ERIKSSON Sven-Göran: Il profeta gentiluomo

Dai boschi di Torsby alla gloria conquistata in ogni angolo del pianeta. Storia del primo allenatore globale.

Torsby è un gran bel posto in cui vivere. Boschi, laghi, grandi silenzi e gente tranquilla. «Si fa, senza fretta. Il nostro motto è sempre stato questo» ripete Eriksson. Ma non è che lasci troppa scelta, in quanto a divagazioni. Meno che mai ne lasciava all’inizio degli anni ‘60, quando Svennis era ragazzino. C’era la scuola, naturalmente. E il cinema, ma soltanto una volta ogni due settimane. La televisione arrivò proprio nel 1960, in occasione delle Olimpiadi di Roma. Restava, e ancora resta per le cinquemila anime che ci vivono adesso, lo sport.

Il piccolo Sven inizia con l’atletica e poi si innamora del salto dal trampolino, una faccenda per uomini duri. E infatti: «Sono arrivato a saltare 70 metri, poi mi è mancato il coraggio. A quindici anni ho smesso, anche perché intanto nella mia vita era entrato il calcio». Mamma Ulla è poco convinta, vorrebbe che Svennis pensasse soprattutto allo studio. Papà Sven è felice, lui non gioca a calcio ma ha addosso la passione, è uno degli accompagnatori della squadra cittadina.

Il ragazzo va avanti, dal Torsby (Terza serie svedese) passa a Karlskoga, arriva a giocare in Seconda divisione. Nel frattempo frequenta la scuola superiore di educazione fisica a Orebro e inizia un corso per allenatori. Ha ventisette anni, quando approda al Degerfors: ancora Serie C, ormai più in là non si potrebbe andare perché gli impegni sono molteplici e anche perché il giocatore Eriksson, affidiamoci ai ricordi dell’interessato, è «un terzino destro che aveva sempre l’impressione di essere in ritardo. Difendevo così così, crossavo niente male». Tutto qui.

E allora, quando il tecnico Grip (che collaborerà con Sven ai tempi della Lazio) gli propone di aiutarlo sulla panchina, Svennis accetta di buon grado. È il 1976, la scelta definitiva è fatta. Una stagione da allenatore in seconda, con la promozione dalla C alla B. Poi Grip se ne va, chiamato dall’Under 21 svedese, e Eriksson resta solo sul ponte di comando e si fa notare, un po’ per i risultati del Degerfors che grazie a lui approda alla Serie A svedese, un po’ perché inizia a pubblicare le sue teorie, a mettere in giro il suo nome.

L’Europa in tasca

A volte i sogni si realizzano in fretta, più in fretta di quanto si pensi. Quelli di Sven Göran Eriksson diventano realtà nel 1979, quando lui fa il mestiere di allenatore da appena tre anni. All’inizio la chiamata dell’IFK Goteborg gli sembra uno scherzo, anche perché l’allenatore per le giovanili da quelle parti c’è già. Il fatto è che il Goteborg ha scelto la “linea verde”, e vuole Eriksson sulla panchina della prima squadra. Spazio ai ricordi, una volta di più: «C’erano giocatori come Ekstroem, Kindvall, Nordqvist. Pensavo a cosa mai avrei potuto dire a gente così esperta. Mi sorresse la mia filosofia: male che vada, mi dissi, tornerò dove sono partito».

Andò a meraviglia. Tre stagioni ai vertici, con la conquista della Coppa di Svezia nel ‘79-80, e poi la grande esplosione nell’81-82, stagione magica e indimenticabile: il Goteborg infila una serie positiva di settanta partite, vince il campionato, la Coppa di Svezia e addirittura la Coppa Uefa, mettendo sotto il Valencia nei quarti, il Kaiserslautern in semifinale e l’Amburgo in finale. «Ormai non spiegavo più nulla, le mie teorie, il 4-4-2. Ero decisamente meno rigoroso, non insistevo come all’inizio sulla palla lunga in profondità. Il fatto è che la squadra andava a memoria, ci conoscevamo già da tre anni».

Sven Göran Eriksson è il re della Svezia calcistica, potrebbe vivere a lungo dei frutti di un’annata perfetta. Decide di rimettersi in gioco, e il motivo è più che valido. Il suo Goteborg è tra le stelle d’Europa, le offerte fioccano. Bussano alla porta Hertha Berlino, Paok Salonicco. Bussa, soprattutto, il Benfica. «Il mio sogno era quello di arrivare sulla panchina di un club pieno di storia, al Goteborg lo sapevano perché avevo messo le cose in chiaro. Nessun problema, un addio pieno d’affetto».

