Svezia 1958: l’ora del trionfo

Dopo tante delusioni, la culla del “futebol bailado” raggiunge la vetta del mondo. Grazie a una vera generazione di fenomeni.

Per il suo sesto appuntamento la Coppa del mondo rimase nel Vecchio Continente. La scelta cadde sulla Svezia, in base a ineccepibili motivazioni politico-sportive. Il mondo viveva non senza angoscia la “guerra fredda” tra i due blocchi, occidentale e sovietico. Nel 1956 i fatti d’Ungheria fecero temere per la rottura dei precari equilibri della pace mondiale, ripercuotendosi tra l’altro in modo decisivo anche sul versante del pallone. Assieme alla libertà degli insorti magiari, sotto i cingoli dei carri armati sovietici finì il mito dell’”Aranycsapat”, la “squadra d’oro” ungherese innervata soprattutto dai fuoriclasse della Honved; sorpresi in una tournée in giro per il mondo dall’insurrezione. molti giocatori decisero di non far ritorno in patria, cercando ricetto in Nazioni ospitali. Tra questi, Puskas, Kocsis, Czibor, campioni di livello mondiale.

In un mondo attraversato da gelide correnti, la Svezia aveva avanzato per l’organizzazione del Mondiale di calcio la propria candidatura di Paese non schierato, pienamente neutrale e forte di un diffuso benessere. La bontà della scelta venne attestata dall’amplissimo ventaglio di adesioni: si iscrissero alle qualificazioni ben 51 Federazioni, tra cui per la prima volta proprio l’Unione Sovietica. I Paesi più evoluti andavano scoprendo l’enorme valore anche economico del calcio, la sua capacità di muovere imponenti interessi sociali e commerciali.

A quegli anni (1955) risale la fioritura delle Coppe europee, con la nascita della Coppa dei Campioni e poi di quella delle Fiere (successivamente trasformata in Coppa Uefa), grazie all’impulso assicurato dall’Unione delle Federazioni calcistiche europee, l’Uefa, nata durante i Mondiali del 1954.

L’imponente numero di partecipanti impose una suddivisione per continenti dei gruppi di qualificazione. L’Europa ovviamente fece la parte del leone, con nove gruppi di tre squadre l’uno.

SPROFONDO AZZURRO

Il capitolo dei “grandi assenti” non può prescindere da una corposa premessa, che riguarda l’Italia. Il marzo 1957 rappresenta una specie di spartiacque. L’Italia è stata inserita nel girone di qualificazione mondiale di Irlanda del Nord e Portogallo, con un certo sollievo della critica, visto il livello tecnico delle due formazioni. Bene, in vista dell’appuntamento, il Consiglio federale stabilisce che, accanto ai generici poteri di controllo della Commissione tecnica presieduta da Pasquale, i poteri del Direttore tecnico e quindi di selezionatore passano ad Alfredo Foni, mentre Marmo retrocede a semplice membro della commissione stessa.

Fondata sul blocco della Fiorentina campione d’Italia, la Nazionale azzurra debutta contro i nordirlandesi all’Olimpico, il 25 aprile 1957. Si impone per 1-0, tra bordate assordanti di fischi. Il gol, una punizione di Cervato dopo tre minuti, viene difeso con l’aiuto della fortuna (doppio palo irlandese nel finale del secondo tempo), mentre il pubblico dimostra apertamente di non gradire il desolante non gioco degli uomini di Foni.

IL MAGGIO NERO

Arriva così il “maggio nero” della nostra Nazionale. Il 12 maggio a Zagabria si gioca la partita di Coppa Internazionale con la Jugoslavia, ideale preparazione all’incontro col Portogallo per il Mondiale il 26 a Lisbona, e ne esce una delle sconfitte più cocenti della storia azzurra: 1-6. Solo 33 anni prima, a Budapest, l’Italia aveva subito un passivo più pesante ( 1 -7). Anziché alleggerire il blocco della Fiorentina chiaramente in affanno, Foni, deluso dall’attacco dell’olimpico, ha deciso di affidarsi anche alla prima linea gigliata, mandando in campo ben nove uomini viola: la difesa (col laziale Lovati in porta), più quattro quindi dell’attacco: Gratton, Virgili, Montuori e Prini. In luogo di Julinho, ala destra gigliata, Boniperti. che attaccante puro non è più da un pezzo. Una formazione con due tornanti, tesa a chiudere più che a imporre il proprio gioco, e subito in difficoltà per il rapido doppio vantaggio degli avversari. Per giunta, in contemporanea, a Pescara, i “cadetti” dell’Italia B, da cui dovrebbero uscire le alternative ai titolari, soccombono addirittura all’Egitto.

