SERGIO SANTARINI – aprile 1978

Lo inseriscono nei «quaranta» azzurrabili, gioca la «trecentesima» in Serie A, segna il secondo gol (decisivo) al Verona. E’ un uomo felice? Più che altro, da buon romagnolo, è sereno, soddisfatto di quel che ha avuto dalla vita. Che importa se non diventerà mai «er core de Roma»?

Il cervello di Roma

ROMA. Chiedo a Santarini, araba fenice dei calcio, se è disposto a riepilogare fin d’ora undici anni di carriera: l’Inter di Helenio Herrera dogo il Rimini, la Roma del Mago eppoi quella di Scopigno, di Liedholm di Giagnoni. Potrà infilare, se vuole, sia pure di sfuggita, le battaglie che ha vinto e le polemiche in cui è stato coinvolto l’amore-odio per il Club Italia, privilegio accarezzato e rapidamente svanito dopo un paio d’occasioni, chissà perché. Santarini accetta, parla con potere di sintesi, adopera aggettivi giusti e evita i luoghi comuni, l’aria fritta, le citazioni ovvie, i ricordi sdolcinati. Eppure nell’epoca del calcio atletico, io hanno sovente definito «libero col piumino da cipria», un difensore in guanti gialli, un atleta troppo raffinato in campo e fuori per poter piacere ai tifosi della Curva Sud, agli appassionati del calcio di ogni latitudine.

E’ sempre stato rispettato, questo sì. Ma dal rispetto all’amore fanatico che altri suoi colleghi suscitano, corrono anni luce di distanza. Santarini non rimpiange, non ha rimorsi.
Si riassume in una frase che non è neppure slogan: «Ho sempre dato del “lei” al tifoso, al cronista che viene al campo per sapere dei bagni e massaggi, al droghiere sotto casa. Non partecipo volentieri a premiazioni e pranzi ufficiali, non sono ottimo public-relation di me stesso, non mi piacciono le rimpatriate. Si finisce sempre per malignare, per fare pettegolezzi su Tizio e Caio. E dopo le bicchierate e lo champagne ci si ritrova più insicuri e scontenti di prima. Tutto sommato Roma mi ha accettato così come sono ed è la maggior conquista della mia vita. Le pacche sulle spalle, il “volemose bene”, gli affetti fasulli o d’accatto mi lasciano tuttora perplesso. Chiuderò la carriera in maglia giallorossa senza sentir dire che sono stato “er core” della Capitale come capitò a Losi, a Bernardini, a De Sisti, ad altri campioni. Ho il pudore di pensare che giustamente tutto passi in fretta e tutto venga dimenticato. Noi, col pallone, scriviamo piccole storie subito scavalcate ed annullate da altre vicende. Conta solo il domani, nello sport, e specialmente nel nostro sport. Semmai mi resteranno poche amicizie, una certa sicurezza economica, l’agenzia di assicurazioni che unitamente ad un socio ho messo su dalle parti di viale Marconi, verso il centro delle Tre Fontane. Tutto qui».

CHIEDO a Santarini di spiegare cos’ha provato nell’ultima settimana importante: è entrato nel Gotha dei quaranta segnalati a Bearzot per i prossimi Campionati del Mondo in Argentina, ha giocato contro il Verona la «trecentesima» in Serie A, ha segnato contro il Verona il gol vincente, gol prezioso per togliere dai guai la sua squadra.
Sommerso dai fatti, non confonde, non pospone, non perde la calma. Ha sempre badato a non illudersi, proprio per non restare deluso. Affronta gli argomenti uno ad uno, dando la precedenza al «listone» di Bearzot, che bene o male gli ricorda nuovamente la Nazionale. – Sorpreso?
«No, direi una bugia, se affermassi che cado dalle nuvole. Tempo fa la segreteria della Roma mi aveva informato che dalla Federcalcio avevano chiesto il numero del mio passaporto. Entrerò nei ventidue? Potrei rispondere che non lo credo ma ci spero. Preferisco attendere. Il mio rapporto con la maglia azzurra è stato soprattutto amaro. Perché fingere di dimenticarlo? Ho esordito con l’Austria proprio all’Olimpico, in una fredda giornata autunnale. Ero in coppia con Bet. Bet diceva: Vedrai che saremo gemelli, e cognati, e tutto, anche in Nazionale. Non è stato buon profeta. Pareggiammo 2-2, quel giorno, era una formazione sperimentale. Uscii subito dal giro, fui coinvolto dal declino della Roma di Herrera, si dimenticarono di me. Quando adesso leggo che Bini c’è rimasto male per l’esclusione dai quaranta, vorrei spiegargli che lo capisco ma fino ad un certo punto. Bah, lasciamo stare… Ognuno giustamente controlla i propri interessi, si accorge esclusivamente dei torti che lo danneggiano, io sono tornato a sperare anni dopo, quasi con l’inizio del ciclo Bernardini. Il Dottore andava in cerca di un libero tradizionale e, a sorpresa, evitò Facchetti, Bini, Scirea per puntare nuovamente su me. A Rotterdam contro l’Olanda non aveva schierato un libero di ruolo. Aveva impiegato a zona Morini e Zecchini. Contro la Bulgaria, mi ha permesso di giocare a tempo pieno per la seconda volta. Poi, sono uscito nuovamente di scena e il perché è incomprensibile. Contro i bulgari giocammo male tutti. Non potevo sentirmi umanamente primo responsabile di quel fallimento. Così mi sono dimenticato della Nazionale, pur mantenendo netta la sensazione d’essere stato preso in giro. In Nazionale sono stati successivamente impiegati molti dei colleghi che erano in campo a Genova contro la Bulgaria. E hanno avuto la possibilità d’affermarsi, io invece… ho accorciato i miei interessi, mi sono rassegnato. Di recente, in occasione della festa, per i cinquant’anni della Roma, Bernardini al microfono ha rivelato ai presenti: «Se ho un rimorso è quello di non aver insistito con Santarini. Lo confesso: in Nazionale gli è capitato un po’ quanto accadde a me, con Vittorio Pozzo. Chiedo pubblicamente scusa». Serve? Non credo serva molto. Nel calcio contano i fatti, prima delle soddisfazioni morali».

