Storia della Confederations Cup

All’inizio nasce come sfida tra le Nazionali campioni del Sudamerica e dell’Europa. Poi, tra mille vicissitudini, si amplia sino a comprendere tutte le confederazioni mondiali. Insomma, un piccolo mondiale che nella sua pur breve storia ha tanto da raccontare.


ANTEFATTO: IN PRINCIPIO FU PLATINI

Il campionato mondiale di calcio nasce nel 1930, grazie al grande Jules Rimet. La Coppa Intercontinentale, che designa il campione del mondo delle squadre di club, nasce nel 1960, e mette (giustamente…) di fronte le due squadre regine dei movimenti calcistici portanti, quello europeo e quello sudamericano. C’è però un omino, in Italia, che ha da sempre il pallino di fare una specie di ibrido tra le due competizioni, in una sorta di imperante bulimia di titoli che fa apparir pochi due soli titoli di “Campioni del Mondo”. L’omino in questione si chiama Artemio Franchi: è toscano, come mestiere fa il dirigente sportivo, si limita ad essere presidente dell’UEFA e vicepresidente FIFA e nell’estate del 1983, su una strada della sua terra, subisce un piccolo contrattempo che lascia tutti sgomenti e toglie al mondo del calcio uno delle sue più importanti figure. Per onorarne le grandi storia e memoria, le autorità italiane della pedata gli intitolano gli stadi di Firenze e Siena.

Le grandi menti del calcio internazionale, invece, decidono di fare di più, riuscendo a realizzare il sogno del Franchi, che coltivava come detto l’idea di mettere di fronte, in una competizione a carattere ufficiale, e sull’onda del successo della Coppa Intercontinentale, le due squadre nazionali campioni di Europa e Sudamerica. Detto fatto: il tempo che Coppa America e Campionato Europeo partoriscano i loro vincenti virgulti, ed ecco, bella ed impacchettata, la “Coppa Artemio Franchi”. Alla prima delle prime partecipano due invitate d’eccezione: da una parte la Francia di Platini, campione d’Europa 1984; dall’altra l’Uruguay di un giovanissimo Enzo Francescoli, campione sudamericano 1983. La partita, giocata in una frizzante sera di fine estate, fu a senso unico: i transalpini, guidati sul campo da un “Le Roi” in condizioni smaglianti, vinsero facile per 2-0, portarono a casa una Coppa dal sapore nuovo, ma della quale, purtroppo, si sarebbero perse ben presto le tracce. La competizione, infatti, secondo le regole di gioco e tempistica, sarebbe stata rigiocata nel 1989: manco a dirlo nulla da fare, appuntamento al 1993. L’Argentina campione Sudamericana batte la Danimarca campione d’Europa in carica, ma il valore della vittoria è quasi nullo: già l’anno prima, infatti, i petrodollari e la smania di successo e potere dell’Arabia Saudita e del suo ricco e facoltoso governatore, Re Fahd, avevano spostato l’attenzione su altri lidi.

La Francia che il 28/8/1985 battè l'Uruguay
La Francia che il 28/8/1985 battè l’Uruguay

PRIMI VAGITI: RE FAHD, BATISTUTA E MICHAEL LAUDRUP

Ryad, Arabia Saudita, 15 ottobre 1992. Partita di calcio tra Stati Uniti e Arabia Saudita, non proprio grandi potenze di questo sport. Insomma, nulla di eccezionale. Solo che è l’esordio assoluto di una competizione nuova di zecca, nata dalla testa trasudante oro nero di Re Fahd, padre padrone dell’Arabia Saudita, che per festeggiare la seconda vittoria consecutiva in Coppa d’Asia e preparare quella che vorrebbe essere la terza spedizione vincente, decide di invitare nel suo prospero paesello il Gotha del calcio mondiale per un torneo amichevole. Attesi alla festa, oltre ai verdi padroni di casa, i Campioni del Mondo (Germania), i Campioni d’Europa (Danimarca), i Campioni d’Oceania (Australia), i Campioni del Nord America (USA), i Campioni del Sudamerica (Argentina), ed infine i Campioni d’Africa (Costa d’Avorio).