Il 23 maggio il Milan di Schiaffino conquista lo scudetto e il giorno dopo la Nazionale parte per Lisbona col suo carico di interrogativi, ma anche confortata da favorevoli auspici: il Portogallo, nel ritorno in Irlanda del Nord, ha perso per 0-3, così compromettendo la propria posizione nel raggruppamento. La delicatezza del momento suggerisce una mobilitazione dell’intera Commissione, che sceglie le convocazioni per Lisbona in una riunione allargata al presidente Barassi.

Viene attuato un largo rinnovamento: da dieci i fiorentini selezionati diventano cinque, giubilato anche il portiere laziale Lovati. Esordiscono altri due “oriundi”, il campione del mondo uruguaiano Ghiggia e l’argentino Pesaola. Due soli i fiorentini in campo: Cervato e Chiappella, in un mosaico senza “blocchi” e senza un volto tattico preciso. Il risultato è addirittura catastrofico: 3-0 per i lusitani. Una disfatta pesante, pur potendo gli azzurri addurre ad attenuanti gli infortuni di Ghiggia nel primo tempo e poi di Chiappella in avvio di ripresa, in un’epoca ancora estranea alle sostituzioni in gara. Solo le prodezze del portiere Bugatti e la gladiatoria prova del centromediano Bernasconi impediscono al punteggio di assumere proporzioni ancora più umilianti.

La sensazione è enorme, per tacitare l’opinione pubblica viene deciso un nuovo (ovviamente parziale) blocco degli stranieri, in un momento di generale confusione, senza che poi alle tante parole di rinnovamento sbandierate in un “Programma di 14 punti” seguano fatti concreti. In fondo, mancano ancora due partite e tutto si può aggiustare.

Il 4 dicembre 1957, la sfida “che l’Italia non può perdere”, a Belfast contro l’Irlanda del Nord, volge in rissa, dopo essere stata declassata a incontro amichevole per assenza dell’arbitro. Termina in pari, con tanti rimpianti da parte azzurra. A San Siro, due settimane e mezzo dopo, la nebbia copre gran parte del ritorno col Portogallo, che gli azzurri risolvono comunque restituendo per intero il punteggio dell’andata ai lusitani. Un grande Ghiggia fa impazzire la difesa avversaria, ben coadiuvato da un brillante Montuori e dal solito Schiaffino, regista impeccabile, mentre come migliore in campo si segnala l’inarrestabile Gratton, autore di due gol. Una prova convincente.

La ripetizione di Irlanda del Nord-Italia è in programma per gennaio. Al momento di partire per Belfast, agli azzurri mancano per problemi fisici Cervato, Chiappella, Bean e Gratton. Assenze importanti, che portano Foni a rivoluzionare la formazione, inserendo nel reparto arretrato il quasi esordiente Vincenzi e in mediana il debuttante Invernizzi, entrambi destinati a inabissarsi di fronte allo strapotere avversario. In avanti, la difficoltà di trovare un adeguato sostituto all’interno Gratton suggerisce di arretrare Montuori a mezz’ala, per far posto in avanti a un altro “oriundo”, l’attaccante brasiliano Da Costa; quattro quinti della linea offensiva sono stranieri (ci sono anche i campioni del mondo uruguaiani Ghiggia e Schiaffino), ma soprattutto la squadra è fortemente sbilanciata.

Di fronte c’è un Irlanda del Nord che si conferma forte, tosta e senza complessi, nonostante sia pur essa fortemente penalizzata dalle difficoltà frapposte dai club inglesi e scozzesi a concedere i propri giocatori (il portiere Gregg, punto di forza, è rimasto a Londra). L’espulsione di Ghiggia nel secondo tempo, a seguito di un fallo su un avversario senza palla, priva la Nazionale di uno degli uomini più vivaci e ne fa affondare definitivamente le prospettive, nel momento in cui il gol di Da Costa ha riaperto uno spiraglio.

