Marino Bartoletti: La partita della morte

Quel maledetto giorno, 29 maggio 1985, il grande Marino Bartoletti era inviato per conto del Guerin Sportivo allo Stadio Heysel, sede della finale di Coppa dei Campioni tra Liverpool e Juventus. Di seguito riportiamo la cronaca di quel mercoledì di sangue.

Nel derby del dolore anche la Juventus ha ora le sue stimmate di sangue. Maggio 1949, Superga: il cielo si abbatte sul Grande Torino e lo rapisce ai suoi tifosi e al mondo. Maggio 1985, Bruxelles: la follia omicida di una barbara orda di inglesi e la criminale inefficienza della polizia belga macchiano coi colori della tragedia quello che doveva e poteva essere il giorno più radioso della storia bianconera. E questa volta, a ruoli invertiti, è la squadra — anche la squadra — a piangere chi non c’è più. Mai un sogno era stato così stregato: mai una vittoria così dolorosa. Se, prima di Bruxelles, la Coppa dei Campioni, rappresentava per la Juve e per chi la ama la speranza più bella e più corteggiata: ora, quella stessa Coppa, quella stessa speranza realizzata, si sono trasformate in una maledizione. La Juventus voleva, inseguiva e meritava una gioia: ha ottenuto una gioia oscurata da trentotto croci. Una «gioia» che, per assurdo, la angoscerà e la perseguiterà per tutta la vita.

DA CHE PARTE si comincia a raccontare una tragedia? Dalla piacevole — e, a posteriori, assurda — ansia di una vigilia? Dalla già avvertibile, piccola angoscia che pochi attimi prima dell’esplosione della follia ti fa capire che non stai vivendo un giorno come gli altri? Dai cinque, lunghi eterni, agghiaccianti minuti in cui la strage si consuma sotto il tuo sguardo e fa sentire colpevole la tua impotenza? Dal brivido che ti spinge a lasciare il tuo posto e a correre fuori dallo stadio col cuore in gola per esorcizzare una visione di morte che invece apparirà puntualissima ai tuoi occhi? Dal sangue di un uomo sventrato che è la prima cosa che vedi appena girato l’angolo di quello che dovrebbe essere un tempio della pace? Dagli occhi lividi e fuori dalle orbite di una donna che fissa senza sguardo il cielo prima che una bandiera bianconera diventi il suo sudario? Dal pianto di un bambino di nove anni che urla «papà papà» aggrappato ad una barella che sembra una croce? Dalla paura — si dalla paura — che ti ricaccia sui tuoi passi e ti obbliga a «fare il giornalista» e a correre di nuovo in tribuna a raccontare quello che hai visto e che credi di aver sognato? Dallo sgomento che ti attacca il ventre e il cervello mentre ti aggrappi ad un telefono per raccontare cose che non tutti sono tenuti a credere o a capire? Dal dovere «professionale» che ti impone lucidità e buon senso, ma che poi ti spinge addirittura sul campo per vedere in faccia gente scampata alla morte o atleti che, sulla porta degli spogliatoi, ti interrogano con gli occhi sbarrati dall’incredulità? Da una partita di calcio che si svolge davanti a te come una macabra rappresentazione in play back? Da una Coppa levata al cielo come il calice dell’Offertorio? Dal pianto di chi incontri nella notte che non trova più il fratello, l’amico, il compagno di viaggio, e che ti si aggrappa alle braccia finendo solo col far sentire ancor più grande la tua inutilità? Dalla compagnia di pensieri che lassù, sullo stesso aereo che credevi di aver preso per vivere un’avventura di gioia, ti martellano la mente nel groviglio dei «perché»? Dall’incredulità di chi interroga quando arrivi, dal dolore che trovi e che tu hai ormai quasi consumato, dallo sbigottimento che la moviola dei ricordi ti distilla goccia su goccia, momento su momento? Dunque — allora — da che parte si comincia a raccontare una tragedia se nemmeno tu hai capito «quando» l’hai vissuta di più?

