Storia di un amore

Dal «Tsu Chu» cinese al football britannico: tremila anni di amore tra uomo e pallone. Dalle nebbie inglesi di fine ottocento fino al Rio de la Plata, storia del calcio dagli albori al primo Mondiale.

Nessuno ha inventato il calcio: né i cinesi, che si divertivano con il loro «Tsu Chu», né i greci e tantomeno i romani. E nemmeno gli inglesi, checché se ne dica: lo sport oggi più popolare al mondo non è altro che il frutto cristallino di una sedimentazione naturale durata secoli e secoli. In principio era il caos, e il gioco del calcio non era uno sport, non muoveva ancora interessi di persone attorno ad un pallone, non raggiungeva vette d’importanza tali da scatenare la rottura di relazioni diplomatiche – o peggio, una guerra – tra due paesi.

Era solamente un gioco, nell’accezione originale del termine. Lo cantava Omero nell’Odissea («L’un la palla gittava in ver le fosche nubi, curvato indietro; e l’altro, un salto spiccando, riceveala, ed al compagno la respingea senza fatica o sforzo, pria che di nuovo il suol col pié toccasse»), ma poi lo disprezzava William Shakespeare («Tu, abbietto giocatore di calcio!», gridava Re Lear a Osvaldo).

Ma le genti, indifferenti al crucifige da parte del sommo artista della parola, seguirono il proprio istinto, che suggeriva loro di apprezzare le qualità naturali insite nel gioco. Dapprima l’«episciro» e poi l’«harpastum», rispettivamente nell’antica Grecia e nell’impero dei Cesari, avevano trascinato nella passione gli annoiati patrizi delle «polis». Quel concetto non era per nulla simile al nostro; essi giocavano un misto di calcio e rugby, una sorta di progenitore dell’attuale football americano. Ma esso serviva loro per mantenere rispettato il comandamento «mens sana in corpore sano» attraverso l’esercizio fisico, al fianco della tradizionale lotta greco-romana e delle corse in linea.

Le conquiste delle legioni imperiali fecero conoscere l’attrezzo della contesa sin nelle Highlands britanniche, e quando i romani – volenti o nolenti – fecero ritorno a casa, lo lasciarono in eredità a quelle popolazioni, spinte dalla loro stessa indole ad ogni tipo di combattimento virile. Fu cosi che, nel corso dei secoli, si mantenne vivo il piacere innato in ciascuno di noi nel calciare un oggetto, un sasso o qualsiasi cosa di limitate dimensioni che si frapponga sul nostro cammino.

Non era ancora e per niente calcio, il rude e spontaneo momento ludico dei popolani inglesi, che costringevano re e prìncipi a promulgare editti e divieti per frenarne l’impeto travolgente, ma nulla più di un mezzo di coinvolgimento di massa: le partite si disputavano tra interi paesi, erano in pratica una gigantesca caccia alla volpe senza spargimento di sangue animale. Si andò avanti in questo modo per decenni, senza che mai le misure delle autorità sortissero effetti definitivi.

Al contrario, al nascere dei primi colleges, i rampolli della buona borghesia non desiderarono altro, nelle ore di tempo libero, che darsi da fare attorno ad un pallone di cuoio. Nel corso del XIX secolo, la classe dominante della società diede vita, ad uno ad uno, a tutti gli sport oggi conosciuti e praticati: l’incipiente ricchezza degli strati più elevati dell’Inghilterra del 1800 fece sorgere in essa la necessità di occupare i momenti estranei al lavoro, un pensiero che da sempre aveva… turbato i sonni dei ricchi.

Già allora l’avo del nostro calcio si chiamava «football», un neologismo che stava ad indicare tout-court il «playing at ball», giocare con la palla. Il principio strutturale del gioco stesso, seppur non codificato e ristretto in regole ben precise, era già riconosciuto: portare la sfera al di là del «goal», la meta avversaria, rappresentata nella fattispecie da due legni piantati a terra.