Le prime tre squadre declineranno gentilmente l’invito, mentre Argentina, USA e Costa d’Avorio decidono di prendere parte alla competizione. Semifinali e finali, formula che più facile non si può: nella gara d’esordio sopraccitata, i sauditi, con un esaltate 3-0, fanno polpette degli americani. Il giorno dopo, tocca agli argentini: gli ivoriani, benché padroni di un grande futuro, devono però ancora assistere ad una specie di show di tango blanquiceleste, che al decimo conta già due gol di vantaggio e che al novantesimo racconta di quattro realizzazioni, di cui due a firma di Gabriel Omar Batistuta, bomber incredibile che veste la maglia della Fiorentina. Gli ivoriani mostrano una volta di più la loro inconsistenza nella finalina per il terzo posto, in cui vengono strapazzati per 2-5 dagli USA, che si preparano ad ospitare i mondiali del 1994; i sauditi, invece, ne buscano solo tre in finale dagli argentini, che alzano al cielo di Ryad, il 20 ottobre 1992, la coppa Re Fahd, che sembra uno scherzo colorato di solo petrolio, ma che invece, da il via ad una tradizione che avrà la forza di ripetersi e consolidarsi fino ai giorni nostri, a partire da un’immediata edizione successiva, nell’anno 1995.

Stavolta, al gran ballo, fanno difetto solo due degli ospiti attesi: mancano i neocampioni del mondo brasiliani e ancora una volta gli australiani, allora, oggi e sempre padroni incontrastati del calcio made in Oceania. È presente però tutto il resto del circo: oltre ai sauditi padroni di casa, ci sono i danesi ancora campioni d’Europa, gli argentini detentori della Coppa Re Fahd, i giapponesi padroni dell’Asia, i messicani campioni della Gold Cup ed i campioni d’Africa nigeriani, di ben altra consistenza rispetto ai predecessori ivoriani. Il numero delle squadre in corsa suggerisce un cambio di formula: due gironi all’italiana da tre, le prime classificate in finale, le seconde alla finalina.

A spuntarla nei due gironcini sono gli argentini, che polverizzano 5-1 il Giappone per poi accontentarsi dello 0-0 con la Nigeria (vincente “solo” per 3-0 con i nipponici e quindi fuori per differenza reti), ed i danesi, che finiscono a pari punti e gol con i messicani (2-0 per entrambe contro i sauditi e 1-1 nel confronto diretto dopo i supplementari), e che si qualificano grazie ala geniale trovata dei rigori a fine girone, che sarà ripresa un paio di lustri dopo per gli europei di Austria e Svizzera, per evitare i biscottini tipici delle terre scandinave e notoriamente indigesti agli italiani. La finale è la ripetizione dell’ormai dimenticata “Artemio Franchi”, ma l’esito è diverso: stavolta prevalgono i rossi, con le reti del grande Michael Laudrup e del misconosciuto Peter Rasmussen. Il 2-0 sancisce il nuovo successo della competizione, sulla quale però ha messo gli occhi una FIFA che già progetta l’allargamento della Coppa del Mondo e che non vede l’ora di prendere in mano le redini di questo piccolo Mondiale-bis.

LA SECONDA FASE: “CONFEDERATIONS” BIENNALE ED IN GIRO PER IL GLOBO

Re Fahd probabilmente non ci dormì per parecchie notti: perdere il proprio totale patrocinio sul torneo, per un uomo come lui, abituato a possedere tutto quello che voleva, deve essere stato un grosso smacco. Ma le leggi del calcio, specie di quello internazionale a livello di FIFA, sono inappellabili: la federazione internazionale, infatti, intuisce le potenzialità del torneo, e ne prende il controllo a partire dall’edizione del 1997. Cambia il nome: tanti cari saluti alla Re Fahd Cup e applausi scroscianti alla neonata Confederations Cup. La sede rimane inalterata, ancora Arabia Saudita: almeno Re Fahd potrà gustarsi dal vivo le sue partite. Il numero delle partecipanti sale ad otto, con sole due rinunce: mancano i nuovi ed i vecchi campioni d’Europa, Germania e Danimarca, sostituiti dalla squadra finalista di Euro 96, la sorprendente Repubblica Ceca di Pavel Nedved.
Poi, ci sono tutti: c’è l’immancabile Arabia, vincitrice di un’altra Coppa d’Asia, c’è il Sudafrica campione d’Africa, c’è l’Uruguay campione Sudamericano, ci sono gli altri mister petrolio degli Emirati Arabi Uniti, finalisti dell’ultima Coppa d’Asia, ci sono finalmente gli australiani, ancora una volta i messicani, e, udite udite, addirittura i campioni del mondo brasiliani, che vogliono prepararsi alla grande per i mondiali francesi e mettono in mostra il loro gioiello, Luiz Nazario da Lima, già conosciuto da tutti i tifosi del mondo come Ronaldo.