IL SETTORE Z. Stadio Heysel, ore 19 di mercoledì 29 maggio. Manca poco più d’un’ora all’inizio della partita. Gli spalti non sono ancora gremiti, anche perché gli ingressi che «filtrano» gli spettatori sono incredibilmente pochi. Anzi, «stupidamente» pochi: perché servono solo come ottuse strozzature e non — caso mai — come utili posti di controllo. I tifosi italiani, in una proporzione di sei a uno rispetto agli inglesi, entrano nella quasi totalità allegri e festaioli ovviamente inermi. I fans del Liverpool sfilano aggressivi e spocchiosi con cartoni interi — ripetiamo: cartoni interi — di bottiglie di birra sotto le braccia, molti sono ormai ubriachi fradici. I settori già stipati sono l’intera curva Sud (alla destra della tribuna centrale, quella — diciamo — del tifo bianconero organizzato) e i due terzi della curva Nord, ovvero i settori «X» e «Y» interamente occupati dai tifosi inglesi. Il tragico settore «Z» non è ancora pienissimo: è comunque, riservato agli italiani per l’esattezza alla parte più «mite» della nostra spedizione, ovvero ai gruppi di avventizi del tifo che hanno unito l’occasione della finale alla possibilità di effettuare un’escursione turistica. Ci sono molti nuclei o mininuclei famigliari, oltre a qualche italiano in Belgio e ai pochi stranieri presenti. Alcuni spettatori spaventati tentano di barattare (come in preda ad un presentimento) i loro biglietti per non correre il rischio di dover stare vicino agli inglesi. «Ho con me i miei due figli — ci aveva detto poco prima, un signore di Novara — non mi va di pagare 600 franchi per farmeli ammazzare». Nel suo gruppo, quello della «Squirrel Viaggi» di Milano, alla fine della disgrazia ci saranno due morti. Quella mattina, Piero Dardanello, direttore di «Tuttosport», aveva scritto in prima pagina sul suo giornale: «… stasera la grande sfida avrà una cornice certamente inadeguata all’importanza dell’avvenimento… ciò va a disapprovazione dei dirigenti UEFA i quali dimostrano di avere una miopia per la quale servirebbero lenti capaci di sopperire a qualsiasi deficienza di diottrie. Essi, infatti, non sono stati capaci di guardare molto al di là del loro naso burocratico…». E Dardanello, parlando di «miopia», ancora non poteva sapere a quali conseguenze avrebbe portato la cecità dei responsabili dell’ordine pubblico.

L’«HEYSEL» ha quasi 60 anni e li dimostra tutti. È l’unico impianto in cui in occasione di una finale di Coppa (prima del tragico Juve-Liverpool) già c’era scappato il morto. Le sue recinzioni sono gabbie da polli, i suoi mattoni sono come dei «Lego» friabili asportabili a piacere (e, dunque, potenziali proiettili), i suoi muri sono fragili staccionate. Che «resa» avrebbe avuto, si chiedevano tutti gli uomini di buon senso presenti a Bruxelles, all’impatto con le orde uligane? Possibile che la polizia o chi per essa non se ne fosse preoccupata? Possibile che gli agenti — abituati a fare i prepotenti e i duri tutt’al più con i militanti pacifisti della zona — non presagissero il livello di rischio? Possibile che le scene — non ancora preoccupanti, ma già ammonitrici — dei supporters britannici sulla «Grand’ Place» non avesse ispirato loro altro sentimento se non la spocchia, l’eccessiva sicurezza e addirittura il sarcasmo? Possibile che non avessero compreso la disparità di intenti delle due tifoserie?

