Storie di ingaggi e procuratori

La retribuzione di un calciatore è uno degli aspetti più importanti della sua carriera. Le stelle del football pongono come condizione essenziale un contratto vantaggioso con il proprio club e anche con gli sponsor. Un concetto non è sempre appartenuto alla storia del calcio mondiale. Anzi.


La retribuzione di un calciatore è uno degli aspetti più importanti della sua carriera. Come i grandi attori hollywoodiani, anche le stelle del football mondiale pongono come condizione essenziale un contratto particolarmente vantaggioso con il proprio club e anche con gli sponsor. Tuttavia questo concetto non è sempre appartenuto alla storia ultracentenaria del calcio mondiale. Anzi.

Nell’epoca degli albori il vero tabù era la busta paga. I primi club inglesi furono solo per dilettanti. Le vittorie furono pagate soltanto con il sudore e gli applausi. C’erano solo dei modesti rimborsi spese, che spesso non coprivano le uscite dei singoli calciatori per i viaggi e le giornate di lavoro perse.

Nel 1882 c’erano voci di piccoli incoraggiamenti sottobanco e The Football Association reagì immediatamente minacciando di sospendere qualsiasi club che si fosse reso colpevole di questa infrazione. Ma la doppia contabilità era, comunque, all’ordine del giorno. Il Preston North End e il Blackburn Rovers furono un esempio coraggioso per quei tempi con la decisione di dare ai loro migliori giocatori una regolare retribuzione. Erano cifre irrisorie rispetto ai maxi contratti odierni, tuttavia fecero scalpore.

Lo Stoke City, per esempio, pagava ai suoi uomini due scellini e sei denari per settimana, ossia una sterlina ogni due mesi. Nel 1883 il furbo Bolton Wanderers escogitò un sistema (per lui) redditizio: ogni giocatore riceveva un premio di due scellini e sei denari vincendo la gara, ma se la squadra perdeva, a ogni membro del club veniva addebitata la stessa somma. Una delle prime star assolute del calcio di tutti i tempi fu senza dubbio Steve Bloomer: giocava nel Derby County, ma anche lui doveva accontentarsi di poche sterline.

I Bolton Wanderers stagione 1883

Fino a quando The Football League decretò nel 1891 che un giocatore non potesse ricevere che dieci sterline cambiando società. Di fatto, la busta paga veniva sancita. Tuttavia, malgrado il riconoscimento oltremanica risalisse al 1885, per la generalità dei giocatori la partita continuava anche lì a rappresentare una pratica orgogliosamente amatoriale. Lo spirito dilettantistico impediva anche il confronto con gli altri colleghi di altri paesi europei ritenuti – un po’ altezzosamente – dei professionisti.

Questo paradosso era giustificato dal fatto che la massima organizzazione del calcio mondiale (la FIFA) considerava con preoccupazione ogni lacerazione dell’unità interna delle singole federazioni. Così che, quando i dilettanti inglesi si erano ribellati al professionismo e avevano dato vita nel 1913 alla Amateur Football Alliance, la FIFA non li aveva riconosciuti. Che dietro questi atteggiamenti cominciasse a celarsi una delle più colossali doppiezze dello sport del XX secolo, è facilissimo da immaginare.

Nuovi interessi investivano la sfera del calcio, mentre il filo che univa il football e i magnati dell’economia cresceva sempre più robusto. In Italia divenne sempre più frequente negli anni 20 la figura del ricco presidente di società, disposto a spendere cifre rilevanti senza contropartite apparenti e immediate, pur di ottenere buoni risultati per la sua squadra. Al mecenatismo latente dell’età dei pionieri, si andava sostituendo un meccanismo più diffuso e organizzato.

E proprio in quest’epoca – gli anni 20 – la stampa sportiva aveva cominciato a esprimere la necessità di un cambiamento della condizione professionale dei giocatori. Tuttavia la Figc non si turbava affatto e ancora nel 1925 ribadiva la più severa condanna del professionismo. Il fenomeno, comunque, era inarrestabile: le grandi città dell’aristocrazia del calcio italiano – Torino e Milano, Genova e Bologna, Roma e Napoli – promettevano gloria e ricchezza per i loro calciatori.