La rivoluzione fu, come spesso accade, un evento casuale, con teatro il college di Rugby, cittadina situata nella contea di Warwick, nell’anno 1823. Era in programma la solita, ennesima partitella tra studenti. Durante lo svolgimento del match tale (sino a quel momento) William Webb Ellis, stufo della lentezza delle azioni e probabilmente spinto dalla frenesia di aumentare lo scarso numero di punti segnati a quel momento, decise di semplificare tutto prendendo la sfera tra le braccia e correndo indisturbato – tra l’attonito stupore dei presenti – a realizzare l’agognata vittoria per la propria squadra.

Non è dato conoscere le immediate reazioni di compagni ed avversari: è però certo che quel gesto è divenuto uno «spartiacque» ben preciso della storiografia sportiva. La vicenda personale del giovane Ellis è sufficientemente documentata per venir qui ricordata: nato a Manchester, era stato spedito a Rugby dalla famiglia benestante per studiare teologia. Presi i voti qualche anno dopo, si dedicò al sacerdozio per poi trasferirsi nel sud della Francia, dove mori in oscure circostanze. Le due fazioni, una prò e l’altra contro l’uso della mani, si separarono con un taglio netto: i primi confluirono nella corrente che nel 1846 avrebbe dato vita alla Rugby Union, i secondi si confermarono fedeli alla tradizione del «foot-ball», ovvero trattare il pallone unicamente con i piedi.

Nel 1848 quindici rappresentanti di varie «public schools» (Eton, Harrow, Winchester, Rugby le più importanti) si riunirono su un prato dell’università di Cambridge per ben sette ore, discutendo seriamente dell’assoluto bisogno di uniformare i vari modi di interpretazione del football. Il documento redatto al termine del meeting prese il nome di «Cambridge Rules», regole primitive che nel corso, degli anni vennero aggiornate dall’esperienza.

Quei leggendari pionieri fissarono le misure del campo e della porta, i canoni di correttezza nel marcamento dell’avversario e le eventuali punizioni per le infrazioni. Infine, venne deciso di limitare ad undici i componenti di ogni squadra. È ragionevole accettare la teoria secondo cui questo numero venne scelto per rispettare quello degli «ospiti» di ogni singola camerata del college. Non tutti fecero proprie queste decisioni: un po’ ovunque si continuò a giocare «a caso».

Ognuno faceva razza a sé, adottava un regolamento «interno» e non poca confusione si creava quando due formazioni di scuole diverse andavano ad affrontarsi. C’era chi si presentava e pretendeva di giocare in quindici, chi voleva porte più strette o più larghe, chi si avventava sull’avversario come in un assalto all’arma bianca, chi usava palloni piccoli e leggeri e chi grossi come un otre.

Nonostante queste difformità, già nel 1855 vennero organizzati regolari incontri tra le varie scuole, soprattutto match tra università che richiamavano un folto pubblico. Nel 1857, subito dopo l’inaugurazione del nuovo campo di cricket di Bramali Lane, uno dei soci dello Sheffield Cricket Club, William Prest, riunì alcuni compagni della «Collegiate School» e fondò lo Sheffield Football Club, la prima «vera» società di calcio al mondo di cui si abbia costituzione certificata.

Nel giro di cinque anni, esistevano ben quindici club nell’area urbana della città, e nel 1861 un «derby» tra Sheffield FC ed Hallam fu giocato di fronte ad oltre seicento persone. Un ulteriore passo in avanti, sotto il profilo regolamentare, fu compiuto nel novembre dell’anno seguente, quando prima dell’incontro tra Old Etonians e Old Harrovians (due schieramenti composti da ex studenti dei colleges di Eton e Harrow) furono stabilite regole «ufficiali»: undici giocatori per parte, un arbitro neutrale più due «umpires» (giudici), porte di 12 per 20 piedi, 75 minuti quale durata del confronto e fuorigioco a tre.

Giusto un anno dopo, esse furono prese a modello dai veri fondatori del calcio moderno. Ci vollero dunque quindici anni, partendo dalla riunione «open air» di Cambridge, affinché le avanguardie si trovassero attorno ad un tavolo per riunire definitivamente intenti e sforzi comuni. La sera del 26 ottobre 1863, un lunedì, una sala della Freemasons’ Tavern nella Great Queen’s Street del quartiere di Holborn, a Londra, ospitò i delegati di tredici colleges ed università. I partecipanti si dichiararono tutti d’accordo riguardo alla creazione di un organismo «super partes» che si prendesse cura di compilare un regolamento generale e valido per tutti.