È la fine. Per la prima volta l’Italia resta fuori dal Mondiale. «Peccato che con questa batosta si sia reso il più bello dei servizi ai troppi nemici della Nazionale italiana, che questo proprio attendevano», commenta sconsolato alla fine il presidente federale Barassi: non c’è mai niente di nuovo sotto il sole. Le polemiche travolgono il carrozzone azzurro e innanzitutto Foni, che macchia la propria brillante carriera in modo indelebile. Mentre Pasquale, con una autentica “veronica”, esce dall’impasse facendosi eleggere presidente della Lega professionisti.

A commento, valgono, anche simbolicamente, le meste parole scritte da Vittorio Pozzo, l’ex Ct iridato, per l’occasione: «L’ultima partita della serie ha fornito una conferma così chiara e palese della nostra debolezza tecnica di gioco, da fare sgranare tanto d’occhi. Gli irlandesi avevano un gioco, e gli italiani no; i nostri avversari possedevano una linea, un piano, un carattere, e gli azzurri, invece, nessuno». Un’uscita di scena meritata.

I GRANDI ASSENTI

A vincere i nove gironi europei furono: Inghilterra (su Danimarca e Eire), Francia (su Belgio e Islanda), Ungheria (su Bulgaria e Norvegia), Cecoslovacchia (su Galles, poi qualificato a spese di Israele, e Germania Est), Austria (su Lussemburgo e Olanda), Urss (su Finlandia e, dopo spareggio a Lipsia, Polonia), Jugoslavia (su Grecia e Romania), Irlanda del Nord (su Italia e Portogallo), Scozia (su Spagna e Svizzera). Il Sudamerica qualificò in vetta ai tre gironi il Brasile (sul Perù), l’Argentina (su Bolivia e Cile) e il sorprendente Paraguay (su Colombia e Uruguay). Da Asia e Africa, dopo una serie di ritiri a catena, uscì Israele, cui per sorteggio venne opposto il Galles, che si impose con un doppio 2-0. Infine, il gruppo Concacaf, cioè America del Nord e Centrale, qualificò il Messico, vincitore nella finale di gruppo sulla Costa Rica.

Oltre all’Italia, dunque, le qualificazioni spazzarono via l’altra Nazionale bicampione del mondo, l’Uruguay, sorpresa in Paraguay senza gli “italiani” Abbadie, Ghiggia e Schiaffino e travolta da un umiliante 5-0. Comprensibile il disappunto degli organizzatori, che si videro sfilare due tra le carte più attese della manifestazione. Quanto ai singoli, l’Ungheria presentava vuoti incolmabili tra le proprie file: Puskas, Kocsis e Czibor proprio a cavallo del Mondiale attendevano il nulla osta Fifa per tornare all’attività in Spagna. Mentre l’Argentina era priva di Alfredo Di Stefano, la “saeta rubia”, militante nel Real Madrid e considerato da molti il più grande giocatore di tutti i tempi, e poi dei tre “angeli dalla faccia sporca” eroi dell’ultimo Sudamericano vinto sul Brasile, cioè Maschio, Angelillo e Sivori, emigrati rispettivamente al Bologna, all’Inter e alla Juventus.

GALLES E FRANCIA A SORPRESA

Il Mondiale prese il via l’8 giugno e le sorprese non mancarono sin dagli ottavi. Nel primo girone si consumò il dramma dell’Argentina. I biancocelesti avevano rinunciato all’apporto degli “emigrati”, convinti ugualmente di essere, come incautamente proclamarono alla partenza, «los mejores do mundo». Al debutto, che li opponeva ai campioni del mondo in carica, molte certezze si sbriciolarono: rapido vantaggio con l’estrema Corbatta, poi tutti al ricamo, in una danza narcisistica che la forza atletica dei tedeschi spolverò brutalmente. Il successo sugli irlandesi li rimise in carreggiata, ma l’incontro decisivo, con la Cecoslovacchia, li vide addirittura travolti con un punteggio tennistico. La vergogna venne, se possibile, acuita dalla successiva estromissione degli stessi cecoslovacchi ad opera dei nordirlandesi, nello spareggio per decidere la seconda qualificata oltre alla Germania.

Nel secondo girone, la sorpresa fu rappresentata dalla Francia, nelle cui file esplodeva Just Fontaine, cannoniere implacabile: sotto i suoi colpi cadde la Scozia, che aveva imposto il pari all’altra “grande”, la Jugoslavia, qualificata assieme ai “galletti”.

