SARTI Giuliano: la rivoluzione tra i pali

La storia del primo numero uno che uscì dalla porta: «Ero di ghiaccio, ho inventato un nuovo modo di parare»

Questa è la storia del portiere di ghiaccio. Era semplice, non giocava per «il loggione», non faceva l’acrobata e il saltimbanco, non si esibiva. Parava. Credeva nel calcio scientifico, si piazzava freddo al centro della porta, calcolava dove la palla poteva arrivare e parava bene, parava tutto. Arrivò in serie A a 21 anni, dalla Bondenese, una squadretta del ferrarese. Il dottor Fulvio Bernardini disse: «E’ un fenomeno, è già nel futuro». Il mago Helenio Herrera dichiarò: «El hombre de la revolucion». L’uomo della rivoluzione.

Giuliano Sarti nasce a Castello d’Argile, oggi parte della città metropolitana di Bologna, il 2 ottobre 1933. I primi ricordi: la guerra, la rinascita e la fatica del papà fruttivendolo. E’ alto e magro e non ha paura di niente. Il babbo lo manda a vendere i carciofi e i limoni: parte con la bicicletta per le campagne e i paesi. Bicicletta pesante, strade in terra battuta, un cesto davanti e uno dietro. “Torna a casa vuoto”, gli dice il babbo. Lo pagano con le uova, si baratta con i contadini. Poi il babbo comincia a comprare i semi di zucca salati, i brustolini, e manda Giuliano a venderli alle vecchiette e agli ambulanti davanti ai cinema.

C’è anche il football, certo. Si gioca sui campi con gli amici, senza porte, i berretti che servono da pali. Ma questo solo quando è libero da impegni perché Giuliano non vende mica solo i carciofi e i limoni: c’è anche la risaia e la raccolta delle barbabietole. Poi il destino si intromette: una domenica va a Cento di Ferrara a vedere la partita con il San Matteo della Decima. Il portiere del Decima si fa male, chiamano Giuliano e lo spingono in porta. Lui non è che ci tenga molto, ma non vuole farsi pregare. Questo è il vero inizio della sua carriera. Finisce l’anno, va alla Centese in seconda categoria. Fa anche un provino con degli emissari del Torino, ma viene scartato per l’età.

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Foto di gruppo negli anni felici della Fiorentina

Una sera c’è una notturna a San Felice sul Panaro, vengono quelli della Bondenese e gli propongono di cambiare categoria: dalla seconda alla promozione. «Di calcio non sapevo nulla, nessuno mi aveva insegnato a stare in porta, a parare, a mettermi in una certa posizione. Facevo tutto d’istinto. E poi avevo quasi vent’anni e dovevo anche fare la visita per il militare. “Ti diamo centomila lire”, dice il dirigente Biagio Govoni».

Fa la visita per il soldato. Lo scartano: rivedibile per il torace. Resta a Bondeno. «Anche se in porta mi annoiavo, mi stufavo, stavo lì in piedi, fermo, la porta era lontana dagli altri, mi sentivo tagliato fuori. Passavo minuti appoggiato ai pali e spesso mi fumavo una mezza sigaretta. C’era sempre qualcuno che fumava vicino alla mia porta. E io gli dicevo: “Me la fai fare una tirata?”. E quello diceva: “Fai presto, che ti vedono”. Tirate svelte, sigarette pesanti. Erano le Alfa, o le prime Nazionali semplici senza filtro».

Ed è per combattere la noia che comincia ad accorciare i metri fra lui e la squadra. Esce dai pali e raggiunge l’ultimo difensore per cercare di toccare più palloni. Non lo sa, ma ha aperto un nuovo corso, talmente innovativo che qualcuno dice: «Quello o è scemo o è un fenomeno».  Un dirigente del Bondeno, il geometra Mantovani, lo porta così a Firenze alla corte di Fulvio Bernardini, che rimane letteralmente folgorato da quel ragazzo.

«Avevo ventun anni, ero in serie A con la Fiorentina. E non avevo mai visto il mare. Io dall’Emilia non ero mai uscito. Il mare l’ho visto per la prima volta a Livorno. C’ero andato con la Fiorentina, il primo anno, nel 1954. Un compagno, Beppe Chiappella, mi disse: “Lo guardi come se tu non lo avessi mai visto”. Quel giorno mi sono commosso. Il calcio, la serie A, mi aveva regalato un’altra emozione straordinaria. Avevo conosciuto il dottor Bernardini e visto il mare. Io a Firenze sono nato e rinato. Firenze era l’ombelico del mondo e Bernardini era un amico, un insegnante, un grande maestro di vita. E’ stata una fortuna conoscerlo. Io ero una spugna e assorbivo tutto. Lo adoravamo, era anche un uomo buono, ironico e dolce».