Il nascituro venne battezzato «Football Association», ed è proprio da questa ragione sociale che nacque il termine «soccer», con cui oggi si identifica il calcio in alcuni paesi del mondo. Un giorno di qualche anno dopo, mister Charles WrefordBrown (buon giocatore dei suoi tempi) si stava recando al campo per la solita partita. Essendo agghindato in tenuta non certo da gran cerimonia, venne apostrofato da alcuni ragazzi con «Are you a rugger?», dove con questa parola volgare si intendeva il giocatore di rugby. WrefordBrown mantenne il tradizionale aplomb replicando «No, I am a soccer», storpiando a tono «association» secondo lo stesso principio fonetico. Senza volerlo, aveva coniato un nuovo vocabolo, passato nel tempo all’uso comune.

A partire da questa fatidica data, si esce dalla leggenda per entrare nella storia, quasi nella cronaca. Lo stesso «The Times» non rimase insensibile all’avvenimento, dedicandogli un «report» di trentacinque righe su tre colonne. All’inizio, non tutto filò liscio: la F.A. non raccolse sufficiente entusiasmo sino a quando non giunse alla sua guida (anno 1867) Charles William Alcock, che aveva imparato ad amare il gioco durante la permanenza ad Harrow tra il 1855 e il 1859.

Charles William Alcock

L’uomo dello Yorkshire impresse uno straordinario impulso al movimento pallonaro del Regno. Fu lui, infatti, ad organizzare i primi scontri internazionali non ufficiali tra inglesi e scozzesi (o meglio, un team di «Scotsmen» residenti a Londra), oltre che una regolare serie di confronti tra selezioni di Londra e Sheffield. Il campanilismo latente negli abitanti delle varie città e contee fece il resto: a grande richiesta, Alcock inventò una «Challenge Cup» alla quale erano invitati tutti i clubs affiliati alla federazione. Era nata, finalmente, la Coppa d’Inghilterra.

La competizione, cui si iscrissero quindici teams (ma tre si ritirarono prima della partenza) fu appannaggio dei «The Wanderers» (la ex Forest School), con capitano lo stesso Alcock. Pubblico pagante alla prima finale: duemila persone. Era il 1872. Di lì a poco, Alcock mise in piedi il primo incontro ufficiale della storia tra rappresentative nazionali: Scotland vs. England, recitava il tabellone. La data, il 30 ottobre. Fini senza reti, ma gli scozzesi stabilirono ugualmente un record eguagliabile ma non superabile: l’intera squadra era composta da giocatori del Queen’s Park di Glasgow, una formazione che rimase imbattuta dalla sua fondazione (9 luglio 1867) sino al febbraio 1876, senza dimenticare che subì la prima rete solamente nel 1872.

Nel giro di pochi anni il football diventò un fenomeno sociale, e da ricreazione e passatempo si trasformò in ragione di vita per attori e spettatori. I tempi, poco dopo, si fecero maturi per il sistema professionistico, accettato (seppur sotto stretta sorveglianza della F.A.) nel 1885; gli scozzesi, per compiere identico passo, attesero otto anni ancora. Nel 1884 gli ormai tradizionali scontri diretti tra le selezioni delle quattro federazioni dello United Kingdom suggerirono l’idea di un torneo, chiamato «Home Championship»: il campionato interno, di casa.

Anche allora, come si vede, l’Europa era «il territorio al di là della Manica». Figlio del progresso industriale nel British Emperor e grazie all’espansione dell’influenza inglese nei territori che sfruttavano la competenza dei tecnici più avanzati di quel paese, il football si espanse a macchia d’olio nel continente e sulle rive opposte dell’Atlantico. Quasi tutti i «portatori» del germe del calcio furono marinai delle navi di Sua Maestà la Regina, oppure funzionari delle agenzie commerciali e delle fabbriche sparse in tutto il mondo.