ECCO: tra sogni andati a male, soddisfazioni emergenti, rimpianti sfumati, Sergio Santarini non ha smarrito il dono della sincerità.
E’ nato a Rimini il 10 settembre 1947 e si dichiara romano d’adozione, pur senza l’allegria, il pressapochismo, la bonomia, dei romani tra cui vive.
«Ho imparato ad essere concreto da mio padre camionista. Era sempre in giro per l’Italia, tornava a casa stanco. Successivamente comprò un paio di camion, e non ci faceva mancare nulla. Mia madre era soddisfatta, mio fratello maggiore giocava a pallacanestro, tesserato col Rimini. Siccome lo andavo spesso a vedere, mi venne voglia di cominciare a praticare il parquet. Fino a tredici anni ho pensato di poter diventare un discreto play-maker. Proprio vero che la realtà è sempre diversa dai sogni. Un giorno, all’oratorio, il pallone da basket si sgonfiò e per non passare il pomeriggio ad annoiarmi, seguii altri compagni sul campo vicino. C’erano due porte, delle linee di gesso per terra. Giocavamo al calcio. Dimenticai il basket e assimilai così le prime nozioni. La squadra calcistica della parrocchia Stella. Mi volle tra i ragazzi, a sedici anni giocai da stopper in prima squadra. Era stato il signor Bizzotto a capire che ero un difensore centrale nato, che avevo la vocazione di stare sulla prima o sulla seconda punta. Frequentavo il liceo scientifico e mio padre non volle che andassi al Milan. Avevo fatto un provino niente male. Continuai con la mediana del Rimini: la gente ci aveva fatto l’orecchio. La mediana era Santarini, Scardovi, Perversi…».

Chissà dove saranno adesso Scardovi e Perversi, i compagni di reparto in quei giorni. Santarini non si volta mai indietro, dice che porta male. Costretto a ricordare, spiega che la sua fortuna coincise con una richiesta del Venezia, dovendo affrontare il Santos, in una amichevole, il Venezia lo volle in prestito e gli affidò il controllo di Sua Maestà Pelé.
«Mi feci il segno della croce e andò bene, in tribuna c’era Allodi, amico di Bizzotto. L’Inter, per avermi, sborsò una novantina di milioni. Mio padre dette il consenso; avevo ottenuto la maturità scientifica e mi ero iscritto all’università».

E’ IL 1967 quando, per volere di Herrera, si ritrova ad esordire in maglia nerazzurra contro il Bologna. Da Pelé ad Haller. Marcando il tedesco rimedia un figurone. L’Inter vince 1-0 e Santarini in quella stagione gioca da stopper e libero, altre tredici partite.
«A fine anno, quando Herrera mi comunica che vuole portarmi a Roma, accetto con entusiasmo. A Milano, troppe polemiche, mi hanno danneggiato. A Milano rimpiangono a quei tempi Guarneri e Picchi; per me e Bet la vita non è facile».

I gemelli vengono trapiantati nella Roma, successivamente Bet parte, Herrera continua coi proclami, Santarini diventa libero inamovibile per tutte le stagioni. Adesso dopo dieci campionati con la società di Anzalone assicura:
«Appena arrivai, temetti che, con Losi, si ripetesse un nuovo caso Picchi. Invece i romani si dimenticarono del mio predecessore. Quante cose belle e tristi sono capitate, da allora!… A pensarci mi vengono i brividi, mi gira la testa. Picchi è morto da tanto, anche Taccola è morto e non mi pare vero – era uomo gol fortissimo. Fosse rimasto vivo, la Roma per anni avrebbe lottato nelle prime posizioni…».

Carrellata alla svelta sul passato.
«Scopigno? Non l’ho capito e non mi ha capito. Nel calcio si vive anche di simpatie, indifferenza, antipatie. Liedholm? E’ un gran signore. Sulla sua schedina privata metterebbe tutte X. I pareggi gli piacciono da morire: spesso vince proprio perché si cautela in partenza per non perdere. Giagnoni? Credevo fosse un duro con o senza colbacco. Dopo che ho segnato il gol al Verona, mi è venuto ad abbracciare e aveva le lacrime agli occhi. Mi sono commosso anch’io».

Si finisce sulla Roma, croce e delizia del capitano di lungo corso, Sergio Santarini. Brontola: «Se mi amministro bene posso giocare altri quattro cinque anni. Chissà che non riesca a vedere il miracolo d’una grande Roma. Se la Roma vincesse lo scudetto si farebbe vacanza chissà per quanti giorni, nelle scuole, negli uffici, nei ministeri».
II dossier Santarini si chiude al capitolo «famiglia». Confida: «Devo molto a mia moglie. A mio figlio ho dedicato il quarto gol in Serie A, gli altri tre li avevo segnati alla Juventus, al Mantova, al Cagliari. Quattro gol in tanti lustri sono niente, ma nelle conclusioni sono troppo iellato».
E come un ragazzino puntiglioso, mi lascia col quaderno pieno di appunti, per tornare in mezzo al campo. E’ l’ora dei tiri in porta. Ecco: batte a rete una due, tre, dieci volte, con la religiosa concentrazione del centravanti.