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Con Glenn Stromberg, Benfica 1983/84

Svennis, il ragazzo che smise di saltare dal trampolino perché incoscienza e coraggio non si inventano, questa volta fa un salto in grande stile. Sensazione? Paura, ci mancherebbe. Anche perché l’accoglienza non è delle migliori. Il presidente Fernando Martins viene colto da malore nel tentativo di convincere il consiglio direttivo che quella di Eriksson è la scelta giusta. Diciotto dirigenti accolgono l’idea rivoluzionaria presentando le dimissioni. Incoraggiante. «E’ giovane, e soprattutto svedese. E i tecnici svedesi, eccezion fatta per Liedholm, non sono vincenti». l’argomentazione è questa, ma Martins tiene duro e lo svedese arriva.

Lo aspettano in tanti, all’aeroporto: giornalisti, cameramen, tifosi. È un’altra storia, un mondo infinitamente più grande di quello piccolo e antico del Goteborg. E Svennis ripete, come una filastrocca, la vecchia filosofia. «Se funziona, bene. Altrimenti ciao a tutti e si ritorna indietro». Poi, quando va a sedersi in panchina, dà il via alla sua personalissima rivoluzione: basta con il gioco corto, basta con la teoria del «guai a prenderle in trasferta». E basta con i ritiri, questa sì che è nuova.

Sia come sia, il Benfica a digiuno da parecchi anni sembra toccato dalla bacchetta magica e alla prima stagione vince campionato e Coppa del Portogallo, arriva anche a un passo dalla Uefa, perdendola in finale contro l’Anderlecht. La diffidenza dei portoghesi è un ricordo, Svennis il vichingo li ha conquistati a suon di risultati. La stagione seguente (‘83-84) porta un altro scudetto, ma è soprattutto quella della serata all’Anfield Road: Eriksson porta il suo Benfica nella tana del Liverpool, ovvero della squadra che più lo ha ispirato quando era ancora un apprendista allenatore. Sono i quarti di finale di Coppa dei Campioni, finisce 1-0 per gli inglesi e il Benfica se ne va con la sensazione di poter capovolgere la situazione nella partita di ritorno. La semifinale sembra a due passi, invece in Portogallo vincerà ancora il Liverpool (4-1) e per la prima volta a quel nome Sven collegherà un’idea precisa di delusione.

Innamorato pazzo

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Con il Presidente Dino Viola

La racconta così, Sven Göran Eriksson, la storia della sua folgorazione: «Conobbi Roma una domenica di gennaio del 1983. Ero venuto a studiare la Roma di Liedholm, futura avversaria del mio Benfica nei quarti di Uefa. Durante il tragitto in taxi dall’aeroporto al centro me ne innamorai. Così, d’acchito. E quando entrai allo stadio mi dissi che quello era un posto in cui avrei dovuto lavorare, un giorno o l’altro».

Bene, quel giorno arriva esattamente nella stagione successiva. Più precisamente, arriva la chiamata del presidente giallorosso, Dino Viola, e Eriksson la raccoglie. È in tribuna nella serata della speranza e della delusione, quello della finale di Coppa Campioni RomaLiverpool. È l’ultimo atto di Liedholm, che passa il testimone a un connazionale dalle idee chiare e dal curriculum già brillantissimo. Eriksson firma un biennale, il presidente Viola non gli parla di obiettivi. Ma gli promette una Ferrari «nel caso vincessimo il campionato. Perché sa, io prima di diventare vecchio lo scudetto vorrei vincerlo ancora».

L’inizio è duro. Davanti a Eriksson ci sono giocatori che hanno vinto il mondiale, e lui è decisamente diverso da Liedholm. Probabilmente, agli occhi della truppa, anche un tantino più pesante, più difficile da interpretare. E’ in corso un braccio di ferro tra la società e il suo giocatore più rappresentativo, Falcao, non tutti capiscono il verbo. «E io, probabilmente, ero preoccupato soprattutto di trasmettere le mie idee. Chiedevo aggressività, pressing, velocità. Ma non sentivo il feeling, quella squadra non era la mia squadra».

Risultato: settimo posto in campionato e un avvio della seconda stagione ancora più complicato, con Conti e Pruzzo, idoli della città, lasciati fuori dall’undici titolare. La scintilla scatta nel girone di ritorno: la squadra inizia a girare, Eriksson trova la classe di Cerezo e la sostanza di Graziani, ritrova soprattutto il miglior Pruzzo. Si affaccia alla penultima giornata di campionato in testa alla classifica: ha appena agguantato la Juventus a quota 41, recuperandole otto punti con tredici vittorie in sedici giornate.

