Storie e avventure dei turchi in Italia

Quelli che giocano – e bene – nel ruolo sbagliato e quelli che un ruolo preciso dicono di non averlo. L’Imperatore, il maradonino del Bosforo e il Sivori di Istanbul. C’è un po’ di tutto nella breve e succosa storia dei turchi in Italia.

E’ una storia che procede a folate improvvise, come succede per gli abiti o le acconciature: vanno e vengono secondo le mode. Quanti turchi sono passati dai nostri schermi, da che calcio è calcio? Una ventina e un tecnico, Terim.

Quando e come? A scaglioni, come le reclute. Tra il 1950 e il 1952 ne sbarcano quattro: Şükrü Gülesin al Palermo, Eken Bülent alla Salernitana, Aziz Esel Bülent alla Spal, Lefter Küçükandonyadis alla Fiorentina. Due nel ‘61: Can Bartu alla Fiorentina e Metin al Palermo. Per il resto del contingente, se si esclude la fallimentare parentesi di Sukür al Torino nel ‘95, bisogna aspettare il 2000: nel breve volgere di un anno solare, arrivano, oltre a Terim e al redivivo Sukür, Emre Belözoğlu e Okan Buruk all’Inter, Ümit Davala al Milan. Poi nuovo stop prima della nuova infornata a cavallo del 2020 guidata da Hakan Çalhanoğlu.

La dolce vita di Şükrü Gülesin

Şükrü Gülesin

Storia succosa, si diceva. Succosa e, a dire il vero, poco esaltante. Il primo turco a toccare il suolo italico è Şükrü Gülesin, estate del 1950. Arriva dal Beşiktaş e arriva con la fama del gran goleador. Fama meritata, a giudicare dalle prime mosse: col Palermo infila la porta tredici volte e poco male se il tocco di palla non è il massimo della grazia. Gülesin ha un fisico imponente e nel fuoco vivo dell’area di rigore non ha paura di niente.

Possibile che uno così, peraltro nel pieno dell’età (va per i ventinove) possa restare confinato alla Sicilia? Certo che no: chiama la Lazio e Gülesin risponde. La vena realizzativa a Roma non si esaurisce: arrivano altri sedici gol, ma spunta anche una sempre più inquietantante pancetta. Perché il prode Şükrü – musulmano sui generis – non disdegna la cucina italiana e nemmeno la bella vita. Si è accasato decisamente bene e con i denari del suocero, ricco mercante di tappeti, se la spassa ben al di sopra delle proprie possibilità. E ingrassa.

Eppure, quando Bigogno, l’allenatore di quella Lazio che a fine stagione arpionerà un ottimo quarto posto, decide che il peso massimo può cortesemente accomodarsi in panca, Şükrü reagisce maluccio. E se un giocatore, nel bel mezzo di un allenamento, si mette a rincorrere il suo tecnico tagliando l’aria con un coltellaccio, è chiaro che poi diventa dura far finta di niente. Fine dell’avventura: Şükrü Gülesin torna a Palermo e nel giro di un anno viene rispedito in Turchia.

Avventure brevi, quelle dei turchi sbarcati in Italia all’alba degli anni Cinquanta. Eken Bülent resiste due anni (Salernitana e Palermo) e il suo omonimo Aziz, che pure si toglie qualche soddisfazione in più, gioca con la Spal appena tre stagioni.

Vicenda curiosa, quella del centravanti che Paolo Mazza scova nel Beşiktaş. Centravanti? Al debutto in campionato viene schierato in quel ruolo e se la cava decisamente bene. Ma a fine gara lascia tutti di sasso: «Centravanti io? No, guardate, dev’esserci un equivoco. Io ho sempre giocato centrocampista». Complimenti vivissimi agli osservatori, ma tutto sommato ci si può consolare: «Se gioca così in un ruolo non suo», ride il presidente, «chissà cosa combinerà nella posizione giusta». Vero: tredici gol il primo anno e altri quattordici nelle due stagioni successive.

Di sicuro va meglio alla Spal che alla Fiorentina. L’ala Lefter Küçükandonyadis è un nazionale turco di talento, ma un tipo discontinuo: momenti di struggente ispirazione e lunghe pause di nera depressione. La prima stagione va così così, ma una volta rotto li ghiaccio – si dicono quelli della Fiorentina – il lunatico turco non potrà che migliorare. Impossibile avere la conferma perché l’impareggiabile Lefter non si presenterà mai al raduno per la stagione successiva. Sparito nel nulla.