Sulle rive del Rio de la Plata fu la grande produzione di ottima carne a richiamare l’attenzione degli inglesi: per Buenos Aires e Montevideo, verso la fine del secolo scorso, salparono migliaia di frigoriferi… e qualche pallone al seguito. E già nel 1899 due squadre delle rispettive capitali si sfidarono al centro sportivo «La Blanqueada», tempio del Montevideo Cricket Club. Mal gliene colse, ai padroni di casa, sconfitti per 3-0.

Ancora per alcuni anni l’elemento indigeno faticò ad integrarsi nel tessuto delle compagini di «fùtbol»: famosi rimasero i fratelli Brown (Alfredo, Eliseo, Jorge e Juan), un gruppo di giganti simili più a camionisti che a calciatori, che formarono l’ossatura del club «Alumni», ovvero la English High School.

In Brasile, il primo pallone venne introdotto da Charles Miller, di ritorno in patria dopo un soggiorno di studio in Inghilterra. Anche nella terra del caffè i locali tardarono nell’applicarsi al football. Ma quando giocatori di colore e meticci si appassionarono al gioco, la loro supremazia – basata soprattutto sulla fantasia – fu eloquente.

In Europa le direttrici di diffusione e sviluppo del gioco si intrecciarono in numerosi casi. L’elemento comune, sempre il medesimo: la presenza inglese per ragioni commerciali. È ben nota la genesi del calcio italiano: Edoardo Bosio (impiegato di una «english firm») e i residenti britannici in quel di Genova al nord, il magnate del thè, sir Thomas Lipton, nel Meridione.

Stessa storia all’estero, dal Portogallo alla Francia, dalla Spagna all’impero Asburgico. Al cambio di secolo, quasi tutti i paesi del Vecchio continente possedevano una federazione calcio, e in alcuni di essi veniva già organizzato un campionato di massima divisione.

Se il primo confronto internazionale in assoluto era andato in scena nel 1872, analogo evento tra Nazionali latinoamericane si giocò nel 1901 (16 maggio a Montevideo, UruguayArgentina 2-3), seguito l’anno appresso da quello tra Austria e Ungheria, che inaugurò la serie tra i non britannici in Europa.

In Brasile, il primo pallone venne introdotto da Charles Miller

Anche l’Olimpiade aveva aperto le sue porte al calcio: assente ad Atene 1896, il football debuttò a Parigi nell’ultimo anno del XIX secolo quando l’Upton Town – formazione dilettantistica che rappresentava l’Inghilterra – aveva dominato due squadre francesi e belghe. Tra un can-can e l’altro gli spettatori dimostrarono di gradire lo spettacolo, e un giornalista del «Matin», Robert Guérin lanciò l’idea di una confederazione che regolasse l’attività internazionale e, da ultimo, desse vita ad una sorta di campionato del mondo per club.

Guérin interessò alla cosa l’olandese Hirschmann, che consigliò il collega di rivolgersi innanzitutto alla F.A. londinese: senza l’appoggio dei potenti britannici, ogni tentativo sarebbe stato di difficile realizzazione. Sir Frederick Wall, reggente della Football Association, tenne fede al proprio cognome: «Ripassi più avanti, buon uomo», fu il succo della risposta. Due anni più tardi, cambiarono i suonatori ma non la musica: stavolta fu Lord Kinnaird a rispedire a casa Guérin con la coda tra le gambe. Il francese, tenacissimo e mai domo, non si perse d’animo e decise di procedere senza l’appoggio dei britannici.

Da Parigi partirono gli inviti per tutte le associazioni nazionali d’Europa: il 21 maggio del 1904 si presentarono in rue Saint-Honoré 229 – sede della federcalcio francese – i delegati di Belgio, Danimarca, Germania, Spagna, Svezia e Svizzera, oltre naturalmente a quelli di Francia e Olanda. Oltre alle decisioni di rito (riguardanti più che altro la redazione dello statuto e di un regolamento comune), alla prima riunione della Fifa venne lanciata la proposta di un Campionato europeo per club. Essa ebbe successo solo sulla carta, in quanto alla scadenza per le iscrizioni (31 agosto 1905), adesioni effettive zero.