Nel terzo gruppo, la Svezia, che per celebrare degnamente l’avvenimento aveva deciso di abrogare l’ostracismo ai professionisti emigrati all’estero, schierava in campo una lussuosa fuoriserie, con la carrozzeria un po’ d’antan (i due “cervelli” Liedholm e Gren, avevano rispettivamente 36 e 38 anni), ma dal motore efficacissimo: due vittorie su due e passaggio garantito. Dietro, grande lotta tra i resti dell’Ungheria e il Galles, forte del poderoso fuoriclasse juventino Charles: allo spareggio, passarono i gallesi, stendendo l’atto di morte ufficiale della leggendaria “squadra d’oro”.

Il gruppo 4 non fu da meno, quanto a sorprese. Dal suo grembo nacque il mito del Brasile.

MENTALITÀ VINCENTE

L’ora più buia è quella che precede l’alba. Il Brasile, già uscito con ,le ossa dell’orgoglio a pezzi dai tre precedenti Mondiali, si tuffò nel cuore della notte un anno prima dell’appuntamento svedese, in occasione del “Sudamericano” a Lima, in Perù. Nonostante l’ormai consueta accolita di assi, la Seleção la faccia contro la realtà uscendone a pezzi: l’Argentina di Guillermo Stabile aveva i tre “angeli” Maschio-Angelillo-Sivori tra le estreme Corbatta e Cruz e vinse in finale con un bruciante 3-0.

Fu allora che la Federcalcio auriverde decise che era ora di finirla. Venne nominato “Direitor Tecnico General” il rotondo Vicente Feola, il più prestigioso tecnico brasiliano, con l’ausilio di Paulo Machado de Carvalho come consulente scientifico, in un’operazione in cui nulla doveva essere lasciato al caso. Feola selezionò quasi duecento giocatori passandoli alla “junta medica” di Machado, che provvide a scremare il tutto attraverso una miriade di esami clinici: solo il meglio del meglio sotto ogni profilo (da quello fisico a quello caratteriale) meritava la promozione.

Il risultato fu una rosa di 33 giocatori tra i quali Feola scelse i 22 per la Svezia. Tra questi, un ragazzino di 17 anni, Pelé. di cui leggiamo queste note sul “Calcio e Ciclismo Illustrato” nel luglio del 1957: «Ha uno scatto da centista e un “dribbling” infernale, nonché un tiro a rete potente e preciso ed un fisico, infine, che gli permette di resistere all’urto dei difensori più spigolosi». Il tempo avrebbe dimostrato tutt’altro che fuori dalle righe questo ammirato identikit.

Il Brasile dunque si presentò in campo contro l’Austria al debutto in Svezia. Feola schierò Gilmar (il più grande portiere della storia brasiliana) in porta; De Sordi, Bellini, Orlando e Nilton Santos (da sinistra a destra) in difesa a zona; Dino Sani e Didi in mezzo al campo; Joel, Altafini, Dida e il tornante Zagallo (considerato dalla stampa un “pallino” di Feola) dalla trequarti in su. Era il 4-2-4,

Altafini in realtà risultava a tabellino col nome “Mazola”, soprannome derivatogli dalla somiglianza fisica col leggendario Valentino Mazzola, leader del Grande Torino. Vincere fu un gioco da ragazzi, con due gol di Altafini e uno di Nilton Santos, ma Feola non fu contento. Voleva di meglio e per il secondo, attesissimo match con l’Inghilterra sostituì il raffinato Dida col poderoso centravanti di sfondamento Vavà, del Vasco da Gama. Ne sortì un nulla di fatto molto combattuto, una traversa colpita da una stangata di Vavà da lontano smise di tremare solo in serata.

Feola si convinse che le cose non funzionavano e convocò un’assemblea tra i suoi giocatori. Il dibattito fu acceso, i “mammasantissima” Didi, Nilton Santos e Bellini suggerirono di epurare Dino Sani, Joel e Altafini rispettivamente per Zito, Garrincha e il “baby” Pelé, finalmente recuperato da un infortunio alla caviglia. Una squadra dall’attacco micidiale, ma anche col prezioso gregario in grado di far funzionare tutto il meccanismo: l’ala Zagallo, che arretrava ad affiancare Didi e Zito (o Sani) per non lasciare in inferiorità numerica il centrocampo, così come era capace di coprire le avanzate di Nilton Santos, sublime terzino completo; per poi diventare ala pura, con perfetti fondamentali, a partire dal cross, per far parte integrante dell’attacco tutto assi. Vicente Feola, gran regista dietro le quinte dell’operazione “democrazia”, acconsentì alle… istanze della base e nacque la leggenda del grande Brasile.