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L’amaro epilogo con il Lecce

Una cavalcata, e il bello è che proprio in quel penultimo turno c’è da affrontare il Lecce, già matematicamente retrocesso, all’Olimpico. Una passeggiata, si direbbe. «Il problema fu proprio questo. Eravamo convinti, dopo la vittoria di Pisa. Avrei dovuto portare la squadra lontano dalla città, in quei giorni. Cercare di isolarla. Non lo feci, e finì come sanno tutti». Finisce, in quel dannato pomeriggio del 20 aprile 1986, 3-2 per il Lecce, così assurdamente corsaro che le voci di disimpegno che accusano la squadra diventano in fretta voci di piazza, e di popolo. Avvallate, in qualche modo, dallo stesso presidente giallorosso, che prende Eriksson da una parte: «Personalmente, lei lo scudetto lo ha vinto. Se lo ricordi sempre». Niente Ferrari, naturalmente. Fosse quello, il problema.

Resta la Coppa Italia, premio di consolazione. Toccasse ai titolari, dopo il crollo in campionato ci sarebbe da preoccuparsi. Per fortuna gli uomini più importanti sono partiti per il Mondiale messicano. Tocca ai giovani, che il loro trofeo riescono a portarlo a casa battendo in due confronti la Sampdoria. Ma qualcosa, inutile negarlo, si è incrinato. La stagione successiva, ‘86-87, costa a Sven Göran Eriksson il primo esonero della sua carriera. Con la Roma il capitolo è chiuso, con Roma per fortuna no.

Il colore viola

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La rosa della Fiorentina nella stagione 1987-1988

Boniperti ci aveva provato, a portare Eriksson alla Juve. Ma c’era la parola data a Viola, qualcosa di sacro. Una volta libero da impegni, Sven si mette alla finestra e non deve attendere più di tanto. La nuova avventura italiana parte da Firenze, perché evidentemente è destino che ci sia sempre una città d’arte sullo sfondo di questa storia. Certo, la Fiorentina non ha gli obiettivi della Roma. Ma ha, per esempio, Roberto Raggio, uno che se ami il calcio vale sempre la pena conoscere. L’enigma Baggio (attaccante o mezza punta?) per Eriksson non esiste: con lui il Divino Roby giocherà sempre davanti, anche se i problemi fisici non gli permetteranno troppe apparizioni.

Firenze è una tappa comunque importante, fatta di incontri professionalmente stimolanti. Quello con Ramon Diaz, «uno che pensava calcio, anche se non gli andava troppo di correre»; quello, soprattutto, con Dunga. «Un vero uomo squadra. Prezioso, necessario. Timido nella vita di tutti i giorni, grintoso e spesso arrabbiato dentro al campo», polemico, anche. A volte con lo stesso Eriksson, che ne apprezza comunque il valore.

La Fiorentina dei Pontello, si diceva, non è la Roma di Viola. La massima aspirazione è un posto in Europa, e Eriksson la porta dritta sull’obiettivo alla fine della stagione ‘88-89. Lo spareggio-Uefa è un disegno del destino: la Fiorentina batte la Roma (di Liedholm, a proposito di corsi e di ricorsi storici) il 30 giugno 1989. Finisce 1-0 al “Curi” di Perugia, e il gol è di un campione chiamato apposta da Sven per integrare un attacco che non può reggersi soltanto sui guizzi di un Baggio acciaccato e di Borgonovo. Quell’uomo si chiama Roberto Pruzzo, e di Roma è stato un re. E’ l’ultimo regalo di Eriksson a Firenze e ai fiorentini. Lui, ormai, dall’Italia non vorrebbe andarsene. Ma alla porta bussa di nuovo il Benfica, e il richiamo è troppo forte.

Ritorno in Portogallo

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Ritorno a Lisbona assieme al suo vice Toni

Il senno di poi. Quello che ti fa dire che forse, chissà, sarebbe stato meglio non tornare sui propri passi. Dopo. Ma Eriksson è legato al Portogallo, a Lisbona, ci ha anche comprato casa, una splendida villa a Cascais. Insomma, lo chiamano e lui va. Ma trova un altro clima, un’atmosfera diversa. Più pesante. I giochi, adesso, li fa il Porto, e il Benfica subisce anche fuori dal campo, a livello organizzativo. La rivalità va oltre i limiti, Sven si sente soffocare.

