ANCONETANI Romeo: il padre padrone

Sempre protagonista, nel bene e nel male. Portò i nerazzurri dalla C alla A, lanciò talenti come Kieft e Simeone


Antesignano dei moderni procuratori, aveva acquistato il Pisa nel 1978 e lo aveva lasciato nell’estate 1994, dopo il fallimento. Un presidente d’ altri tempi, polemico, vulcanico, scaramantico, un irascibile mangia-allenatori. Famosi i suoi riti col sale e i suoi pellegrinaggi. Trattava i giocatori come figli eppure era capace di assumere provvedimenti durissimi nei loro confronti. Un’avventura, la sua, nel mondo del calcio che merita di essere ricordata.

Nel calcio ci era entrato prestissimo. Toscano, nato per caso a Trieste il 27 ottobre 1922, a poco più di 30 anni era già segretario del Prato. Poi, nel 1955, venne scoperto a cercare di aggiustare Poggibonsi-Pontassieve. Corruzione e conseguente radiazione a vita. Un colpo duro ma non per lui che trova una nuova strada grazie a una licenza della camera di commercio di Pisa: mediatore. Praticamente il nonno dei procuratori di oggi. Si presenta al calciomercato al «Gallia» e fa subito centro. E’ al fianco di «raggio di luna» Selmosson a Roma e poi di Claudio Sala, il futuro «poeta del gol» al suo arrivo a Torino. E’ «mister cinque per cento», tanto guadagna da ogni affare, e stupisce tutti con un un archivio da far paura; si narra di oltre 5 mila pagine (altro che computer…) con dati e caratteristiche di centinaia di giocatori.

Nel 1978 ha una grande casa a Pisa, due ville a Castiglioncello, un’altra all’ Abetone, ha un pingue conto in banca e una scuderia di cavalli, ma gli manca qualcosa. Quello che gli offre il costruttore Rota: il Pisa. Diventa proprietario, ma non presidente per quella radiazione, fino al 1982, quando la vittoria mundial consentì l’amnistia. Quel giorno del 1978 comincia un’ avventura durata sedici stagioni di alti e bassi, di liti, di successi, aggressioni, lacrime e anche sangue.

«Il Pisa sono io», disse un giorno e quella frase sarebbe diventata lo slogan del suo regno, anzi della sua dittatura, altro che gestione. Ventidue allenatori cambiati in sedici campionati (Boniek il record, durò tre ore e mezzo…), scontri epici con tutti. A cominciare dai tecnici. Da Simoni a Lucescu, da Guerini a Materazzi, da Vinicio a Montefusco, tutti costretti a subire la sua ingombrante presenza, i suoi suggerimenti (ha sempre negato di dare consigli o, peggio, fare formazioni ma con scarsi risultati) pena il divorzio, esonero o dimissioni che fossero.

Gli disse un giorno del 1991 Agroppi «Non torno, preferisco vivere». E questo chiarisce bene l’idea. Con i giornalisti anche peggio: quando sbottava, dopo una partita o durante un ritiro, ce n’era per tutti. Con quella sua voce stridula e ruvida come la carta vetrata era capace di augurare maledizioni e brutte malattie, di minacciare radiazioni (lui se ne intendeva…) dall’albo professionale e stroncature di carriera. Insopportabile duce di tutto quanto si muovesse intorno al Pisa. Lo stesso faceva coi giocatori, trattati talvolta come figli, addirittura serviti a tavola in ritiro oppure accompagnati a messa alla domenica mattina o ancora omaggiati di quadri d’autore o trascinati, portafogli in mano, a comprare scarpe o cappotti. Oppure trattati come nemici, costretti a estenuanti ritiri in un albergo di Pescia che si diceva di sua proprietà, zittiti e rimbrottati sul campo, addirittura pedinati.

Inarrivabile nello scovare talenti sconosciuti, nel valorizzarli e nel rivenderli: dal danese Berggren, suo primo colpo col Pisa in A, pagato 270 milioni e rivenduto quattro anni dopo per 4 miliardi. Oppure l’ olandese Kieft, acquistato per 760 milioni e rivenduto per 5 miliardi. O ancora Carlos Dunga, capitano del Brasile campione del mondo nel 1998, preso per 600 milioni e rivenduto alla Fiorentina per un miliardo, o l’argentino Diego Simeone, per concludere con un altro danese, Larsen, diventato campione d’Europa e con Chamot.

Ma anche incredibile e scaramantico, come nei pellegrinaggi alla Madonna di Montenero o nel lancio del sale propiziatorio sull’erba dell’Arena Garibaldi: nel dicembre del ’90, prima della partita col Cesena, poi vinta, ne sparse ben 26 chili. Aveva ragione, il Pisa era lui: capace di scrivere quasi giornalmente, e inviare personalmente, centinaia di fax alle redazioni dei giornali («si smentiscono le notizie apparse»), di rispondere al telefono fingendosi centralinista per fare «filtro» nei confronti di se stesso, di fare piazzate indecorose per l’uso smodato di penne biro in società, di spiegare al cuoco come cuocere la pasta in ritiro e al magazziniere come risparmiare sulle bende.

Amato, Romeo, a Pisa per le quattro promozioni in A e per la conquista di due Mitropa Cup, ma anche mal sopportato, ferito nell’ottobre 1993 da una bottiglia lanciata dalla sua stessa curva rischiò di perdere un occhio. Non c’erano mezze misure, né per lui, né con lui, né intorno a lui. Se n’era andato nell’agosto del 1994 con un clamoroso fallimento conseguenza di un dissesto finanziario che nemmeno le buone amicizie in Lega e in Federazione riuscirono né a giustificare né a nascondere.

Seguirono collaborazioni col Genoa e col Milan come consigliere e come osservatore, ma la grande avventura dell’ ex mediatore arrivato a sedersi al tavolo dei Berlusconi e dei Boniperti si era ormai conclusa, soffocata da un calcio nel quale non può trovare più posto la figura del presidente – azzeccagarbugli, un po’ orco e un po’ padre, fine intenditore, scopritore di talenti, ma con un’anima da mercante levantino. Ma anche completamente fuori dal tempo, da questo tempo, inarrivabile protagonista (come Rozzi ad Ascoli o Sibilia ad Avellino) di un calcio finito dall’incalzare dei miliardi, dalle tv, dagli sponsor, dall’immagine.

Se ne va in silenzio nel novembre 1999 dopo una settimana di coma, culmine della malattia incurabile che lo affliggeva da tempo. Non ha cambiato la storia del calcio ma quella del Pisa sì. Ed è un’avventura che, malgrado tutto, merita di essere salvata. Della sua generazione (Rozzi, Viola, Mantovani, Allodi, Fraizzoli) sono morti in tanti, il folclore è diminuito, l’onestà e la competenza non sono cresciute, la falsità e l’arroganza di sicuro. L’umanità, solo un ricordo.