La nuova avventura parte il 12 dicembre 1997: nel primo girone a passare sono proprio i verdeoro, assieme alla matricola Australia. Nel gruppo B, invece, fanno la voce grossa Uruguay e Repubblica Ceca. Le semifinali sono la prova di quanto il calcio possa essere meraviglioso ed esprimere una volta dopo l’altra tutto sé stesso ed il suo contrario: nella prima semifinale la tradizione brasiliana ha la meglio sul nuovo che avanza della Repubblica Ceca, mentre solo tre ore dopo è la novità-Australia a distruggere i sogni di gloria dell’Uruguay, grazie alla rete di Kewell, un diciannovenne destinato ad un radioso futuro. Le finali vedono l’affermazione minima dei cechi sulla Celeste e il set tennistico che i brasiliani confezionano ai canguri australiani, ancora troppo acerbi per competere con un Ronaldo ai massimi livelli, autore di ben quattro gol, da sommare anche ai due dell’altro folletto Romario. Brasile, dunque, per la prima volta. L’ennesima, verrebbe da dire, pensando in uno scontato bis ai mondiali francesi: la gioiosa comitiva carioca, invece, si squaglia dietro i malanni del proprio insuperabile numero nove, e lascia spazio alla Francia di un altro re del football, che con la sua tripla zeta di Zinedine, Zidane e Zizou, spegne il ricordo di Platini e regala alla Francia la sua prima notte di gloria mondiale.


I francesi, però, confermano di avere la puzza sotto al naso
rispetto a diverse cose, prima tra tutte, proprio la Confederations: nel 1999 è la volta del Messico, che si accolla, tredici anni dopo il mondiale di Maradona, l’onore-onere di organizzare un’altra grande competizione. I francesi, come detto, rinunciano, lasciando campo alla Bolivia, che come semplice finalista della Coppa America 1999, ed approfittando anche del ruolo di detentore dei brasiliani, approda alla competizione, unendosi ad un nuovo gruppone che registra tre succose new-entry: alla terza occasione, finalmente, i tedeschi cedono e si presentano in Messico forti del titolo di campioni d’Europa 1996; a loro si accodano due matricole: l’Egitto campione d’Africa e la Nuova Zelanda, a sorpresa campione d’Oceania. Completano i quadri gli onnipresenti sauditi, i messicani padroni di casa, gli statunitensi finalisti in Gold Cup ed ancora una volta i brasiliani.

La competizione sarà ricordata per tre cose: per il sorriso della nuova stella brasiliana Ronaldinho, che chiude da capocannoniere con sei gol in cinque match, per la carrettata di gol che lo stesso Brasile rifila in semifinale alla povera Arabia Saudita (8-2 il final result), e soprattutto per la pirotecnica finale tra i verdeoro e il Messico padrone di casa. Alla fine è 4-3: certo, non sarà Italia-Germania nonostante l’identico teatro, ma ai 100.000 dell’Azteca basta ed avanza per trasformare gli undici “Tricolores” in veri e propri eroi nazionali.

Il ritmo delle competizioni è asfissiante, soprattutto per quelli del Vecchio Continente: nel 2000, di nuovo europei, e di nuovo Francia. L’Italia di Zoff viene scippata del proprio trionfo dai Blues a pochissimi decimi di secondo dalla fine, e la mancata partecipazione degli azzurri alla Confederations del 2001 è solo l’ultimo dei rimpianti. Anche a questo punto la Confederations diventa una sorta di maledizione: nel 2001, fortunatamente, solo sportiva. I tifosi dagli occhi a mandorla preparano il loro Mondiale, e la FIFA ha la felice intuizione di utilizzare il suo mondiale numero due per testare le infrastrutture e i progressi dei paesi che dovranno accogliere il grande circo della Coppa del Mondo.

Giappone e Corea sono all’avanguardia, e ci regalano stadi fantastici, tecnologie avveniristiche e l’ennesima vittoria francese: la squadra di Lemerre batte, una dopo l’altra, Corea, Messico, Brasile e Giappone, perde solo ed in maniera ininfluente dall’Australia, ed è la prima nazionale della storia ad essere campione di tutto quanto sia possibile. Il tris, però, come detto porta male: al Mondiale 1998 e all’Europeo del 2000 i galletti aggiungono una Confederations vinta all’esordio assoluto nella competizione che però farà da preludio ad un mondiale orrendo, con tre partite, un solo punto e zero (!) gol segnati.