Contro l’Urss, nell’incontro decisivo per la supremazia nel girone, si accesero i fuochi artificiali. Garrincha e Pelé cambiarono faccia alla squadra. Il primo possedeva un dribbling fulminante. sempre uguale, l’identica, irrefrenabile mossa, che consisteva nell’utilizzare come specchietto per le allodole la gamba sinistra, rimasta nell’infanzia offesa dalla poliomielite: Garrincha si arrestava di colpo, si piegava sulla sinistra, scartava sulla destra lanciando in avanti il pallone, per raggiungerlo subito dopo con uno scatto al fulmicotone. Pelé sgusciava da tutte le parti piroettando con un micidiale senso del gol, intuito e poi realizzato nelle situazioni apparentemente più proibitive. Dietro, Didi misurava i tempi del gioco con la sua regia precisa al millimetro, Vavà approfittava di spazi e palle gol create da un simile caleidoscopio di calcio puro entrandovi a corpo morto come il sasso scagliato dalla fionda.

Dall’altra parte il mitico Yashin, forse il più grande portiere della storia del calcio, oppose il suo monumentale fisico, manovrato da riflessi fulminei; parò otto-nove palle gol, si arrese due volte al centravanti e il giorno dopo i titoli si sprecarono sui giornali di tutto il mondo: «Nessuno può battere il Brasile».

Il girone però merita attenzione anche per l’eliminazione di una delle squadre favorite, l’Inghilterra. Dopo il fiasco del ‘50 e l’uscita ai quarti nel ‘54, i Maestri (o ex tali) incapparono in una nuova figuraccia. Pari in faticosa rimonta con l’Urss, pari come visto contro i brasiliani, pari, ancora una volta in rimonta, con l’Austria. L’Urss si aggiudicò meritatamente lo spareggio, con un gol a meno di un quarto d’ora dalla fine. Unica consolazione per la sfilacciata formazione inglese: alla fine sarà l’unica a non aver perso contro il rullo compressore verdeoro.

IL PIANTO DI PELE’

Superato il girone di ferro con sovietici, inglesi e austriaci, al Brasile i quarti affidarono un compito all’apparenza non proibitivo, il Galles privo dell’infortunato alfiere Charles. Intelligentemente, i gallesi la misero sul piano della forza fisica. Garrincha trovò un ostacolo quasi insuperabile nel coriaceo terzino Hopkins, al centro Vavà, assente per avaria, era sostituito da un Altafini intimorito dai contatti fisici con i rudi avversari. Però… però c’era Pelé, che colse una traversa e poi, a venticinque minuti dalla fine, inventò il prodigio del gol, con dribbling in area, cambio di piede al volo e rete nell’angolo alla destra del portiere. I compagni lo sommersero di abbracci e Didi dovette fermarne il pianto a dirotto di ragazzino felice fino alla commozione.

I campioni del mondo tedeschi fecero fuori la Jugoslavia con un sollecito gol di Rahn, difeso strenuamente per il resto dell’incontro. L’Urss, fiaccata dallo spareggio con l’Inghilterra, cedette alla Svezia, che entusiasmò i tifosi locali elevandosi ben oltre i prudenti pronostici iniziali. I “vecchietti” Liedholm e Gren reggevano alla grande, anche perché sapevano far correre divinamente la palla; la difesa aveva carte importanti da giocare, l’atalantino Gustavsson e Bergmark su tutti. E in attacco, due formidabili ali: Kurt Hamrin, detto “Uccellino”, un soldo di cacio dal palleggio saettante e dal tiro micidiale, e LennartNackaSkoglund, genio inarrivabile del pallone, estro e imprevedibilità ai massimi livelli. L’efficace cannoniere Simonsson completava un mosaico quasi perfetto, di cui fecero le spese i temutissimi russi.

