DIDI Waldir Pereira: il Principe Etiope

Tra gli Dei dell’Olimpo calcistico (Pelé, Maradona, Cruyff e pochi altri), ce n’è uno quasi dimenticato. Si tratta di Didì, il fulcro creativo che portò il Brasile in cima al mondo e che illuminò il centrocampo di Botafogo e Fluminense. Una figura sottovalutata che cambiò per sempre il modo di giocare a football.

Da dove iniziare la storia di Didì? Dai trionfi mondiali? Dalla sedia a rotelle sulla quale era relegato da adolescente? Dall’antipatia reciproca tra e lui ed un altro nume del calcio, Alfredo Di Stefano? Ci sono decine di momenti tra i quali scegliere, forse è meglio estrarne uno a caso dal vorticoso mix di ricordi e storia e vedere dove ci porta….

E’ la palla che deve correre, non il giocatore”. E’ così che un Waldir Pereira, meglio conosciuto come Didì, trentatreenne con la sua consueta eleganza rispondeva alla critica che lo vedeva troppo vecchio e lento per giocare nella Coppa del Mondo del 1962. Inutile dire che aiuterà i carioca a vincere il loro secondo titolo mondiale, anche se in campo i suoi movimenti non erano veloci come una volta ma la sua testa e il suo senso della posizione erano ancora più forti di chiunque altro.

L’intelligenza di Didì era per certi versi strabiliante. Vedeva sul campo movimenti che nessun altro poteva vedere, effettuava passaggi su traiettorie ritenute impossibili e intercettava la palla perché era costantemente due passi avanti rispetto agli altri.

Nemmeno uno come Pelè riusciva sempre a capire cosa riuscisse Didì a fare in campo. “A volte era troppo intelligente…. A volte fintava un passaggio da una parte per poi incrociarlo dall’altra. Capitava che ci confondesse e gridava: no, idioti, sto cercando di confondere l’altra squadra!”.

Queste caratteristiche lo resero uno dei calciatori più forti della sua generazione e, considerando le innovazioni da lui introdotte, di tutti i tempi. Combatteva l’idea che il calcio fosse una lotta tra chi è più potente: “L’intelligenza umana e la capacità di ragionamento ci distinguono dagli animali” disse una volta. “Allora che cos’è un giocatore che dipende esclusivamente dalla sua forza fisica?”.

Questo suo modo di intendere il calcio gli causò non pochi malintesi nel corso della sua carriera. Più volte, infatti, capitò che la sua calma ed eleganza venissero scambiati per pigrizia e mancanza di carattere. Ripensando al suo periodo con il Real Madrid subito dopo i Mondiali del 1958, disse: “Il pubblico spagnolo ama i calciatori che vanno in tackle ed abbattono gli avversari, ma io non ho mai fatto un tackle….perché dovrei farlo quando posso smarcare e mettere a reti i nostri attaccanti?”.

Capire bene il suo carattere significa capire bene il suo passato. Didì crebbe povero, giocando a pallone sulla terra battuta di Campos, una favela fuori Rio. Non ci sono regole giocando a calcio in una favela: se non sei quello che calcia la palla sei quello che viene preso a calci, devi imparare in fretta. Didì a 14 anni rimediò una brutta ferita al ginocchio durante una di queste partite. Succede, se finisci di giocare senza una botta o un taglio vuole dire che non stavi giocando…..

La ferita però provocò una brutta infezione, tanto da costringere i medici a pensare seriamente all’amputazione della gamba. Fortunatamente per il Brasile e per la storia del calcio, questa scelta venne scartata ma Didì passo i successivi sei mesi su una sedia a rotelle prima di riprendersi completamente dall’infortunio. Questa esperienza portò Didì ad odiare l’idea che la fisicità e l’aggressività potessero dominare nel calcio. Quell’idea gli era costata quasi una gamba, gli aveva quasi precluso la possibilità di uscire dalla favela e dalla povertà.

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Un infortunio così grave non si supera mai del tutto. Il dolore alla gamba era così forte quando provava a tirare da lontano che lo costrinse a sviluppare un nuovo modo di calciare colpendo il pallone al centro con solo tre dita del piede. Sviluppata al tempo del Fluminense, la nuova tecnica prese il nome di “fohla seca” per come la palla fluttuava in aria ammaliando i portieri. Una tecnica che oggi si può riconoscere in Cristiano Ronaldo e Gareth Bale.

Trascorsi sette anni al Fluminense, raggiunse nel 1957 al Botafogo le altre leggende brasiliane Garrincha e Nilton Santos. Nel nuovo club contribuì a formare un formidabile spirito di squadra e a conquistare il campionato di Rio (da ricordare un memorabile 6-2 proprio ai danni del Flu). Il trionfo preparò il terreno per i Mondiali 1958 in Svezia dove il Brasile avrebbe tentato l’ennesimo assalto alla Coppa, forte del rivoluzionario 4-2-4 ideato da ct Feola e di cui Didì era il fulcro. Qui la sua intelligenza gli consentiva di spezzare gli attacchi avversari per poi, cosa non comune per quei tempi, creare ripartenze diaboliche grazie ai suoi passaggi millimetrici. In Nazionale condivideva il centrocampo con l’energico Zito con cui si completava a meraviglia.

