Quel Cagliari a stelle e strisce

Cosa hanno in comune il Cagliari, Chicago e il calcio americano? La risposta è una storia incredibile, che si svolse nel lontano 1967, quando il Cagliari calcio si trasformò in Chicago Mustangs e partecipò al campionato USA.

Prima di Chinaglia e dei leggendari New York Cosmos. Prima di Bettega al Toronto Blizzard. E prima, ovviamente, anche dell’ultimissima ondata di campioni italiani in cerca di una seconda giovinezza dall’altra parte dell’Oceano. Parliamo di Insigne e Bernardeschi. Il calcio degli Stati Uniti si era dipinto di tricolore già negli anni Sessanta: non per l’estemporanea emigrazione di un singolo giocatore in cerca di avventure sportive, ma per il trasferimento in blocco di un’intera squadra, letteralmente presa in affitto da un manager locale.

Dopo aver concluso il campionato 1966-67 al sesto posto, il Cagliari lasciò i suoi colori rossoblù da squadra di provincia e si imbarcò su un volo intercontinentale per trasformarsi nei Chicago Mustangs, vestendo maglie bordeaux. Fu una trasformazione di identità alquanto insolita e limitata nel tempo: un mese e mezzo, il tempo necessario per partecipare – con il nuovo nome – al nascente torneo della United Soccer Association, una delle tante iniziative fallite per attirare gli spettatori dal basket, dal football e dal baseball.

Scriveva il Chicago Tribune: “Non tutti i giocatori del Cagliari verranno a giocare a Chicago, e non sappiamo quali porteranno”. E infatti Gigi Riva non partecipò alla trasferta in quanto reduce dal terribile infortunio rimediato in Nazionale contro il Portogallo.

La rosa del Cagliati 1966/67

Per comprendere come sia potuta accadere questa strana e folle avventura americana della squadra rossoblù, occorre tornare indietro a quel primo inizio di estate del 1967. A metà degli anni Sessanta, il calcio americano era in stato di coma o quasi. L’unica lega professionistica, la American Soccer League, era di fatto un torneo amatoriale, che non generava più di qualche migliaio di dollari a stagione.

L’unica alternativa era offerta dalla International Soccer League, fondata da Bill Cox, ex proprietario della squadra di baseball dei Philadelphia Phillies. La ISL, però, non era altro che un torneo estivo a cui partecipavano squadre europee e sudamericane di livello medio (tra le italiane: Sampdoria, Mantova, Lanerossi Vicenza, Varese), con poche squadre locali a fare da contorno: troppo poco per entusiasmare il pubblico americano, così la ISL fallì nel 1965.

Cox, invece di abbandonare il settore, ripropose l’idea di una lega professionistica interamente americana e, per una volta, redditizia. Cox non era solo: nonostante l’opposizione della federazione nazionale, che preferiva ancora la “povera” ASL, nel 1966 si presentarono due candidati a fondare leghe professionistiche di calcio: Richard Milieu con il suo progetto National Soccer League (NSL), e Jack Cooke, promotore della United Soccer Association (USA): quella in cui sarebbe finito il Cagliari.

La federazione, esasperata per tanto caos, chiese ai tre contendenti di unirsi: ci riuscì solo in parte. Cox e Millen si fusero nella NPSL (National Professional Soccer League) e ottennero un importante contratto televisivo con la CBS; Cooke, che inizialmente aveva pensato di aspettare il 1968 per avviare il suo progetto, appena seppe la notizia accelerò i tempi, ottenne il riconoscimento da federazione e FIFA e diede il via in tutta fretta all’operazione “United Soccer Association”.

Nel 1967, l’America vide la nascita di due campionati professionistici: uno ufficiale, guidato da Cooke, ma oscurato dalla televisione, e l’altro “clandestino”, ma ben visibile sugli schermi. Questo non è un caso isolato nella storia del calcio statunitense, dove un sistema di promozioni e retrocessioni non ha mai preso piede.