Gli incubi di Can Bartu

Can Bartu

Scottato da certi atteggiamenti quantomeno originali, il calcio italiano lascia passare qualche anno prima di rimettersi a sondare i mercati del Bosforo. Nell’estate del ‘61 la seconda ondata. E se Oktay Metin, centravanti del Galatasaray ingaggiato dal Palermo, non lascia traccia (dodici presenze e tre gol), un discorso a parte merita l’interno Can Bartu che la Fiorentina preleva dal Fenerbahçe.

Venticinque anni, un passato da cestista, Bartu si trascina dietro un soprannome pesantissimo: il Sivori di Istanbul. Che tipo è il Sivori dei poveri? Una mezzala dal tocco aggraziato, che però ha una paura folle dei tocchi, assai meno raffinati, dei difensori avversari. Lo dice chiaro:

«Qui non fanno neppure la fatica di cercare il pallone, entrano direttamente sulle gambe. E, se permettete, io mi scanso».

Tanto si scansa che finisce in panchina.

Meglio ricominciare da Venezia, una piazza con meno pretese. E infatti in Laguna Can si produce con buona continuità, giocando trenta partite e segnando pure otto gol. Che ne dice Beppe Chiappella, il tecnico viola? Dice che, se Bartu è questo, può anche tornare. Stagione ‘63-64: riecco il turco sotto la collina di Fiesole. Ma è quello di Venezia o cos’altro? È la solita musica, purtroppo: dieci partite in tutto, stavolta può bastare per davvero.

Fortuna per Bartu che in giro c’è ancora qualcuno disposto ad accontentarsi: per la Lazio che naviga sull’orlo dell’abisso, il discontinuo genio di Can potrebbe essere un’ancora di salvezza. Ma sì, l’idea del mutuo soccorso funziona per un paio d’anni. Poi, nella primavera del ‘67 sprofonda la Lazio e sprofonda anche Bartu, costretto al rimpatrio per mancanza di offerte.

Provaci ancora, Hakan Şükür

Hakan Şükür

Passeranno quasi trent’anni prima di rivedere un altro turco da queste parti. Ancora una storia da dimenticare. Nell’estate del 1995 il Torino di Calleri acquista dal Galatasaray, con la mediazione dell’allora Ct della Nazionale, tale Fatih Terim, il centravanti Hakan Şükür.

Nato nel Sakariaspor e cresciuto nel Bursaspor, Şükür è esploso in giallorosso: in tre stagioni al Galatasaray ha segnato 54 gol e insomma l’affare dovrebbe essere assicurato. Ma già al momento della firma il tempo non mette al bello: «Sono un pacco postale», dice Şükür, «mi usano per fare i soldi».

L’entusiasmo delle prime ore si stempera col passare dei giorni: Hakan fa poco per adattarsi ai costumi italiani ed è capace di interrompere qualsiasi attività, persino l’allenamento. per srotolare il tappetino d’ordinanza e mettersi a pregare rivolto alla Mecca. Pure di notte si sveglia per svolgere le pratiche religiose ed è normale che i vari compagni di stanza gradiscano fino a un certo punto. Prima Rizzitelli, poi Milanese chiedono di essere esentati dall’impossibile convivenza.

In campo le cose non vanno molto meglio: il primo gol arriva alla quinta giornata. L’inizio di una grande avventura? Macché: il giorno dopo Şükür prende un aereo per Istanbul e chiude, all’improvviso, la sua prima parentesi italiana. «Troppo giovane, troppo immaturo», dirà poi per spiegare il fallimento granata. Di sicuro la stoffa del bomber non manca. Tornato al Galatasaray, Şükür riprende il discorso da dove l’aveva interrotto: 16 gol in quella stessa stagione, poi 38, 32, 19.

Eppure, quando l’Italia torna a chiamare, siamo alle solite. Nel gennaio del ‘99 Şükür piomba di nuovo a Torino, ma stavolta è la Juve che gli offre un ingaggio. Peggio che quattro anni prima: Hakan si presenta con due procuratori in concorrenza l’uno con l’altro. Su un solo punto si trovano d’accordo: se la Juve vuole il bomber del Bosforo deve sborsare 11 miliardi netti. In anticipo. Persino Moggi, che pensava di averle viste tutte, stenta a credere alle sue orecchie. Due giorni dopo Şükür è già sull’aereo che lo riporta a Istanbul. Fine della seconda puntata.

E nemmeno la terza comincia sotto i migliori auspici. Dopo Euro 2000 è Lippi che lo vuole all’Inter. Peccato che Marcello si faccia esonerare dopo la prima giornata, lasciando il turco triste al suo destino. Ma stavolta Hakan non se la sente di scappare, di dare ragione ai tanti che lo vedono perduto lontano dalla Turchia. Resiste, sopporta la panchina e all’occasione riesce anche a farsi trovare pronto. Un paio di gol pesanti non valgono però la riconferma: la stagione successiva scende a Parma dove racimola a stento una quindicina di presenze prima di chiudere definitivamente con l’Italia che, crediamo, non vorrà rivedere nemmeno in vacanza.

