Edoardo Bortolotti, una storia sbagliata

Si può scegliere di morire, non di nascere. Edoardo Bortolotti l’ha fatto. Si può anche morire di disperazione a venticinque anni, quando la vita dovrebbe sorriderti. Si è lanciato nel vuoto dal balcone di casa, l’hanno trovato che era ancora vivo e rantolava in una pozza di sangue. Era magazziniere di una ditta del suo paese, Gavardo, nel bresciano. Era stato calciatore, anche bravo, dicono. Una promessa. Cinquanta gare in B e dieci in A, duecento milioni di lire d’ingaggio ed un avvenire certo. Poi, la triste scoperta, la condanna, l’emarginazione: sniffava coca.

Non è facile entrare nei meccanismi mentali di chi si toglie la vita perché incapace di affrontarla o di governarla. Non è neanche giusto invadere la sfera del privato che dovrebbe appartenere soltanto ad ognuno di noi, senza che altri se ne possano appropriare per metterla in piazza o vivisezionarla per il solito pistolotto. Questa è la storia di Edoardo Bortolotti e della sua vita vissuta drammaticamente, con le contraddizioni, le ansie, le paure, le nevrosi che questa civiltà ci propina giorno dopo giorno ed attimo dopo attimo.

«Un giorno forse vi racconterò tutta la mia storia, anche se voi giornalisti, quando parlate di me, non mancate di tirare frecciatine riguardo al mio passato». Edoardo Bortolotti aveva pronunciato queste parole il 6 agosto 1993, in un’intervista, l’ultima rilasciata dall’ex giocatore del Brescia che il quotidiano «Brescia Oggi» aveva pubblicato dopo che aveva scelto di ripartire dalla serie C1.

Ma Edo si era tenuto dentro tutte le verità di una vita vissuta pericolosamente, che nemmeno la passione per il calcio aveva saputo riportare sui giusti binari. La mattina del 2 settembre 1995 alle 9,30, dopo essersi svegliato, gira per l’ultima volta la sua abitazione di Gavardo, il paese dov’era nato e viveva, guardando bene che papà a mamma (in quel momento in paese per delle commissioni) non potessero fermarlo. Tornato nella sua camera, al secondo piano di un condominio del centro, in mutande e maglietta si lancia nel vuoto. Non ha urlato, Edo. Dopo qualche minuto una vicina di casa, affacciatasi alla finestra per stendere della biancheria, lo vede riverso al suolo, ben distante dalla parete. Subito portato all’ospedale di Gavardo, Bortolotti viene trasferito in eliambulanza all’ospedale di Brescia, dove spira poco dopo mezzogiorno.

I motivi del gesto restano inizialmente oscuri. Molti dicono che era logico che finisse così, ma è una spiegazione di comodo. Bortolotti non lascia nessun biglietto per spiegare il suo gesto. E viene subito smentita la voce secondo cui, sul balcone della sua stanza da letto, ci fosse una siringa. In poche parole, che «si fosse fatto» prima di lanciarsi nel vuoto.

Bortolotti, nato a Gavardo l’8 gennaio del 1970, era cresciuto nelle file del Brescia. Difensore esterno dal fisico possente e dalle doti tecniche non indifferenti, a nemmeno 18 anni, il 1° novembre 1987, debutta in prima squadra a Bari. Dopo una stagione di apprendistato a Trento, torna al Brescia da titolare fisso.

Edo è un ragazzo particolare, alle prese con mille problemi esistenziali, acuiti dal grave infortunio capitatogli il 13 gennaio 1991, in una gara di campionato con la Lucchese. Un’entrata poco ortodossa del centravanti toscano Paci gli spezza una gamba. Forse, nei mesi della lunga inattività, Bortolotti cerca un facile sollievo dove non dovrebbe e infatti, il 28 aprile del ’91, viene trovato positivo all’antidoping dopo un Brescia-Modena in cui si era accomodato in panchina. Quel giorno Bortolotti non aveva giocato, l’allenatore Lucescu l’aveva mandato in panchina perché respirasse l’aria di partita. Ma era stato estratto per l’antidoping. Presto la verità: tracce di cocaina.

Il nome del terzino del Brescia era così finito in prima pagina. Con coraggio si era subito autoaccusato. Una lunga lettera per spiegare il suo momento difficile: la brutta frattura, un fidanzamento andato a monte. Ma, aveva aggiunto: «Ora provo vergogna, sono sicuro di non ricaderci più».

La sentenza della Commissione disciplinare (un anno di squalifica, poco meno di quella inflitta a un consumatore abituale di coca, come Diego Armando Maradona) fiacca il morale di Bortolotti e fa sfumare la trattativa che lo avrebbe portato alla Roma per la bella cifra di 6 miliardi.

Risalito il Brescia in A, il ragazzo di Gavardo pare destinato al rientro. Ma la frattura al perone è più cattiva del previsto (due operazioni) e lui, carattere già chiuso di natura, si isola sempre di più. Rientra il 24 maggio 1992, 15 minuti in BresciaAncona, prestazione modesta. Prima del suo «secondo esordio» aveva detto: «Ho vinto la mia partita più difficile». Ma forse sa che non è vero. Si lascia crescere i capelli, sulla Bmw va con l’acceleratore a tavoletta e a Gavardo lo vedono sulle panchine di piazza Moro con «certe» compagnie.

Inoltre non sopporta i continui rimproveri dell’allenatore Lucescu, i ritiri, gli allenamenti pesanti: «Troppo stress, dico basta al calcio», annuncia nell’estate del ’93. La soluzione sembra arrivare poco dopo, quando il Palazzolo, società della provincia, allora in serie C1, gli offre un posto. Sembra l’ambiente ideale per lui, tranquillo e sereno. Ma dura solo quattro partite e un giorno va alla sede del Brescia e anche se il contratto lo garantisce per altri due anni confessa che non ce la fa più. Il direttore generale del Brescia, Tonino Busceti ricorda: «Non accettava più i sacrifici di un vero professionista. In fondo era un bravo ragazzo ma gli è mancata la forza per liberarsi dai suoi problemi».

Prato-Palazzolo del 10 ottobre è per le statistiche la sua ultima gara da calciatore. Poi più nulla, a parte qualche allenamento con i dilettanti del Gavardo, la squadra del suo paese. Il dirigente Stefano Susio: «C’erano anche problemi economici, lui non guadagnava più e il padre, quando Edo pareva un astro nascente, aveva mollato un po’ il lavoro. Ma dal Natale 1994 non l’avevamo più visto».

Aveva promesso di rivelare tutto sul suo passato, sulle sue amicizie, sulla sua vita chiacchieratissima. Addirittura si era sparsa la voce che volesse fare il pompiere: «Macché pompiere – rispose nell’ultima intervista -. Io sono un calciatore. E per farlo nel migliore dei modi ho bisogno di tranquillità, di un ambiente senza pressioni, che non mi soffochi con ritiri lunghi e noiosi, con videocassette e cose di questo genere».

Forse, nel bigliettino che non ha lasciato, Edo avrebbe voluto scrivere queste parole.