Scarti d’identità

Sui passaporti e l’età dei giocatori d’importazione si è cominciato a litigare presto, come insegna il caso dello svizzero-italiano Ermanno Aebi che nel 1910 stava per costare uno scudetto all’lnter. E prima di Veron o Recoba la fantasia dei truccatori anagrafici si è scatenata mille volte.


All’Inter, nel 1910, avrebbero voluto togliere lo scudetto per avere schierato un settimo giocatore svizzero. Si chiamava Ermanno Aebi e aveva 18 anni. Ma se il padre era svizzero, la madre era italiana. E Aebi aveva un doppio passaporto. Per renderlo pienamente italiano gli fecero fare il servizio militare e, dieci anni dopo, giocò pure due partite in Nazionale, primo “oriundo” in maglia azzurra.

Ci furono severità e pasticci all’epoca dei “rimpatri”, definizione autarchica che precedette quella più elegante di “oriundi”. Veniva affibbiata ai calciatori sudamericani ai quali era consentito giocare nel nostro campionato purché avessero origini italiane. L’origine dubbia portò a qualche disguido.

Ermanno Aebi, il primo oriundo

Il prodigioso argentino del Boca Juniors Mumo Orsi fu tenuto fermo un anno finché non si accertò che era in regola avendo un padre genovese. Era costato la bellezza di 100 mila lire, nel 1928, più il regalo di una Fiat 509, e la Juve faceva pagare l’ingresso agli allenamenti in cui quell’ala sinistra col faccino di topo, secca e un po’ curva, compiva prodezze da giocoliere, compreso il calcio d’angolo infilato direttamente in rete. Firmò i cinque scudetti juventini degli anni Trenta e fu un asso della Nazionale, campione del mondo con l’Italia del 1934.

Con molto fair-play, invece, il presidente federale Leandro Arpinati, bolognese e gerarca, concesse un nullaosta fulmineo all’argentino Guglielmo Stabile acquistato dal Genoa. Non ne era certa l’ascendenza italiana. Poiché era in programma Genoa-Bologna, Arpinati agevolò il Genoa per non passare da fazioso bolognese ma non fu ripagato benissimo: arrivato il venerdì, Stabile la domenica segnò tre gol.

Ma dovette sudare molto l’uruguayano dell’Inter Héctor Pedro Scarone, campione del mondo nel 1930, prima di venire a capo dei suoi nonni italiani. Ne cercò inutilmente le tracce a Lucca, le trovò a Dego, vicino Savona. Scarone aveva già 32 anni, fece qualche prodezza, i tifosi nerazzurri lo soprannominarono “Garibaldi” e, quando se ne andò, lasciò il ricordo luccicante del suo anello di rubini e zaffiri di cui si vantava moltissimo.

L’uruguayano dell’Inter Héctor Pedro Scarone

Al brasiliano Pietro Sernagiotto, ala zigzagante acquistata dalla Juve, capitò di essere adescato da una combriccola di avventurieri sulla nave che lo portò in Italia e di firmare un secondo contratto. Scoperto, fu squalificato per un anno. Michele Andreolo, centromediano uruguaiano dalla gran testa e dal tiro potente, si tolse cinque anni sul passaporto (due in più di quanto fece il clivense LucianoEriberto negli anni duemila) e venne a vincere quattro scudetti col Bologna.

Avendo un fisico potente, gran mangiatore e cacciatore di donne, nascose
bene il trucco anagrafico e addirittura vinse con l’Italia il titolo mondiale del 1938 (per dovere di precisione: coi nonni italiani era in regola). Ma che l’argentino Gregorio Esperon avesse dieci anni in più dei trenta dichiarati fu evidente e la Roma, nel dopoguerra, lo liquidò dopo sette faticose partite.

Vigendo per i sudamericani il “nonno comandamento” (un avo italiano per giocare nel campionato milionario del Bel Paese), si registrarono molti misteri e amenità. A Firenze, un tal colonnello Gallo, tifoso perso di Julinho, regista eccelso della Fiorentina di Bernardini campione d’Italia nel 1956, si battè tenacemente per scovare l’antenato italiano del brasiliano un po’ cupo che i tifosi viola soprannominarono “Signor Tristezza”.

