Enrico Albertosi: Intervista febbraio 1979

Un’intervista di Guido Lajolo della Gazzetta dello Sport celebrò le 500 partite del grande portiere: «E’ un traguardo che mi dà orgoglio e malinconia»


MILANO — Al suo paese, Pontremoli, da ragazzo lo chiamavano «ciossa», che in dialetto significa chioccia. Quello spilungone magro, dal viso simpatico, in mezzo agli altri ragazzini sembrava proprio una chioccia con i suoi pulcini. Giocavano al pallone da mattina a sera e lui, Enrico Albertosi, era il più bravo di tutti. Suo padre, un bell’uomo imponente, era stato un bravo portiere. Non ostacolò certo la carriera del figlio quando giovanissimo lo volle lo Spezia. Dopo le medie, Ricky studiava da maestro: mollò dopo il terzo anno, il calcio era diventato troppo importante. A 17 anni fece l’esordio in serie C e presto arrivò il grande salto: lo acquistò la Fiorentina.

«Ero abituato ormai a vivere fuori di casa. A Firenze mi ambientai subito. Davanti avevo un grande portiere come Giuliano Sarti ma ero giovane e non mi pesava fare la riserva. Piuttosto, guardavo con ammirazione i grandi giocatori della Fiorentina di Montuori, Lojacono, Hamrin, Gratton, Chiappella. Adesso, dopo due partite di serie A, ti dipingono già come un fenomeno. Allora bisognava disputare almeno due campionati per essere presi in considerazione. Non era facile sfondare. Ma io non avevo fretta. Vivevo in una villetta insieme ad altri giovani calciatori viola: Greatti, Carpanesi, Simoni. Non avevamo problemi. La Fiorentina era molto meno organizzata di adesso. Pochi i controlli. Se ti volevi divertire, non mancavano le occasioni».

Fu così che nacque la leggenda di Albertosi-Don Giovanni, di Albertosi giocatore di carte. E poi la passione per i cavalli.

«Ero amico di un driver, Orlando Orlandi. Lui mi ha inculcato questa passione. Con Maraschi comprai un cavallo. Feci qualche corsa e mi piaceva scommettere. Non molto, come si dice in giro. Non ho mai scommesso più di centomila lire. I giochi di carte mi piacciono tutti. Ho imparato nei lunghi ritiri. Dapprima guardavo gli anziani giocare, poi qualcuno mi lasciò il posto e cominciai. Divenni… titolare al tavolo verde. Mi piace anche fumare: un pacchetto al giorno. Che male c’è? Forse sono fortunato ma non ho mai dovuto fare sacrifici per giocare a calcio. Anche adesso vado sempre a dormire dopo mezzanotte».

Nel suo ristorante, il «Tatum» di via Stoppani, lo potete trovare tutte le sere. A quasi quarant’anni, ha ritrovato la felicità:
«Me l’ha data Betty, la mia compagna. Le devo molto. Le donne sono importanti per un uomo e per un calciatore. Per me, adesso, Betty è tutto».

Del suo matrimonio sono rimasti soltanto i figli:
«Per loro non ho lasciato subito mia moglie. Erano troppo piccoli. Quando sono stati in grado di capire, mi sono separato. Di mia moglie non m’è rimasto niente, zero. Per colpa sua dovetti lasciare Firenze. Mi cedettero al Cagliari e poiché la vita non è fatta soltanto di spine, calcisticamente parlando, il trasferimento al Cagliari fu la mia fortuna. Col Cagliari, infatti, mi presi la maggiore soddisfazione per un calciatore: vincere lo scudetto. Furono anni molto belli. Con Scopigno ci allenavamo pochissimo ma con il “mostro” là davanti di partite ne perdevamo ben poche. Il “mostra” era Gigi Riva. In Messico dormivamo nella stessa stanza. Riva tardava ad addormentarsi e la mattina si svegliava tardi. Valcareggi, prima di parlare con Riva, si informava da me di che umore fosse. Forse era una battuta: certo che Gigi, allora, era un personaggio influente. Nel Cagliari comandava lui. Una volta facemmo il ritiro precampionato vicino a Varese, così lui poteva andarsene a dormire a casa».