Nel 2003 la situazione peggiora: il piccolo grande circo della Confederations si sposta proprio nel paese transalpino: l’Italia, in quanto finalista dell’ultimo europeo proprio contro i francesi padroni di casa, avrebbe la prima possibilità di prendere parte al torneo, ma declina l’invito, proprio come la Germania, finalista di Corea e Giappone 2002. La FIFA sceglie allora di invitare la Turchia, sorpresa da medaglia di bronzo del mondiale nippocoreano: quasi un oltraggio allo spirito della manifestazione, che comincia a mostrare le sue prime crepe regolamentari.

Ma il peggio deve ancora venire: la semifinale tra il Camerun campione d’Africa e la Colombia campione di Coppa America, viene funestata dall’improvvisa morte in campo di Marc-Vivien Foè, atleta africano dal fisico scolpito nell’ebano che all’improvviso si accascia al suolo e regala al mondo del calcio un’immagine straziante.
Il significato della competizione scema dall’alba al tramonto: i calciatori camerunensi, giunti in finale, cercano di vincere per onorare la memoria del loro compagno, ma un golden gol all’extra-time di Thyerry Henry fa chiudere il sipario sull’edizione 2003 e sulla Confederations Cup by Fifa primo stadio.

I GIORNI NOSTRI: PROVA GENERALE MONDIALE

La FIFA, scottata anche dalle critiche sorte in seguito alla morte dello sfortunato Foè per l’eccessiva fittezza del calendario internazionale, decide un restyling della Confederations, almeno in senso temporale. Addio al vecchio sistema biennale, dentro una scadenza quadriennale che vuole fare della competizione una sorta di prova generale per la nazione destinata ad ospitare i Mondiali. Si comincia dal 2005 e dalla Germania. Il regolamento del torneo non cambia: due gironi all’italiana da quattro, con tutti i campioni continentali più il paese ospitante. Nel 2005 sono assenti solo i francesi detentori del torneo, sostituiti dall’Argentina finalista nella Coppa America 2004 e perdente dal Brasile.

La competizione riscuote un enorme successo di pubblico (condizionato anche dagli splendidi stadi tedeschi) e di critica, con due meravigliose semifinali (Germania-Brasile ed Argentina-Messico) ed una finale tutta sudamericana ad altissimo livello, in un curioso replay della finale del Sudamericano 2004. Ancora una volta è il Brasile ad uscire vincitore, con un eloquente 4-1 che sembra fare da viatico ad un Mondiale già in partenza tinto di verdeoro. La maledizione della Confederations invece colpisce ancora, dato che i brasiliani disputeranno nel 2006 un mondiale sottotono, nonostante la formazione imbottita di stelle del calibro di Ronaldo, Adriano, Ronaldinho e Kakà.

La rotazione quadriennale porta il circo in Sudafrica nel 2009. Diciassette anni dopo il battesimo di Re Fahd esordiscono nella Confederations due grandi scuole tornate in auge con le vittorie del Mondiale 2006 e dell’Europeo 2008: Italia e Spagna, finalmente, fanno la loro conoscenza con il Mondiale-bis della FIFA, e completano la nuova rosa di elette composta anche dagli USA padroni del Nordamerica, dai sempiterni brasiliani nuovamente vittoriosi in Coppa America, dagli egiziani campioni d’Africa, dai sudafricani padroni di casa e dai simpatici dilettanti neozelandesi.

Il cammino degli azzurri sembra schiudere orizzonti di gloria, per poi mutare in una debacle senza precedenti: la vittoria iniziale con gli USA resterà senza seguito, e l’Italia sarà sconfitta clamorosamente dall’Egitto e un po’ meno a sorpresa dagli indemoniati brasiliani, che si imporranno con un 3-0 a cui è molto difficile opporre considerazioni. Gli spagnoli invece vivranno un girone esaltante (nove punti su nove) che però rimarrà privo di risultato: gli Stati Uniti, grande sensazione del torneo, esaltano le proprie qualità in semifinale e battono sonoramente le Furie Rosse, costrette a piegarsi ad una freschezza atletica ed ad una brillantezza di gioco che in finale spaventerà anche i mostri di Dunga, sorpresi dall’iniziale 2-0 a stelle e strisce ed in grado di rimontare fino al 2-2 grazie alle prodezze di “O Fabuloso”, il nomignolo con cui tutti e più definiscono Luis Fabiano, prolifico attaccante del Siviglia.

di Alfonso Fasano