Julinho, il regista della Fiorentina di Bernardini

Voleva che Julio Botelho, detto Julinho, fosse un oriundo. Questo era il pallino del colonnello Gallo. Dopo ricerche pazzesche, annunciò trionfante d’avere trovato il nonno italiano del calciatore, un Botegli emigrato dalla Liguria in Portogallo e poi in Brasile. Il Botegli esisteva realmente, ma il colonnello Gallo fu gelato da un agghiacciante particolare: quel Botegli era un prete.

Alcide Ghiggia oriundo è rimasto un mistero assoluto. Il killer uruguagio del Brasile nella finale mondiale del 1950 al Maracanà giunse a Roma col suo fisico segaligno, i baffetti rubacuori e una moglie creola. Fu uno dei tanti ottavi re di Roma e giocò persino in Nazionale (cinque partite). Fu “oriundo” per una fantomatica ascendenza ligure. Un antenato, di cui non si seppe mai il nome, era andato dalla Liguria in Spagna e poi in Sudamerica, un viaggio alla Cristoforo Colombo, ma meno documentato.

Più che un “oriundo”, Ghiggia fu uno straordinario scapestrato. A Roma sedusse in macchina una minorenne, la moglie creola scappò dalla vergogna andando a guadagnarsi la vita da ballerina in Uruguay e lui, il baffino, dopo aver giocato anche quattro partite nel Milan campione d’Italia del 1962, tornò in patria e si ridusse a fare il croupier al Casinò di Montevideo.

Schiaffino e Ghiggia con la maglia della Nazionale

Origini liguri certe avevano Juan Alberto Schiaffino e Omar Sivori. Il primo con avi a Portofino, il secondo con bisnonno e padre del paese dell’ardesia. Il parroco don Grosso di Cavi di Lavagna nel 1818 aveva attestato l’esistenza di Bartolomeo Leonardo Sivori, bisnonno del “cabezón”.

Quando l’Inter si interessò a Sivori, chiese a Cavi di Lavagna la documentazione sull’antenato di Omar, ma non le giunse nessuna risposta. Fu immediato, invece, il riscontro fornito alla Juventus che si assicurò il campione argentino del River Plate e il suo magico sinistro per 190 milioni: era il 1957 e Omar aveva solo 22 anni.

Ma fu tutta da ridere l’ascendenza ligure dell’argentino Giulio Santiago Vernazza detto Ghito, idolo a Palermo negli anni Cinquanta. Per accreditargli lo stato di “oriundo” pensarono all’omonimo borgo ligure, Vernazza, in provincia di La Spezia, e là manipolarono il documento della sua fantasiosa origine italiana.

Per Santiago Vernazza presunte ascendenze liguri

Avendo troppi stranieri in squadra, Helenio Herrera pretese che l’Inter scovasse un qualche nonno italiano al brasiliano Jair, il ghepardo nerazzurro, che Rocco aveva rifiutato al Milan perché “schifosamente magro”. Si parlò di una nonna Maria Crivellati, originaria del Polesine, ma la cosa risultò inattendibile, ed Herrera fece cedere Hitchens per far posto all’irresistibile ala brasiliana, gran protagonista della squadra mondiale di Angelo Moratti. Non trovando un nonno italiano nemmeno per il portoghese Umberto Raggi, autentico oggetto misterioso, l’Inter rinunciò all’imprecisato attaccante.

Nel panorama degli scarti e scarsi di identità, fu spettacolare l’arrivo a Napoli degli uruguaiani Cerilla e Candales nel dopoguerra. Non ci fu bisogno di cercarne nonni italiani perché apparvero come nonni di se stessi. Il mediano di spinta Candales dipingeva con molto sussiego e, a Napoli, lasciò l’unico ricordo di una mostra di quadri, tra i quali un “Notturno napoletano” che alcuni tifosi gli comprarono per pietà.