Alla prima stagione (‘89-90) mette in bacheca comunque la Supercoppa del Portogallo, e soprattutto approda alla finale di Coppa dei Campioni, a Vienna. E il 23 maggio del 1990, di fronte c’è il Milan di Arrigo Sacchi, campione uscente. «Una squadra fortissima, ma quella sera non giocò una partita straordinaria. Noi avevamo un bel gruppo, ma in attacco non pungemmo abbastanza. Non abbastanza per vincere». 1-0 per il Milan, occasione perduta. C’è ancora tempo per vincere un campionato, nella stagione successiva. Il terzo in quattro anni di panchina, considerando anche la prima esperienza. «Ma il Benfica era diventato un porto di mare, i giocatori arrivavano e se ne andavano troppo in fretta. Fecero le valigie Aldair, Ricardo, Mozer».

E poi, vuoi mettere la nostalgia per l’Italia? Chiama Pellegrini, vuole Eriksson all’Inter e i due si incontrano in Svizzera. Niente di fatto, la clausola di rescissione è troppo alta. Un anno ancora e chiama Mantovani offrendo la panchina della Sampdoria. E questa volta Eriksson parte. Direzione Genova.

Genova per lui

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Con Gullit alla Sampdoria

Cinque stagioni blucerchiate. Abbastanza per innamorarsi di una città, del suo mare, della sua gente. Certo, la Samp non è quella che Eriksson si aspettava. Aveva incontrato Vialli e Mancini in gran segreto, a Nizza. Roba da carbonari. Per parlare della squadra, del futuro, di idee e sogni. Ma quando il tecnico arriva a Bogliasco scopre che Gianluca Vialli non c’è più. Mantovani, ancora una volta, è un galantuomo. Prende Eriksson da una parte e chiarisce: «Mi spiace, ho dovuto cederlo perché devo pensare alla Samp. Ma se lei vuole può ripensarci, come se non avesse firmato».

Non ci ripensa, Eriksson. Galantuomo anche lui. Raccoglierà poco, nei suoi anni sampdoriani. La Coppa Italia del ‘94. Ma troverà il feeling giusto con un grande campione, uno che alla fine seguirà il destino dell’uomo di Torsby. Roberto Mancini, naturalmente.

«Non si innamori di Mancini, per favore. Ne ho già troppi, in famiglia». Scherzando, Paolo Mantovani l’aveva avvertito. Niente da fare, se conosci il “Mancio” ti ci appassioni. Parola, tra gli altri, di Sven Göran Eriksson. «E’ un grande giocatore. E anche un professionista esemplare. Quando si mette la maglia, sai già che darà tutto per far vincere la squadra. Quando lo conobbi pensavo di incontrare un divo, e invece trovai un uomo fatto che di calcio viveva e di calcio sapeva ragionare come pochi al mondo. Uno che gode di un gol, ma anche di un passaggio vincente per il compagno». Uno che il destino riporterà sulla strada del tecnico svedese.

L’altra faccia di Roma

Nel 1997 Eriksson ha praticamente chiuso con l’Italia. Il futuro è in Inghilterra, al Blackburn. C’è già la firma, quando arriva la chiamata di Sergio Cragnotti. Sven è tentato, ma non vuole mangiarsi la parola data. Dall’imbarazzo lo toglie Roy Hodgson, che rompe con l’Inter e prende la strada dell’Inghilterra al posto suo. Così, l’avventura riparte da Roma, naturalmente insieme a Mancini. «Curioso. Avremmo dovuto finire entrambi in Inghilterra, ci ritrovammo alla Lazio».

Arriva Mancini, parte Signori ed è un addio al veleno. Signori era uno dei re di Roma, la sua partenza accese la piazza. Contestazioni, anche dure. Ci vuole tempo, per riprendersi dallo choc. Poi, le cose si superano. La Lazio si riprende, improvvisamente ha un’altra faccia. Da campionato, la faccia che vuole Eriksson. Si ritrova, si diverte giocando. E diverte il pubblico. Sale dal nono posto dell’11a giornata al secondo della 25a. È a due punti dalla Juve, e con la Juve perde il ritmo al 28° ostacolo. Sarà un crollo: un punto in sette partite, settimo posto finale. C’è parecchia malizia, in chi puntualmente rispolvera il precedente di quel harakiri romanista dell’85-86, contro il Lecce di Fascetti.