Con un breve preavviso, era impossibile per le 12 franchigie della USA formare squadre competitive. Tuttavia, Cooke propose una soluzione: invece di costruire una squadra pezzo per pezzo, sarebbe stato più veloce acquistare squadre intere. Di conseguenza, ciascuna delle dodici città coinvolte ospitò una squadra europea o sudamericana, “noleggiata” per l’occasione, per rappresentarla.

Le scelte, basate sul budget, furono in alcuni casi logiche e in altri bizzarre. A Boston, città con una grande comunità irlandese, fu assegnata una squadra di Dublino, gli Shamrock Rovers. Il Cagliari, l’unica squadra italiana, fu inviato a Chicago a causa della grande presenza italiana nella “windy city”. Tuttavia, questa presenza non era mai stata così grande come quella di New York, dove furono inviati gli uruguaiani dell’Atletico Cerro, sotto il nome di “New York Skyliners“. Le squadre inglesi erano una buona scelta per tutte le città (Stoke City a Cleveland, Wolves a San Francisco, Sunderland a Vancouver), mentre l’inserimento dei brasiliani del Bangu a Houston, in pieno Texas, era meno comprensibile. Anche le altre partecipanti (l’olandese Den Haag, i nordirlandesi del Glentoran, gli scozzesi di Dundee Utd, Hibernian e Aberdeen) non erano squadre di livello mondiale, ma la scarsa cultura calcistica del pubblico americano permise di pubblicizzarle come tali.

Il 28 maggio 1967, il torneo poté iniziare. La spedizione del Cagliari, in realtà, non iniziò sotto i migliori auspici. I giocatori arrivarono in America a scaglioni, e nella prima partita casalinga contro il Dallas Tornado (ovvero il Dundee United), al Comiskey Park, stadio di baseball dei Chicago White Sox – il cui proprietario Arthur Allyn Jr era anche il patron dei Mustangs – scesero in campo diverse riserve (dal secondo portiere Pianta al difensore Tiddia) e numerosi giovani, più l’atalantino Hitchens per il quale la campagna americana rappresentava una sorta di test (superato) finalizzato al suo acquisto.

28 giugno 1967, campo da baseball e poco pubblico per Mustangs-Cougars

La sconfitta per 0-1 fu seguita da un pareggio per 1-1 a Cleveland contro lo Stoke City del portiere inglese e Campione del Mondo Gordon Banks (che in seguito finirà a giocare ai Ft. Lauderdale Strikers). Poi finalmente arrivarono i “grandi”: Riva rimase in Italia, ma con i vari Nenè, Reginato, Cera, Boninsegna, Niccolai e Rizzo, i sardi dell’Illinois segnarono tre gol agli uruguaiani di New York e cinque ai Boston Beacons (gli irlandesi Shamrock Rovers, come abbiamo visto).

Il calcio di qualità è un concetto diverso. Come ricordava il portiere Adriano Reginato, “Immaginate di avere metà dell’area di porta in erba e l’altra metà in terra battuta. Eppure era così: giocavamo in stadi da baseball adattati al calcio. Quando ho visto il terreno, mi sono preoccupato: quale tipo di tacchetti dovrei usare?

In alcuni campi c’era anche il monticello del lanciatore“, ricorda il centrocampista Ricciotti Greatti, “Ho dei ricordi meravigliosi di quel viaggio. Il nostro quartier generale era un hotel di proprietà di Frank Sinatra, dove ognuno di noi aveva a disposizione tre stanze. Ci allenavamo nel parco, ci rilassavamo in piscina e partecipavamo a grandi feste con mille invitati“.

C’era allegria anche durante le trasferte, come ricorda Reginato: “Un giorno quasi tutta la squadra andò a Las Vegas, tranne me. Ma pensate un po’: era lontano, avrei dovuto spendere un sacco di soldi per il viaggio e poi perderne altri? Anche se Greatti mi prende ancora in giro, sostengo che la mia decisione fu sensata: avevo una moglie e un figlio piccolo, avevo bisogno di quei soldi“.