L’attivismo degli affiliati alla Fifa convinse tuttavia Mr. Woolfall (nuovo presidente al di là della Manica) a rompere l’isolamento: il primo di aprile del 1905 Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda fecero il proprio, trionfale l’ingresso nell’ente mondiale, e un anno dopo lo stesso Woolfall sostituì Guérin sullo scranno più alto. Il tipico pragmatismo anglosassone fece tramontare il sogno di una competizione continentale, rimandando tutto ai successivi Giochi olimpici di Londra 1908.

I padroni di casa, come ovvio, dominarono in lungo e in largo: al timone dell’attacco della selezione «amateur» inglese era Vivien Jack Woodward (architetto di professione), grande goleador e fine organizzatore di gioco. Stesso tenore a Stoccolma — edizione successiva della kermesse a cinque cerchi — dove fece la sua prima apparizione ufficiale la squadra azzurra, guidata da Vittorio Pozzo, che aveva debuttato venticinque mesi prima seppellendo la Francia (6-2) all’Arena di Milano.

A tutte le latitudini stavano già affermandosi ottimi calciatori, prima di tutto sulle rive del Danubio: un nome solo, quello di Imre Schlosser, superbomber del MTK Budapest, e «gólkiraly» della Nazionale magiara. Alla ripresa dell’attività, nuove compagini si affacciarono nell’arengo internazionale: Spagna, Jugoslavia, Cecoslovacchia (nata dall’unione di Boemia, Moravia e Rutenia). Ad Anversa, Olimpiade del ’20, trionfarono gli uomini di casa, con la grande sorpresa del 3-1 inflitto dalla Norvegia ai dilettanti inglesi.

Il Belgio medaglia d’oro all Olimpiadi 1920

Ma il mondo del calcio cominciò a sentirsi unito solamente a Parigi 1924, quando giunsero in Europa i ventidue uruguaiani, circondati da un fittissimo alone di mistero. A Montevideo si giocava probabilmente il miglior calcio del momento, e in Sudamerica il campionato continentale era nato otto anni prima. La loro scuola era all’avanguardia, e la dimostrazione fu completa e senza discussione. Andrade, Scarone, Cea, Nasazzi e compagnia impartirono lezioni di maestria tecnica impressionando per la facilità nell’interpretazione degli schemi. Il successo non sfuggì agli «orientales» (3-0 in finale alla Svizzera), che seppero poi ripetersi ad Amsterdam nel ’28.

L’Inghilterra e le sue sorelle si astennero dal prender parte alle due manifestazioni ritenendo, forse a giusta ragione, che giocatori abilitati a star lontano da casa per due mesi e più fossero tutto fuorché «amateurs», trascinando con sé anche Austria, Cecoslovacchia ed Ungheria.

Un passo indietro: nel 1924 il francese Jules Rimet, da tre anni massimo dirigente della Fifa, aveva insediato una commissione di cinque membri (Bonnet, Meisl, Delaunay, Linnemann e Ferretti) al fine di verificare se esistessero le condizioni per la nascita di una manifestazione mondiale «open», estranea alle Olimpiadi. L’uscita dalla Fifa dei britannici (1926) non compromise i lavori del gruppo, che al Congresso ordinario di Amsterdam annunciò trionfante: «Questa Assemblea decide di organizzare nel 1930 una competizione aperta alle squadre nazionali di tutte le federazioni associate».

Non tutti credettero in una reale possibilità di concretizzare tale intento, ma solo coloro che non conoscevano gli «attributi» di Jules Rimet. Ungheria, Spagna, Italia, Olanda, Svezia ed Uruguay avanzarono la propria candidatura, e all’appuntamento successivo di Barcellona venne comunicata la scelta, caduta sulla giovane torneo fu stabilita in quattro anni (in alternanza con i Giochi) e venne immediatamente commissionato all’orafo francese Abel Lafleur il trofeo: una «vittoria alata» in oro massiccio, trenta centimetri di altezza per 1800 grammi di peso. Tutti i desideri fortemente agognati, un bel giorno si realizzano. E così fu.

jules rimet
Un be ritratto di Jules Rimet, l’inventore della Coppa del Mondo