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Con il presidente Cragnotti

Campionato ‘98-99. Altra rincorsa, ci mancherebbe: quando infila la serie, la Lazio è ottava alla decima giornata, 13 punti contro i 21 della Fiorentina capolista; quando la interrompe, perdendo alla 28a proprio nel derby, è prima in classifica e ha avuto un vantaggio massimo di sei punti sulla squadra viola, 56 a 50 alla 27a. C’è da soffrire, va bene, ma stavolta sembra proprio l’anno giusto. Invece arriva un imprevisto Milan in rincorsa, e fa il sorpasso alla penultima di campionato. Brutto film, per Sven Göran Eriksson. Già visto a Roma, sull’altra sponda. Brutto anche perdere uno scudetto per un solo maledetto punto, brutto sentire le solite voci, dopo.

Certo, ci sono anche i momenti felici. Come vincere una Coppa Italia e alzare un trofeo che la società biancazzurra non agguantava da ventiquattro anni. Come mettere in bacheca l’ultima Coppa delle Coppe della storia del calcio europeo. Certo, ci sono lampi di classe, momenti di gloria e giocatori da gestire, tanti e tutti campioni, abbastanza da far felici tre squadre intere. Manca qualcosa, comunque, e Sven Göran Eriksson lo sa. Perché lui di scudetti ne ha vinti quattro, uno nella sua Svezia e tre in Portogallo. Perché l’Italia ormai gli è entrata nel cuore, perché Roma è la sua città, proprio come la piccola Torsby. Perché certi traguardi, da queste parti, hanno un altro sapore.

La stagione 1999-2000 si apre con la Supercoppa europea vinta a Montecarlo a spese del Manchester United di Alex Ferguson, che due mesi prima aveva vinto Champions League, Premier League e FA Cup. In campionato la Lazio parte bene e mantiene la testa della classifica per buona parte del girone d’andata. Da gennaio a marzo rallenta vistosamente permettendo alla Juventus di andare in testa e di allungare fino a +9. La Lazio si lancia allora in un incredibile rimonta fino all’ultima giornata, che si concluderà col titolo di Campioni d’Italia proprio nell’anno del centenario della società romana. Pochi giorni dopo il titolo, la vittoria in Coppa Italia fa diventare la Lazio la quarta squadra nella storia del calcio italiano a centrare l’accoppiata.

L’inizio del quarto anno di Eriksson alla guida delle aquile vede la vittoria in Supercoppa italiana: sarà il suo ultimo trionfo alla guida della società capitolina. Di lì a poco infatti, lo svedese comunica di aver accettato la guida della nazionale inglese, iniziando a dividersi tra i due incarichi. La situazione sembra turbare l’ambiente della squadra, che nel nuovo campionato non si esprime al massimo delle sue potenzialità. Ciò lo porterà, il 9 gennaio 2001, a dimettersi. Lascia una formazione che in poco più di tre anni ha condotto al successo in Campionato, in Coppa Italia, in Supercoppa italiana, in Coppa delle Coppe e in Supercoppa europea.

Sogni Mondiali

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Rooney e Beckham, compagni di viaggio di Eriksson nell’avventura inglese

L’Inghilterra conta molto su Eriksson. L’obiettivo, non tanto nascosto, è riportare il titolo mondiale nella terra di Albione. Il quinquennio sulla panchina della Regina porterà invece più delusioni che gioie. Ai Mondiali nippo-coreani del 2002 il primo turno della fase finale viene superato con 5 punti, frutto di un successo contro l’Argentina e dei pareggi con Nigeria e Svezia, dopo aver battuto facilmente la Danimarca negli ottavi Eriksson si arrende nei quarti al Brasile di Scolari.

L’allenatore brasiliano sconfigge lo svedese anche agli Europei 2004, sedendo sulla panchina dei padroni di casa lusitani; l’Inghilterra approda ai quarti grazie soprattutto ai gol dell’astro nascente Rooney. La sfida con il Portogallo si trascina fino ai supplementari sul 2-2, prima che i rigori condannino gli inglesi all’eliminazione. Eriksson viene riconfermato alla guida della Nazionale, incontrando però il disappunto della stampa.

Già prima dei Mondiali tedeschi del 2006 viene annunciato l’addio alla Nazionale al termine della rassegna iridata. Anche in quest’occasione, l’Inghilterra viene eliminata ai rigori (e sempre nei quarti di finale) dal Portogallo di Scolari. Subito dopo la partita, Eriksson si dimette dall’incarico.

E’ questo l’ultima panchina significativa dell’allenatore svedese. D’ora in poi solo incarichi brevi e una raffica di esoneri: succede con il Manchester City e il Leicester in Premier League, con le nazionali del Messico e della Costa d’Avorio per non dimenticare ben 3 squadre nel campionato cinese. Un finale di carriera malinconico e non certo all’altezza della carriera di Sven Göran Eriksson, il profeta gentiluomo, il primo allenatore globale.