La Milano dei turchi

Emre Belözoğlu

Potrebbe essere la svolta per l’apripista Şükür. Perché il 2001 segna l’arrivo a Milano di una vera e propria colonia di turchi. C’è l’imperatore Terim, reduce dalla paradossale esperienza alla Fiorentina. Ci sono Emre e Okan, all’Inter, e Ùmit, al Milan. Vengono tutti dal Galatasaray. Şükür non è più solo.

L’elemento più interessante del lotto è Emre Belözoğlu, che i turchi paragonano con molta generosità a Maradona. Ha appena 21 anni quando approda all’Inter ma è già un veterano. Fu Terim a farlo esordire in prima squadra nel ‘97 e a consegnargli di lì a poco una maglia da titolare. Campionato e Coppa dei Campioni: Emre diventa il faro del centrocampo del Galatasaray, abbinando un sinistro vellutato a una tenuta atletica non comune.

Approdato alla Nazionale nel 2000, è un tipo che piace agli allenatori: Emre, infatti, resta all’Inter fino al 2005, anno in cui vince la Coppa Italia che dà inizio al ciclo vincente dei nerazzurri. Viene ceduto al Newcastle dove, dopo un solo anno, lo raggiungerà anche Obafemi Martins.

Okan Buruk, 28 anni, è il gregario ideale di Emre. Centrocampista senza fronzoli, arriva all’Inter, dopo dieci stagioni al Galatasaray. Mircea Lucescu, che lo aveva allenato dopo la partenza di Terim, lo descriveva così:

«E un centrocampista esterno di destra capace di recuperare un numero impressionante di palloni. Su una cosa si può contare: Okan non si ferma mai, corre dal primo all’ultimo minuto. Piuttosto, non chiedetegli l’apertura illuminante, quello è un compito che spetta ad altri».

In effetti nessuno gli chiese molto e giocò ben poco durante la prima stagione, quella chiusa col famoso 5 maggio. Alla seconda, invece, l’hombre vertical Cuper decise di schierarlo con più frequenza, ottenendo prestazioni altalenanti. Infine, alla terza e ultima stagione in nerazzurro, 2003/2004, perse nuovamente i gradi del titolare concludendo l’esperienza italiana a rientrando in Turchia.

Umit Davala

Gregari, maradonini e centravanti in cerca di riscatto: possibile – dev’essersi detto l’allora neo allenatore milanista Terim – che tutti i turchi che sbarcano a Milano finiscano inevitabilmente sull’altra sponda? Ma no, basta aspettare, e anche il Milan imbocca la via di Istanbul. Nell’estate 2001 arriva sotto la Madonnina Umit Davala, 28 anni, una vita, pure lui, nel Galatasaray. Professione: universale. Sentitelo in questa dichiarazione d’epoca: «

In carriera ho ricoperto tutti i ruoli, tranne quello di portiere. Di solito, mi trovo meglio a centrocampo. Spesso ho giocato a destra, ma posso stare anche al centro. Una volta, assente Sukur, sono stato schierato centravanti: ho segnato una doppietta. Poi ho fatto anche il difensore. Se conosci il calcio, dovresti saper giocare dappertutto».

Alla fine però giocherà pochino: viene schierato nell’undici iniziale solo sei volte perchè già a novembre il suo sponsor Terim viene sollevato dall’incarico e a fine stagione Davala farà ritorno al Galatasaray.

La ripartenza

Hakan Çalhanoğlu

Dopo le ripetute delusioni, si impone un nuovo stop negli arrivi dal Bosforo, un canale riaperto solo a partire dagli ultimi anni dello scorso decennio con una nuova esplosione di nomi: Salih Ucan (due brevi apparizioni a Roma e Empoli), Caner Erkin (che non fa nemmeno in tempo ad esordire con l’Inter), Hakan Çalhanoğlu (più che discreto con il Milan), Cengiz Under (il più talentuoso ma incompreso a Roma), Koray Gunter (Genoa e Verona), Merih Demiral (Juventus, via Sassuolo), Mert Cetin (ancora Roma, poi Verona), Mert Muldur (Sassuolo), Sinan Gümüş (3 presenze con il Genoa), Kaan Ayhan (ancora Sassuolo) ….

E siamo arrivati alla fine del 2020 con questa nuova generazione di talenti che cerca di scrivere una storia che abbia, una volta tanto, il lieto fine.