessava farlo subito. Il più grosso errore, tuttavia, è stato quello di accettare la maglia numero sette in Nazionale. Mi sono lasciato convincere, in un certo senso mi sono lasciato raggirare. Era un non senso, perché se io non appartengo al vivo del gioco, non sono Mazzola, se devo stare un quarto d’ora ad attendere la palla, confinato all’ala, il mio modo di esprimermi non serve a nessuno, non soltanto a me stesso, lo avevo accettato, io mi ero sottomesso a quel sacrificio, però la cosa è stata presentata in altro modo, mi hanno fatto persino passare per un balordo che voleva soltanto togliere il posto a Rivera. Ai tempi dei Mondiali in Messico mia moglie in Italia non poteva uscire di casa senza che l’insultassero. E allora mi sono accorto che quel compromesso era stato un grosso sbaglio, del quale pagava le conseguenze persino la mia famiglia, anche se soltanto per colpa di quattro barboni che sono soliti urlare per strada. Mi rinfacciavano il fatto che pur di giocare avevo accettato anche la maglia numero sette. Invece il discorso era ben diverso. A me Valcareggi aveva detto: “Tu indossi la maglia numero sette ma vai dove vuoi”. Una volta in campo mi diceva: “Tu hai la maglia numero sette, gioca largo”. Se andavo in mezzo mi dicevano che non volevo fare l’ala, se facevo l’ala mi dicevano che non volevo giocare».

– E c’è stata la staffetta.
«Sì, anche quello era un compromesso. Ma a Torino, contro la Jugoslavia, quando mi hanno chiesto di fare ancora la staffetta con Rivera, io ho rifiutato, c’era Carraro testimone. Carraro mi ha pregato di accettarla perché ormai la notizia era stata data ai giornali. Allora io ho replicato: “Va bene, ma sia l’ultima volta. La staffetta non la faccio più”. Così è stato. Ho detto anche: non chiedo di giocare, chiedo soltanto di non giocare a mezzo servizio. O servo o non servo. Piuttosto lasciatemi fuori. Sandrino in maglia nerazzurra ed in Nazionale Deve sapere che a quei tempi i miei rapporti con Valcareggi non erano buoni, anzi non ci parlavamo proprio fin dal 1968 per una questione che non sto qui a ricordare. Contro l’Israele, in Messico nel 1970, quando levò di squadra Domenghini, che si arrabbiò moltissimo, io andai da lui, perché lo vedevo in difficoltà, e gli dissi: “Senta, proprio perché abbiamo litigato, lei non deve temere che io faccia chiasso se mi toglie di squadra. Qui si tratta di andare avanti tutti Insieme”. Anche quello fu un errore perché io dovevo stare zitto, come facevano tanti. Cosi mi tolse di squadra nella partita contro il Messico dopo il primo tempo. Se avessimo utilizzato meglio gli uomini disponibili, invece di cercare compromessi, alla finale con il Brasile ci saremmo arrivati almeno freschi, o quasi. Comunque è passato, non pensiamoci più. Per quanto riguarda questa Nazionale, che piace a tutti, io dico che avremmo potuto arrivarci ugualmente anche con Mazzola perché fino a ieri hanno giocato Cordova, Capello, Juliano. Non vedo perché non potevo starci anch’io. Forse, dopo Monaco, nessuno pensava che “tenessi” come ho tenuto in questi tre anni».

– Dicono che lei sia II padrino dell’Inter, per attribuirle un’etichetta mafiosa. Non ha mai fatto dei torti a qualcuno, in particolare a qualche suo compagno di squadra?
«Sono state dette tante cose sul mio conto, lo rispondo semplicemente: ho dato dei consigli per gli acquisti, non ho mai consigliato una cessione. Se mi hanno chiesto dei pareri è perché ritenevano che potessi darli onestamente. Davvero, sul mio conto è stata fatta una letteratura. All’inizio della carriera insinuavano che fossi addirittura “effemminato”, poi che facevo fuori i giocatori o gli allenatori che mi erano antipatici, quindi ne hanno aggiunte di cotte e di crude. Alla resa dei conti si sono rassegnati all’idea di un uomo normale, schietto, che nella sua vita ha accettato pochi compromessi, tipo quelli della maglia numero sette. Però a uno come me bisognava sempre dire o rinfacciare qualcosa e alla fine non ho più badato a nessuno. La verità la conosce soltanto chi mi frequenta, questo mi basta».

– E non ha mal corso il rischio di lasciare l’Inter?
«Due volte. La prima fu nel ’70 quando c’era Heriberto Herrera. Si era creata una situazione piuttosto antipatica nell’Inter, c’erano cose che non mi andavano bene. La Juventus mi voleva, me lo ha fatto sapere, e io ho chiesto di andare a Torino. Ho parlato con Fraizzoli, però il presidente non mi ha ceduto, mi ha offerto determinate garanzie e sono rimasto. A pensarci bene tutti gli anni avrei potuto andare alla società bianconera. C’è stata una seconda volta. Fu il primo anno di Chiappella, nel 1975. Anche in quell’occasione si era creata una situazione antipatica, volevo andarmene. Infatti all’inizio dell’anno non avevo ancora firmato il contratto. Mi sarebbe piaciuto essere trasferito alla Juventus e la Juventus mi avrebbe preso, invece l’Inter stava per firmare il contratto della mia cessione alla Fiorentina. Anche In questo caso all’ultimo momento è saltato tutto e ci siamo accordati con la società neroazzurra. Pure alla Fiorentina, comunque, sarei andato. Ma si vede che il mio matrimonio con l’Inter doveva essere indissolubile».

– E domani?
«Domani, come le ho già detto, è un altro giorno, spero con la Coppa Italia in mano. Adesso che manca poco alla partita divento sempre più nervoso. A casa si è parlato tanto con mia moglie di questa mia decisione. Credo sia irrevocabile per i motivi che ho esposto. Mi auguro che in futuro mio figlio possa rivivere i successi di suo padre e di suo nonno. Però ho anche tanta paura che non riesca in questo e allora rischierebbe di diventare un frustrato per tutta la vita. Per me, che ero figlio di Valentino, è stato difficile due volte affermarmi, farmi volere bene e non sempre ci sono riuscito. Per lui che è nipote di Valentino e figlio di Sandro sarebbe tre volte difficile. Però gioca che è un sogno…».