In Messico ci furono i 6 minuti di Rivera e l’Italia arrivò seconda dietro al Brasile.
«Io sono convinto che i sei minuti di Rivera siano stati soltanto una sfortunata coincidenza. Era già stato stabilito che nel secondo tempo Rivera avrebbe preso il posto di Mazzola. Ma poi si infortunarono in due e Valcareggi aveva paura di non avere più cambi. Quanto al Brasile, si disse che potevamo batterlo ma che eravamo stanchi. La vera finale per noi fu contro la Germania. Una partita indimenticabile».

Non è vero, però, che passando il tempo si ricordano soltanto le cose belle. Albertosi ha partecipato a quattro spedizioni azzurre ai «mondiali» ma di una soprattutto si ricorda: quella del ’66 in Inghilterra con la clamorosa e incredibile sconfitta di Middlesbrough ad opera della Corea.

«Un’onta che non riusciremo mai a cancellare. Mi ricorderò sempre il clima da tragedia negli spogliatoi, mentre Edmondo Fabbri, affranto, ripeteva come un automa: “Ragazzi, io non rientro in Italia, vado in Uganda”. A Genova ci lanciarono pure i pomodori. E poi, per tutta la stagione, la gente ci gridava “Corea, Corea”. Di chi fu la colpa? Di nessuno. Nel calcio succede».

— La sua migliore partita, invece?
«A Glasgow, contro la Scozia, con la nazionale di Lega. Pareggiammo per 1-1 ma, giuro, parai l’imparabile. I giornali inglesi scrissero di me cose bellissime».

— Quali sono i portieri più forti che ha visto all’opera?
«Jascin e Banks. Non mi sono mai ispirato a nessuno, anche se ho imparato molte cose da Giuliano Sarti. Però Jascin e Banks avevano tutto ciò che fa il grande portiere. La miglior dote è quella di riuscire ad infondere sicurezza alla propria difesa. E poi bisogna avere un rendimento costante, oltre naturalmente al piazzamento. Quelli avevano tutto».

— Perché i rapporti con Zoff si sono incrinati?
«Sapevo che era arrabbiato con me perché avevo dichiarato che i gol presi in Argentina erano parabili. Allora, quando ci siamo incontrati a Torino, l’ho fatto chiamare prima da Benetti e poi da Trapattoni. Lui, però, non mi ha voluto ascoltare e in campo non mi ha salutato. Giudicate voi, per me la questione è chiusa».

La rivalità scoppiò forse nel ’74 in Germania ai campionati del mondo.
«Forse, allora, lui era in condizioni migliori delle mie. Comunque, dopo tre partite tornammo a casa».

— E di Bearzot, che l’ha escluso dalla nazionale, cosa pensa?
«Che non è mai stato il mio allenatore».

— Qual è il giocatore più bravo che ha incontrato?
«Sivori. Ricordo che a Torino, una volta, riuscì a battermi dal limite dell’area calciando da seduto. Una cosa incredibile. Mi fece tre gol, quel giorno».

— Cosa significa per lei il traguardo delle 500 partite?
«E’ un fatto che mi inorgoglisce e al tempo stesso mi rende un po’ malinconico perché so che la mia carriera non potrà essere più molto lunga. Adesso, alle soglie dei 40 anni, mi accorgo che nella mia vita non avrei potuto fare altro che il calciatore. E il calcio mi ha dato tanto».

— Cosa chiede al futuro?
«Di starmene tranquillo con Betty, di vincere lo scudetto e di giocare in Coppa dei Campioni. Poi chiuderò e spero che il Milan mi assuma come allenatore dei portieri».

Albertosi, un fenomeno.

  • Intervista di Guido Lajolo – Gazzetta dello Sport, novembre 1979