Sia pure in modo non proprio chiaro: Fulvio Bernardini, per esempio, guadagnava 606 lire al mese nel 1926, ma non certo come calciatore, perché la sua busta paga si riferiva all’impiego in banca, garantito – ovviamente – dal club d’appartenenza. Erano, comunque, quegli gli ultimi anni dell’«equivoco». Così, mentre in tutto il mondo si andava cancellando definitivamente la figura del gentleman-amateur, in Italia la Carta di Viareggio – vera e propria rivoluzione del calcio nostrano voluta dal regime fascista – sancì la definitiva distinzione tra dilettanti e non dilettanti. Anche allora, tuttavia, non mancavano le polemiche per gli ingaggi eccessivi dei singoli calciatori.

Raimundo Orsi: per lui stipendio di 8000 lire al mese più una vettura Fiat 509

Privilegi eccezionali ottennero i primi sudamericani giunti in Italia con la scappatoia dello status di oriundi. Tra lo stipendio di 8000 lire al mese – più una vettura Fiat 509 – di Raimundo Orsi e la media delle retribuzioni italiane, le differenze erano abissali. Un maestro guadagnava 400 lire al mese, mentre un magistrato sfiorava le famose 1000 lire della canzonetta. I nuovi ingaggi nel calcio erano, insomma, un fenomeno ancora ridotto, certo. Ma in crescita. E se fino all’esplosione del secondo conflitto mondiale la media dei calciatori che ricevevano un regolare stipendio era, appena, dell’uno per cento, negli anni 50 la storia cambiò radicalmente.

Le retribuzioni erano ormai ufficiali per tutti i calciatori: la differenza erano sul «quanto». E nella storia delle buste paga dei giocatori italiani – tranne qualche rara eccezione – il vero salto di qualità avvenne col boom economico degli anni 60. Da allora l’escalation è stata inarrestabile. L’apertura agli sponsor e l’introduzione della cessione dei diritti televisivi hanno portato ai valori attuali. Che rasentano l’incredibile: l’incidenza delle retribuzioni porterà presto molti grandi club a un disavanzo finanziario pericoloso.

Oltre ad ingaggi spaventosamente alti, a questi vanno aggiunti gli introiti che i maggiori calciatori ricevono dagli sponsor. Vale a dire le grandi aziende di abbigliamento sportivo e non solo che, attraverso l’immagine dei vari campioni, hanno sfruttato il veicolo della pubblicità. In queste condizioni di mercato, la carriera del giocatore di pallone ha subito una radicale trasformazione.

Oggi la media degli stipendi «globali» è talmente cresciuta da mettere al riparo gli atleti da quelli che, fino a trent’anni fa, erano i cattivi investimenti o le vere e proprie truffe, che spesso spingevano grandi stelle sul lastrico nel breve spazio di un mattino. Anche per questo, di pari passo con la crescita degli emolumenti, s’è fatta strada nel mondo del calcio, intermediario tra la figura dei club e quella dei calciatori, la professione del procuratore.

Un vero e proprio professionista – da anni ormai riconosciuto in un albo prefissato dalla Figc – che cura gli interessi del calciatore, tentando di strappare sempre l’accordo più vantaggioso in cambio di una percentuale che varia a seconda delle circostanze. Una figura che ha sviluppato così in fretta la sua immagine da attirare su di sé parecchie critiche. Non ultima, quella di chi sostiene che sono i procuratori – con le loro scelte e le loro decisioni – a determinare realmente l’andamento delle cessioni e degli acquisti tra un club e l’altro.

Sarebbe, insomma, questa schiera di uomini con la valigetta ventiquattr’ore, esperti di diritti e di contratti, la vera padrona del calcio moderno. Un’esagerazione, certo. Che tuttavia ribadisce ancora una volta -ammesso che ce ne fosse bisogno – come gli ingaggi e gli uomini che li determinano siano diventati parte fondamentale del football del nuovo millennio.

Testo di Marco Cherubini