Giuliano diventa così un portiere. Poi diventa Il Portiere, con la P maiuscola. Con i Viola, dopo lo storico scudetto, vince la Coppa Italia e la Coppa delle Coppe, quella della prima edizione, dopo aver perso la finale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid. In tutto, nove stagioni indimenticabili che lo consacrano a livello nazionale come uno dei portieri più forti. E descritto come un gentleman inglese, atleta puro, elegante come un indossatore che aveva nel collega irlandese Gregg il proprio modello: «Un portiere di classe» ha spiegato una volta, «para il parabile e non commette errori grossolani che possono demoralizzare i compagni. La prodezza compiuta per la platea e seguita da una svista lo condanna ai miracoli forzati delle piccole squadre. Il portiere veramente grande è continuo e regolare». Lui lo è stato.

Vittorie importanti, sicurezza alla difesa della Fiorentina, stima a tutti i livelli, ma intanto poca, pochissima Nazionale. A trent’anni ancora una svolta, va all’Inter di Helenio Herrera, cioè passa dal Maestro “Fuffo” Bernardini al nuovo Mago che ha mischiato le carte del calcio nostrano. Due mister avanti con i tempi. Il Mago vuole un portiere di quelli che la difesa non gioca con il patema d’animo. Uno su cui fare affidamento, sempre e comunque. Sarti è così. Forse troppo per i gusti e gli stereotipi dell’epoca. I tifosi che si esaltavano per le uscite suicide di Giorgio Ghezzi (non a caso lo chiamavano kamikaze) sui piedi degli attaccanti, non capiscono quel portiere magro e freddo che non spreca mai un tuffo. Le sue parate «facili» tagliano le gambe all’auto-stima degli avversari.

Il suo nome è il primo della filastrocca sartiburgnichfacchetti che sarebbe finita persino in un film di Nanni Moretti. Sulla maglia ha il numero uno, ma preferisce passare per attore non protagonista. Si racconta che durante la finale del Prater contro il Real Madrid per tutto il primo tempo Nicolò Carosio lo scambi per la riserva Bugatti. E’ talmente bravo che passa inosservato.

E’ tutto perfetto, arrivano due scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Tutto fila liscio, tranne quel giorno di giugno del 1967 a Mantova, quando l’Inter finisce di essere Grande. Dopo la Coppa dei Campioni persa con il Celtic, il mercoledì prima a Lisbona, lo scudetto la domenica. Finisce un ciclo, forse addirittura un’epoca. La sua papera, una foto sulle pagine dei giornali. Qualcuno maligna, soprattutto quando due anni dopo passa alla Juve. Ma i suoi compagni di allora lo difesero sempre. Il presidente Moratti un po’ meno. Sarti la spiegò così: «È stato errore. Non c’era il vento, non c’era il sole, volevo lanciare il pallone a Facchetti sulla sinistra, mi è sfuggito dalle dita. Tutto qui».

Con l’azzurro della Nazionale il rapporto non sboccia mai, otto presenze in otto anni. Succede. Anche ai più grandi. Anni dopo il giaguaro Castellini si troverà la strada sbarrata da un certo Dino Zoff. Almeno Sarti si risparmia l’umiliazione della Corea ai Mondiali del 1966 in Inghilterra. Non ci va neanche come terzo portiere perché dietro Albertosi ed Anzolin, scelgono Pizzaballa, quello della figurina introvabile.

E pensare che un anno dopo lo convocano per giocare nella formazione del Resto del Mondo che affronta la Spagna per celebrare Ricardo Zamora. Il suo mito, il portiere «padre» di tutti i numeri uno. Mazzola e Rivera giocano insieme. E il Resto del Mondo trionfa per 3-0. Sarti gioca solo 34 minuti prima di infortunarsi.

Chiude, in serie A, con la Juve, in panchina dietro a Roberto Anzolin. Proprio l’anno, il 1969, in cui la «sua» Fiorentina vince il secondo scudetto. E qualcosa vorrà pur dire dire.

Muore il 5 giugno 2017 per un improvviso malore. Giuliano Sarti è stato un uomo felice, ha affrontato la vita dopo il calcio con serenità. Come accadeva sul campo, dove non aveva neppure bisogno di tuffarsi, la palla gli arrivava tra le braccia. Non erano però errori altrui, erano meriti propri, quelli di chi capisce prima dove si evolve l’azione, come si muoveranno gli avversari, dove finirà il pallone. E lì si faceva trovare, puntuale all’appuntamento.