Il Brasile sbaragliò la concorrenza in Svezia con un crescendo di gioco e risultati culminati con il doppio 5-2 in semifinale contro la Francia e in finale con i padroni di casa. I gialloblu si erano clamorosamente portati in vantaggio con Liedholm già al quarto minuto. Didì, lentamente, camminò verso la sua porta, mise la palla sotto il braccio e ritornò tranquillamente verso il centro del campo tra l’esultanza degli svedesi e le facce esterrefatte dei brasiliani. Le parole che disse ai suoi compagni lasciarono il segno: “Calma, siamo migliori di loro e rovesceremo presto il risultato”.

I fatti gli diedero ragione: il Brasile pareggiò solo quattro minuti dopo, poi arrivarono altre quattro reti che consacrarono i verdeoro campioni del mondo per la prima volta. Non sappiamo se il risultato sarebbe stato lo stesso senza quelle parole rivolte ai compagni. Era il loro generale, il loro maestro. Gli aveva indicato come giocare la palla e come mantenere la calma di fronte alle avversità. Non sorprende che il celebre drammaturgo brasiliano Nelson Rodrigues nel descrivere il calcio dei verdeoro in quel magico periodo trovò in Didì una musa perfetta. Paragonando la sua eleganza in campo a quella di un “Principe Etiope”. Un soprannome che sarebbe rimasto nel tempo.

Ma il modo migliore di descrivere il suo stile di gioco venne da Pelé: “Per Didì giocare a calcio è come sbucciare un’arancia. Io non sono niente rispetto a lui, è il mio idolo”. Non è facile ascoltare il Pelé di oggi e sentirlo ammettere che qualcuno è migliore di lui. Ma anche gli Dei si sono dovuti piegare ai Titani. Esemplare che dopo il fischio finale della finale in Svezia era di Didì la spalla sulla quale piangeva il giovane Pelè, un’immagine diventata un’icona.

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Votato miglior giocatore del torneo mondiale, nel 1959, a sorpresa, il Real Madrid lo strappò al Botafogo. C’era solo un problema: i bianchi avevano già un loro leader, o meglio despota, in Alfredo Di Stefano. Tutti a Madrid, anche il grande Puskas, avevano dovuto sottomettersi al suo dominio. Il brasiliano venne subito percepito come un corpo estraneo, una minaccia alla dittatura instaurata nello spogliatoio. Il giorno della presentazione alla stampa, Di Stefano fu costretto a stringere la mano a Didì sussurrandogli: “Dicono che sei venuto a sostituirmi. Beh, sei troppo vecchio e non abbastanza bravo”. Di fatto, dopo un ottimo inizio, la “saeta rubia” sterilizzò il gioco di Didì rifiutando ogni tipo di dialogo in campo. Deluso dall’esperienza, il brasiliano ritornò nel 1960 al Botafogo dove vinse il Campionato Carioca del 1961 e 1962 e preparandosi al meglio alla Coppa del Mondo in Cile.

Alla soglia dei 34 anni era uno dei membri più anziani del team verdeoro ma questo non gli impedì di essere ancora il protagonista della riconquista del titolo mondiale. Unico rimpianto, l’infortunio che impedì a Di Stefano di partecipare a Brasile-Spagna, un’occasione attesa da Didì per dimostrare sul campo l’effettivo valore dei due.

I mondiali cileni furono il canto del cigno di Didì. Giocò ancora quattro anni tra Botafogo, Veracruz e San Paolo prima di intraprendere una discreta carriera da allenatore guidando Botafogo, Fluminense e il Perù ai Mondiali del 1970, dopo aver eliminato l’Argentina durante le qualificazioni. La Nazionale peruviana aveva campioni quali Teófilo Cubillas e Héctor Chumpitaz e raggiunse i quarti di finale dove fu eliminata proprio dal Brasile per 2-4. Didi allenò anche il River Plate nel 1971, vincendo poi il Campionato Carioca col Fluminense nel 1975 e il Campionato Mineiro per due volte col Cruzeiro (1976, 1977). Allenò inoltre i turchi del Fenerbahçe, che condusse alla vittoria di due campionati consecutivi dal 1973 al 1975. Chiuse la carriera da tecnico nel 1984, dopo un’operazione chirurgica alla colonna vertebrale.

Didì fu in ultima analisi una contraddizione assoluta. Si portava dietro un’aura di aristocrazia ed eleganza ma era un vero combattente. Non si tirò mai indietro di fronte ad una sfida e non accettò mai una sconfitta. Poteva essere in apparenza un “Principe Etiope” ma dentro era ancora il povero ragazzo di Campos, e ciò lo spinse ad essere sempre il migliore. Dopo aver quasi perso una gamba a 14 anni, Didì dormiva ogni sera con un pallone sotto il letto, anche da adulto. Disse che trattava la palla con “tanto affetto quanto mia moglie”.
E la palla, senza dubbio, sentiva lo stesso affetto per lui.