Ma che cosa ci faceva nella Nazionale italiana degli anni Cinquanta un sudafricano? Eddie Firmani, di Città del Capo, era un “oriundo” in regola per via del nonno paterno, abruzzese di Ottona a Mare. Giocò nella Samp (50 gol), nell’Inter e nel Genoa. A Milano lo chiamarono “tacchino freddo”. Assimilato italiano, fu la sua fortuna. Si trovava in Kuwait a fare l’allenatore al tempo dell’invasione di Saddam Hussein: il passaporto italiano gli salvò la vita. Aveva un secondo passaporto, americano, ma ebbe l’accortezza di distruggerlo: gli iracheni non lo avrebbero risparmiato.

Eddie Firmani: una vita avventurosa

Dopo avere giocato negli anni ottanta nel Torino e nell’Ascoli, l’argentino Patricio Hemandez, nato a San Nicolas come Sivori, con moglie di passaporto italiano e la figlia Gimena nata in Italia, chiese inutilmente all’allora presidente Cossiga di concedergli la cittadinanza. Avrebbe dovuto sapere dei trucchi necessari.

Uno ne aveva fatto, giungendo al Milan a metà degli anni Cinquanta, l’uruguayano Walter Gomez, che si era procurato un nonno fasullo in Argentina, al municipio di Pineyro. Lo svelò un impiegato di quell’anagrafe di Avellaneda quando gli chiesero, in quegli stessi anni, di trovare un’ascendenza italiana per Humberto Maschio: “Per carità, sapeste che cosa è successo col signor Gomez”.

Maschio, acquistato dal Bologna, si guadagnò la qualifica e fu, con Altafini, Sivori e Sormani, uno dei quattro “oriundi” della disastrosa Nazionale azzurra ai Mondiali in Cile nel ’62.

Per Angelo Benedicto Sormani 7 presenze e 2 reti con la maglia azzurra

Angelo Benedicto Sormani, trovò sbrigativamente un nonno lucchese. Sormani era chiamato il Pelé bianco perché era stato nel Santos di Pelé dov’erano tutti neri. Il Santos aveva comprato in blocco la squadra di Jau, dove giocava il quindicenne Angelo Benedicto, che era stata messa all’asta dai piantatori del paese durante la grande crisi del caffè del 1954 in Brasile.

Nonni di ieri e nonni di oggi, e stranieri spesso furbi di tre cotte e di due passaporti. E la dizione è ancora cambiata. Non più “oriundi”, ma comunitari ed extra. Un nonno comunitario fu trovato per l’argentino Almeyda a Gangi (Palermo), una nonna per il brasiliano Elias nel vicentino, e persino il tedesco Bierhoff vanta, con tutti i crismi dell’autenticità, una nonna italiana a Maniago (Pordenone): Wilma Romano.

Jeda e Dedè non trovarono i nonni portoghesi che gli servivano. Recoba cercò inutilmente parenti adeguati in Spagna finendo col trovare un inutile passaporto a Lisbona, firmato però da un inesistente dirigente della Guardia Civil, e un passaporto italiano scaduto e inconsistente.

Recoba, simbolo di Passaportopoli

Il trisavolo calabrese di Sebastian Veron, nell’altalena di chiamarsi Giuseppe Forcella a Fagnano di Castello (Cosenza) e José Antonio Portela a Buenos Aires, rimase confuso nelle carte di Maria Elena Tedaldi, traduttrice dello studio Alvarez della capitale argentina.

Ogni cosa si aggiusta a questo mondo, e non è vero che sui passaporti del calcio chi si firma è perduto, anche se cambia onomastico. Un timbro e un bastone di comunitario non si negano a nessuno.

Piccola chiusa: aveva perfetti nonni capresi il grande Di Stefano, ma rifiutò i 45 milioni che gli offriva l’Avvocato Agnelli per portarlo alla Juve negli anni Cinquanta e andò nella fastosa villa madrilena dove fece erigere un monumento al pallone con la scritta: “Gracias vieja”.

Molti nonni utili sono stati perduti, si è dovuti per forza inventare quelli fasulli. La ricerca continua. Chi trova un nonno, trova un tesoro.