ORE 19,08. Il settore «Z» ancora non è completamente occupato. Sono vuoti parecchi posti nella zona di confine fra le due tifoserie. O, ancora più verosimilmente, gli italiani si sono già «stretti» verso destra per lasciare almeno uno spazio-cuscinetto fra loro e gli inglesi. Questi ultimi danno ormai da tempo segni di nervosismo, ma sui gradoni non c’è nemmeno un poliziotto: una decina al massimo vigilano (?) al di qua della rete, dentro al campo. I tifosi del Liverpool, ubriachi e impazienti, effettuano una prima provocazione verbale verso gli italiani. Sembra uno scherzo al quale i tifosi juventini rispondono con allegria. L’«arrendevolezza» dei nostri, invece di smontare gli «animals», li aizza. Alle parole fanno seguito i primi lanci di bastoni e bottiglie: la reazione arrabbiata e indignata ma non attiva degli juventini si trasforma — per gli inglesi — in un segnale di attacco. La rete da polli crolla alla prima spinta e lascia passare un’avanguadia di commandos. Gli italiani si ritirano. «Hanno paura», dico a Italo Cucci che è vicino a me, senza pensare a quanti rimorsi mi avrebbe poi procurato quella stupida considerazione. Certo: hanno paura. E arretrano, arretrano ancora mentre le orde delle belve avanzano a folate senza che nessuno le fermi. «Ora la polizia interverrà brutalmente», penso e forse dico ad alta voce. In effetti cinque agenti con caschi e manganelli appaiono sui gradoni. Ma sono stuzzicadenti nell’Oceano. È il colpo di grazia per i nostri poveri tifosi che già terrorizzati, già colpiti da spranghe e bottiglie spezzate, già spinti giù dai loro posti, vengono presi dal panico. In pochi secondi nello spazio che potrebbe contenere mille persone si accatastano in seimila.

Ed è la fine. Crolla il muro che dà sull’esterno (e forse, per assurdo, è una valvola di sfogo che salva la vita a qualcuno), ma soprattutto si abbatte la recinzione che dà verso lo stadio. Chi non muore calpestato o asfissiato, muore strangolato, squarciato o sventrato contro i montanti d’acciaio o sotto il reticolato. La polizia, ormai abbrutita e inebetita a sua volta dal panico, prende a manganellate i tifosi che hanno realizzato che la loro salvezza può essere solo la fuga verso il terreno di gioco. A questi tifosi vengono opposte le spinte, le percosse e le transenne che poi serviranno da macabre portantine. Non sono neanche le 19 e 15. A un’ora esatta dall’inizio della «partita del secolo» la «tragedia del secolo» è consumata.

DAL GROVIGLIO escono le prime barelle: corpi inerti, disarticolati. I giocatori, già concentrati e ormai in partita vedono arrivare i primi feriti (ma non i più gravi, in quanto estratti dalla parte superiore del «mucchio»). Avverto subito la sensazione della tragedia: certo, non il clima da strage che poi tutti vivremo. Mentre scendo di corsa verso l’uscita faccio in tempo a scorgere i primi tifosi «superstiti» che, stravolti, laceri e in lacrime, si avventano verso la tribuna d’onore cercando di raccontare con frasi quasi sconnesse ciò che hanno appena vissuto. Matarrese e Baretti scendono verso di loro e li abbracciano increduli consolandoli con grande umanità per un «qualcosa» che hanno intuito essere terribile ma che non possono ancora aver focalizzato: i due esponenti della Lega si precipitano a loro volta verso la segreteria per coordinare assieme al Ministro De Michelis un’«azione» d’emergenza. Trovano solo interlocutori altezzosi o — non ci viene un sinonimo più aderente — rincoglioniti. De Michelis rischia l’arresto. Baretti si improvvisa questore. Io, uscendo, incrocio De Mita che sta entrando: vorrei dirgli ciò che ho già visto, ma mi viene — chissà perché — lo scrupolo di aver avuto impressioni abnormi. Il tempo di fare cinquanta metri fuori dallo stadio, verso destra e l’abnormità, l’orrore, la pena — insomma — la portata della tragedia mi appare sotto gli occhi.