Il ritmo di gioco era intenso, a metà giugno il Cagliari aveva già disputato cinque delle 12 partite previste nella stagione regolare. Sembrava che gli italiani potessero ottenere qualche soddisfazione, ma a quel punto l’entusiasmo iniziale era già un ricordo. Gli stadi erano sempre più vuoti. Nonostante una capienza di 40-50mila spettatori, il torneo si concluse con una media di nemmeno 8mila presenze a partita.

La colpa era del gioco poco spettacolare e degli arbitraggi inadeguati, che sembravano fatti apposta per infiammare il pubblico composto principalmente da immigrati italiani, irlandesi e ispanici. E così, a New York, la rivincita contro gli Skyliners finì 0-0, ma fu interrotta da un paio di invasioni di campo da parte di tifosi italoamericani che erano furiosi con l’arbitro Goldstein. Pochi giorni dopo a Toronto, dove l’Hibernian era di casa, la partita finì in anticipo; dopo una serie di calci, risse ed espulsioni, gli scozzesi si portarono sul 3-1 con un calcio di punizione, mentre i cagliaritani protestavano, sostenendo che il tiro era partito mentre Reginato stava ancora sistemando la barriera. Ma l’arbitro non volle sentire ragioni. I Mustangs si arrabbiarono e lasciarono il campo tutti insieme, provocando un’invasione. I giornali canadesi titolarono: “Soccer Rio in Toronto“.

L’arbitro era un uomo alto due metri, ma qualcuno entrò in campo con un bastone di legno e lo colpì duramente“, ricorda Pierluigi Cera. “Fu un tour che calcisticamente non significava nulla. Giocavamo contro queste squadre britanniche e sudamericane e ogni volta bisognava stare attenti, perché se non finiva direttamente in rissa, ci si avvicinava comunque. In una delle partite ritrovammo il famigerato arbitro inglese Aston, quello di Italia-Cile del Mondiale 1962. Anche lì finì a spintoni. Rientrai in Italia quindici giorni prima degli altri, mi persi Los Angeles e San Francisco, ma avevo un buon motivo per lasciare il ritiro: dovevo sposarmi”.

Nel frattempo, dall’Italia arrivavano le solite voci di mercato: si parlava delle solite presunte offerte milionarie per Riva e le conseguenti telefonate intercontinentali tra l’allenatore Scopigno e il presidente Rocca, che già si sopportavano a malapena, non erano certo dolci. La crisi tra il patron e il mister sfociò nel licenziamento del “filosofo” della panchina. Faranno pace solo un anno dopo.

Nel frattempo i giocatori mormoravano: la squadra chiedeva qualche dollaro in più e tutte quelle settimane lontano da casa cominciavano a pesare. Addirittura lo stopper Vescovi (sembra con il benestare di Scopigno) andò dal console italiano a Chicago per chiedere il rimpatrio immediato della comitiva. Non se ne fece nulla: la missione fu portata a termine senza infamia né lode, con un bilancio finale di 3 vittorie, 7 pareggi e 2 sconfitte.

In realtà“, ricorda oggi Greatti, “eravamo una delle squadre più forti. Avevamo grinta e se in campo volavano calci, per quanto ci riguarda ne abbiamo dati più di quanti ne abbiamo presi. Avremmo anche potuto ambire alla vittoria, ma avrebbe significato rimanere in America una settimana in più per la finale, rientrare in Italia e iniziare subito il ritiro precampionato. Diciamo che nelle ultime partite l’abbiamo un po’ tirata via“.

Il campionato fu vinto dai Los Angeles Wolves (la temporanea incarnazione dei Wolverhampton Wanderers) in una finale circense con i Washington Whips (l’Aberdeen), 6-5 ai supplementari. Nonostante tutto, in quel folle campionato a stelle e strisce il Cagliari lasciò un segno. Fu quello di Roberto Boninsegna, che riuscì a laurearsi capocannoniere del torneo: per consegnare il suo nome a questa piccola storia gli bastarono dieci reti, segnate con la maglia di una squadra in prestito.