Spettacolo di qualità anche a Norrkoping, dove la Francia stese i nordirlandesi con un poker di gol. A pilotare i transalpini, due attaccanti di valore mondiale: Raymond Kopa, origini polacche (Kopazewski il nome originario), alfiere del leggendario Real Madrid cinque volte consecutive campione d’Europa, centravanti mobilissimo e tecnicamente raffinato; e Just Fontaine, origini marocchine, agilissimo, dribbling e tiro brucianti. A sostenerli, lo svelto interno Wisnieski, il temibile incursore Piantoni e il versatile tornante Vincent.

SEMIFINALI

La prolifica Francia si trova di fronte al Brasile in semifinale, mentre i tedeschi, opposti ai “vecchietti” svedesi, prenotano la seconda finale consecutiva. Splendida la partita che oppone gli uomini di Feola a quelli di Batteux. Vavà, ristabilitosi, torna al centro dell’attacco e fulmina subito in avvio il forte portiere Abbes su assist di Pelé. I francesi reagiscono: allungo di Kopa per Fontaine che spara imparabilmente in rete. battendo il favoloso Gilmar. Battaglia alla pari per mezz’ora, poi lo stopper francese Jonquet si frattura il perone in uno scontro fortuito con Vavà e il Brasile prende il largo: Didi con una bomba da 35 metri porta in vantaggio i verdeoro e nella ripresa Pelé pretende la scena, deliziando la platea con gemme pure di calcio stellare. Segna tre gol il nuovo fenomeno mondiale e solo nel finale Piantoni rende meno avvilente il punteggio per i “coqs”.

Nell’altra partita cade la Germania, al cospetto del più arioso calcio svedese. Vantaggio per i tedeschi di Schafer, pareggio del funambolico Skoglund, poi l’espulsione di Juskowiak per fallo di reazione lancia gli svedesi, che nel finale bucano il bunker dei bianchi con Gren e poi Hamrin. Entusiasmo alle stelle per il pubblico di casa e grande attesa per una nuova esibizione del Brasile di Pelé, per il quale si sprecano i titoli cubitali dei giornali: il mondo ha trovato un nuovo “re”.

LA SVEZIA CI PROVA, VAVA’ E PELE’ LA SOMMERGONO

Ci provò, la Svezia, a ribaltare il pronostico, affrontando coraggiosamente il toro per le corna. Il Brasile metteva paura? La Svezia partì all’assalto al fischio dell’arbitro francese Guigue e colse già al terzo il frutto dei propri sforzi con un preciso tiro di Liedholm. L’aria della sorpresa non fece però in tempo a soffiare sul campo che già gli auriverde coglievano il pari con un’irruzione di Vavà a chiudere in gol una classica azione devastante di Garrincha: fuga sulla destra, il povero Axbom schiantato dalla celebre finta, mortifero cross al centro per il tiro del centravanti. Un gioco da ragazzi, replicato alla mezz’ora: gioco di prestigio di Garrincha, gol di Vavà.

Il Brasile ormai è padrone del campo. Della formazione titolare manca solo il terzino De Sordi, leggermente infortunatosi contro la Francia e sostituito alla grande da Djalma Santos, altro virtuoso del ruolo. La gente però aspetta Pelé e Pelé non la delude, realizzando uno dei gol più belli della storia del calcio: riceve palla da Djalma Santos appena dentro l’area, la controlla col petto facendola passare sopra la testa di Gustavsson, aggira l’avversario e, prima che la sfera tocchi terra, la tocca col destro facendole sorvolare la testa di Borjesson; infine, aggirato anche quest’ultimo, la spara al volo di destro nell’angolo sulla destra di Svensson: il tutto senza mai far toccar terra alla sfera. Il pubblico applaude a scena aperta, Pelé è senza dubbio “il” giocatore del Mondiale.

Il resto è un semplice, anche se degno, corollario, in una finale ricca di gioco e di gol come poche altre. Zagallo appone la sua firma sul Mondiale realizzando il suo unico gol, poi, dopo un netto rigore su Garrincha non sanzionato, Simonsson trasforma un assist filtrante di Liedholm in gol, confermando la statura della squadra svedese. Infine ancora Pelé vuole l’ultima parola: lancia Zagallo con un colpo di tacco, ne riceve il passaggio di ritorno e incenerisce Svensson con l’ennesimo capolavoro. A quel punto l’arbitro Guigue fischia la fine, per la prima, meritatissima vittoria mondiale del Brasile.