È DIFFICILE, credetemi, trasmettere le impressioni di quei momenti. Sono «foto» che resteranno per sempre dentro di me e di cui non potrò mai fare o fornire la copia a nessuno. Le immagini, comunque sono quelle mandate in Italia dall’operatore della RAI I-soardi e che tutti avete visto. La mia sfortuna — diciamo cosi — è di averle vissute «dal vivo» e senza sapere (come sarebbe poi accaduto a chi ha guardato i telegiornali conoscendo già la portata dei fatti) che lo «spettacolo» sarebbe stato così agghiacciante, cosi assurdo, cosi apocalittico. Ho visto morire quattro o cinque persone, ne ho viste agonizzare a decine, ho visto l’incredulità di chi stringeva mani inerti, ho visto la commovente improvvisazione di chi cercava di rendersi utile, ho visto un medico italiano bestemmiare ed urlare «è impossibile che qui non ci sia un altro dottore?», ho visto una donna con una maglia bianca comprimere con le mani il ventre squarciato del suo uomo, ho visto la «ragazza dai calzoni verdi» che con l’immagine incredibilmente serena del suo viso ormai spento sarebbe arrivata in tutte le nostre case, ho visto un padre con la testa calva reggere in braccio un ragazzo sicuramente morto, con la bocca segnata da un filo di sangue, ho visto un omone con la barba spirare fra le braccia di un volontario della croce rossa disperato ed estenuato da un inutile massaggio cardiaco, ho visto un cane fare la guardia a un cadavere come se fosse quello del suo padrone. Ho visto il sangue venire verso di me dalla curva della morte come un piccolo torrente: simile a quelli d’acqua piovana che scorrono vicino ai marciapiedi nelle giornate di temporale. Ho vinto anche poliziotti — colleghi di quelli che avevo maledetto — tentare commoventi e impossibili respirazioni artificiali. Ho visto ragazzi sfregiati con la testa insanguinata e ne ho provato pena: senza sapere di aver davanti dei privilegiati. Ovvero dei vivi.

HO VISTO un uomo disperato che mi ha urlato: «Ho calpestato e forse dato il colpo di grazia a due persone. Ma se salvavo loro morivo io. Sono un assassino? Mi dica la verità: sono un assassino?». Un altro mi ha tirato per un braccio riconoscendomi e mi ha detto con la faccia sporca di sangue: «Mi sono salvato a bottigliate in faccia: cioè andavo contro gli inglesi che infierivano su di noi piuttosto che arretrare verso il macello». Ho visto un giovane e bravo collega al suo primo servizio importante, Maurizio Crosetti, sconvolto da quello cui aveva assistito: ma non mi sono certo sentito più forte di lui. Ho visto un altro collega siciliano, capitato per caso nella curva della tragedia, invocare inascoltato l’aiuto di una pattuglia di polizia che forse credeva ancora di essere al cinema. Ho visto un uomo di Arezzo con una borsa piena di giocattoli in mano: erano di un amico che glieli aveva «affidati un momento» e che invece avrebbe ritrovato all’obitorio. Ho sentito cento storie di orrore, cento testimonianze agghiaccianti, cento racconti di disperazione. Cucci se n’è accorto ed è sceso a sua volta, — con la macchina fotografica in mano — quasi ad avvicendarmi in una via crucis che sarebbe durata per tutta la notte.

