BALONCIERI Adolfo: il mito del Balon Boy

Uno dei più forti centrocampisti italiani di tutti i tempi pilastro della nazionale e del Torino degli anni ‘ 30

Se fosse possibile una graduatoria assoluta dei grandi registi del calcio mondiale di ogni epoca, probabilmente Adolfo Baloncieri, atleta di un tempo tanto remoto rispetto al nostro, figurerebbe tra i primi, se non il primo in assoluto. In lui infatti si compendiavano le doti migliori della “scuola alessandrina”, che avrebbe poi dato un altro fuoriclasse come Giovanni Ferrari, portate a un livello di perfezione tale da scolpire i contorni ideali del ruolo.

Adolfo Baloncieri era nato a Castelceriolo, in provincia di Alessandria, il 27 luglio 1897. Emigrato a sette anni con la famiglia in Argentina, ne tornò a quindici e subito entrò nelle giovanili dell’Alessandria, facendo parlare di sé per i prodigi della sua classe. Lo chiamavano “l’americano” e i tifosi andavano a godersi le sue finezze. A diciassette anni esordì in Serie A. Si presentò sulla scena smilzo, di statura media rispetto ai tempi, un mezzo sorriso orientaleggiante stampato sulla faccia e la stoffa del campione come abito tecnico. Cominciò da ala, poi divenne mezzala nell’imperante Metodo, che prevedeva i due interni parte integrante dell’attacco, col compito di tessere il gioco e andare direttamente a concludere.

Baloncieri era una macchina da calcio di impressionante regolarità: intelligenza tattica, prontezza di riflessi, senso dell’organizzazione del gioco, fantasia, lancio preciso, tiro potente e secco erano tutte qualità che galleggiavano alla pari sulla superficie di una adesione totale alle ragioni della squadra. «Il giuoco» scrisse Ettore Berrà «lo pensava come una realizzazione d’insieme, nulla doveva turbare l’armonia dell’azione, l’efficienza nasceva da una coordinazione di sforzi». Ecco perché Baloncieri, pur incarnando un equilibrio raro di doti tecniche e agonistiche (resistente alla fatica, tetragono ai colpi più duri), rifuggiva le iniziative da solista.

Baloncieri in Nazionale. Parigi, 24 aprile 1927: Francia-Italia 3-3

Approdò alla Nazionale nel 1920 e ne divenne un caposaldo, consentendole il salto di qualità per entrare nell’elite internazionale. Lo scriveva Renato Casalbore, grande giornalista della Gazzetta del Popolo e fondatore di Tuttosport, che aveva visto nascere il calcio e raccontava come Baloncieri rappresentasse in azzurro l’evoluzione del gioco “eroico” dei pionieri, impersonato dal predecessore Milano I: «Milano I aveva un ciuffo di capelli di traverso, gli occhi adirati e la voce aspra. Sì, la voce è il ricordo più vivo che mi ha lasciato Milano. Sferzava, incitava, implorava, aggrediva; esprimeva l’ansimo della lotta, cadeva in mezzo alle file scorate come una grandinata, eccitava, segnava il ritmo dell’attacco crescente, scandiva i colpi della difesa assediata. Venne Milano nella Nazionale che già c’era stato Fossati. Sorse Milano con la grande Pro Vercelli e tolse il posto a Fossati. I sostenitori del “gioco all’italiana” costituirono il suo partito. Questa frase del “gioco all’italiana” ebbe gran voga. Esprimendo un concetto che si può sintetizzare con una parola: sbaraglio. Giuoco da atleti dotati di gambe solide e di polmoni d’acciaio; senza tregua, tutto sbuffi di energia; come un susseguirsi di rivolte dei muscoli e della velocità contro la cadenza e il metodo. Fece il suo tempo. Caro tempo d’oro del nostro calcio. Peppino Milano ne fu l’espressione più perfetta. Sopravvenne la grande guerra; ripresero poi gli incontri, al periodo romantico ma già nutrito di realtà fece seguito uno di transizione che si inizia col dopoguerra e va fino a quando le grandi società, aperto il mercato degli acquisti, prendono a formare squadre omogenee che portano i primi blocchi nella compagine della Nazionale. Baloncieri sta nel secondo periodo come un riformatore. Egli porta nel giuoco l’istinto dell’ordine. Il gioco ha vent’anni; e della dolce età ha la sventatezza, la generosità e l’audacia. Baloncieri mantiene vive nelle sue caratteristiche le due qualità ultime, ma esse sono dominate dalla tecnica più pura, per cui egli resta un modello. Ha il senso della manovra, la percezione del movimento, l’intuito della posizione, la rapidità del tiro. È il giuocatore tipo. Latino al cento per cento nella gentilezza atletica, negli atteggiamenti, nell’intelligenza che non condanna il gioco alle leggi ermetiche del metodo. Sintetizza davvero un’arte calcistica latina che i giuocatori sudamericani esalteranno nelle squadre dell’Uruguay, dell’Argentina e poi in quella azzurra, portando alla vittoria un virtuosismo nuovo che dà un ritmo vibrante alla più preziosa tecnica calcistica. Ma soprattutto è il senso della gara, cioè l’arte della manovra, che è vigile nel giuoco di Baloncieri. Ed è questa sua spiccata tendenza all’armonia che lo fa passare da quello che abbiamo chiamato periodo di transizione al periodo più vicino ai nostri giorni, che è decisivo per le sorti del calcio italiano. Una mezz’ala del suo valore non si troverà più».

Milanese-Alessandria 1-3, campionato 1922-’23. Baloncieri cerca di sfuggire ad un difensore.

Arrivò al Torino nel 1925 per 70 mila lire, quando l’Alessandria ormai gli andava stretta, costringendolo a fare la vedette – ciò che soprattutto disdegnava. E fu squadrone, con l’argentino Libonatti e lo spezzino Rossetti a formare un trio fenomenale. In tre stagioni, due scudetti (di cui il primo revocato per il caso Allemandi) e un secondo posto dietro il Bologna. Giocò in granata fino al 1932, totalizzando 97 reti in 192 partite. In azzurro, 47 presenze con 25 gol. Alberto Fasano scrisse di lui: «L’intelligenza: ecco la virtù più eletta di Baloncieri, quell’intelligenza che trasporta il gioco dal piano dei vividi riflessi muscolari al piano della logica artistica nella quale l’intuito e la riflessione, l’immaginazione e la furbizia, il calcolo e il colpo d’ala, la prudenza e l’audacia, lo slancio e la freddezza si compongono in mirabile sintesi, blocco raggiante di valore». La portata immensa del suo magistero non poteva andare dispersa con la chiusura della carriera. Baloncieri divenne istruttore dei giovani granata, che vennero chiamati i “Balon boys”, marchio di fabbrica di molti campioni dell’epoca successiva alla sua, leggendaria, di giocatore. Muore a Genova dove viveva assieme all’unica figlia, professoressa, insegnante in un istituto genovese, il 23 luglio 1986 alla bella età di 89 anni.