VERSO LE 20 E 30, approfittando del caos più totale in cui lo stadio era precipitato, sono entrato negli spogliatoi assieme a Marco Bernardini di «Tuttosport»: e, da li, sono risalito verso il campo, sperimentando — questa volta — una sensazione nuova. Mescolati a gente spaventata e ad ultras rabbiosi, sbalorditi dal nuovo, inaudito spiegamento di polizia, incuriositi dalla grottesca esibizione di gendarmi a cavallo (più simili a personaggi circensi che a tutori dell’ordine) se ne stavano sulla porta degli spogliatoi quasi tutti i giocatori della Juventus. Sapevano e non sapevano: cercavano di interpretare l’accaduto attraverso le concitate testimonianze di chi passava nei paraggi. Dal loro punto di osservazione, fra l’altro, non potevano avere l’esatta percezione di ciò che era accaduto nel tragico settore «Z». Alcuni, comunque, avevano gli occhi umidi: interrogavano il vostro cronista, loro vecchio amico, e si incuriosivano alle sue verità reticenti. Guardavano gli amici e i parenti che stavano in tribuna proprio sopra di loro e si parlavano con gli sguardi e coi gesti. Bonini scuoteva la testa quasi in lacrime, Tardelli taceva, Caricola invitava gli amici ad andarsene, Tacconi si affidava alla testimonianza dei tifosi, Cabrini guardava col viso serio e intimidito, Brio confrontava le verità appena apprese con quello che gli era stato raccontato, Briaschi sembrava soffrire. Trapattoni entrava ed usciva dal tunnel come un leone del circo spaventato dai riflettori: «Marino, per favore, dai un colpo di telefono a mia figlia che sarà a casa in pensiero». Probabilmente sapeva più degli altri, ma si sforzava — con un supremo sforzo di grande professionalità — di mantenere calma, lucidità e freschezza. Prandelli, Limido, Bodini in tuta e Koetting in borghese, facevano la spola più frequente fra l’esterno e gli spogliatoi. «Non giocate ragazzi, non giocate», urlavano i tifosi. Loro, i giocatori, allargavano le braccia. Sicuramente, pur cercando di mantenere la concentrazione, a tutto pensavano, in quel momento, ma non ad una partita di calcio. Pietro Giuliano abbassava gli occhi: «Là in curva c’è anche mio figlio: speriamo bene». Alle nove e un quarto Gaetano Scirea saliva in cabina radio per leggere un messaggio: «Giochiamo la partita “solo” per permettere alle forze dell’ordine di organizzarsi. Non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi». Venti minuti dopo la partita.

CHE COS’È stata quella che si è svolta sotto i nostri occhi? Una partita di calcio? Un’azione di polizia? Un omaggio alla tragedia? Una rappresentazione a metà fra l’autentico e a metà fra il «pratico»? Non lo sapremo mai. L’abbiamo vista, certo, abbiamo persino annotato le azioni, le parate, le occasioni come si dovrebbe fare in tutte le tribune stampa del mondo. Ma fra noi e il campo c’era un diaframma quasi opaco: sporco di sangue e segnato non tanto dal dolore quanto — in quel momento — dallo stordimento. Un appunto sul taccuino e un pensiero altrove: una nota e un momento di mestizia, uno scarabocchio e un attimo di abbandono. La penna scriveva, la mente scappava di qua e di là in un aggroviglio di realtà e di flash-back. «Che cosa volete che sia una partita di calcio — aveva detto l’ex legionario Grobbelaar — per uno come me che ha visto la morte in faccia?». Già: che c’entra il calcio con la morte? Ventesimo: tiro di Walsh, para Tacconi. Appena fuori dalle mura dello stadio l’Atomium, monumento alla civiltà e al progresso: ma che c’entrano la civiltà e il progresso con le barbarie appena viste? Trentacinquesimo, ancora una grande parata di Tacconi su tiro di Whelan. «Mi dica: sono un assassino? Mi risponda la prego!». Dodicesimo della ripresa: rigore (?) su Boniek, segna Platini. Che buffo: in quella stessa porta era finito quattro anni prima un gol di Brio che forse avrebbe garantito la finale a spese dell’Anderlecht. L’arbitro annullò e in molti — noi compresi — ci si indignò. Che rabbia, che vergogna, che tragedia per un gol annullato così! Rabbia, vergogna, tragedia: ma quando mai impareremo ad usare le parole giuste al momento giusto?

QUANT’È costata questa Coppa? Quanto «vale» questa Coppa? Che cosa significa questa Coppa? Che cosa ricorderemo, fra trent’anni, di questa finale di Coppa? «Io — ha detto Giampiero Boniperti — tornerò ogni tanto ad osservarla nella vetrinetta ma credo che mi apparirà soltanto l’immagine di uno dei tanti morti che ho visto all’obitorio. L’immagine di un ragazzo di dieci anni, con un fazzoletto bianconero attorno al collo». Quel ragazzo si chiamava Andrea Casula: credeva di essere andato a Bruxelles per vedere una partita di calcio.

Aveva torto?

  • di Marino Bartoletti (originariamente apparso sul Guerin Sportivo n.23/1985)